Se usa ed europa rinunciano a governare la globalizzazione
Andrea Montanino Busiarda 8 10 2016
Nell’ultimo aggiornamento sull’economia mondiale che il Fondo Monetario Internazionale ha presentato martedì scorso, una lunga analisi è dedicata alle ragioni e ai rischi del rallentamento del commercio. È la prima autorevole voce che si alza in difesa del libero scambio e non è casuale che ciò avvenga a poche settimane dalle elezioni presidenziali americane.
Prima qualche numero: dal 2012 a oggi il commercio mondiale è cresciuto del 3 per cento circa all’anno, meno della metà di quanto avvenuto in media nei precedenti 30 anni. E se prima aumentava a tassi doppi del Pil, oggi cresce più o meno allo stesso ritmo. Le ragioni di un tale repentino rallentamento sembrano abbastanza chiare.
In primo luogo, c’è un sincronismo nei cicli economici che non si era mai verificato nel passato. Le precedenti crisi erano limitate a singole nazioni (Argentina nel 2001) o ad aree circoscritte (Sud-Est asiatico nel 1997) mentre la grande recessione ha coinvolto tutti i Paesi del mondo, riducendo ovunque la domanda di beni importati. Per capire l’anomalia della recente crisi, si tenga presente che il 2009 è stato storicamente il primo anno in cui il Pil mondiale invece di crescere è diminuito.
In secondo luogo, rallentano gli investimenti, che tradizionalmente hanno un ruolo importante nello stimolare le importazioni. Conta il clima di incertezza che spinge molti operatori a ritardare le scelte, il ribilanciamento dell’economia cinese verso i consumi interni e non gli investimenti, il generale rallentamento della domanda mondiale che non crea appetito per gli investimenti, malgrado i tassi di interessi siano a livelli storicamente bassi.
In terzo luogo, c’è un crescente ritorno al protezionismo. La grande recessione ha evidenziato i rischi della globalizzazione, con un livello di interconnessione dei mercati e una velocità di propagazione delle crisi mai sperimentati prima. Come risposta, si alzano muri e barriere, si reintroducono tariffe, si moltiplicano le misure temporanee di protezione.
La campagna per l’elezione del Presidente degli Stati Uniti è una dimostrazione di ciò. Trump e Clinton hanno pubblicamente espresso il loro dissenso per l’accordo sul commercio raggiunto dall’amministrazione Obama con i Paesi del Pacifico (la Trans-Pacific Partnership, Tpp) e non sono favorevoli a un accordo di libero scambio con gli europei, il Ttip. Pur se con toni molto differenti, entrambi sembrano sposare una linea dove proteggere le aziende americane che producono per il mercato interno è più importante di favorire quelle orientate verso i mercati esteri. Invece di individuare iniziative e politiche che possano portare sempre più imprese, soprattutto medie e piccole, a interagire con il resto del mondo, si propone un modello di chiusura.
Anche in Europa emerge una linea simile. Alcuni leader europei, il presidente francese Hollande su tutti, hanno espresso riserve sulle trattative del Ttip, che sembrano a molti ormai arrivate su un binario morto. Il voto nel Regno Unito apre una lunga fase di relativo isolamento per il Paese, non solo per le difficoltà che avrà nell’accedere al mercato interno europeo, ma anche perché sarà costretto a negoziare nuovi trattati commerciali con il resto del mondo e a richiedere l’accesso all’Organizzazione Mondiale del Commercio, di cui non fa parte.
Emerge la paura della globalizzazione, più che la volontà di governarla. Senza comprendere appieno i rischi. Il commercio stimola nuove idee, innovazioni, aumenta la competitività e alla lunga non può che portare benefici economici. Lo sa bene il miliardo di cittadini del mondo che sono usciti dalla povertà estrema nel corso degli ultimi 25 anni. Governare la globalizzazione implica favorire gli investimenti, il libero commercio, l’accesso ai mercati delle piccole imprese sulla base di un sistema di regole che disincentivi comportamenti scorretti. Si pensi ad esempio alla tutela delle condizioni di lavoro o alla definizione di standard elevati sui prodotti alimentari. Significa anche avere a disposizione gli strumenti di sostegno opportuni per chi non riesce a goderne i benefici, che per noi europei vuol dire riformare e non annullare il modello di welfare.
Questa sembra una strada più favorevole alla crescita che non cercare di tornare indietro di 30 anni. La nuova amministrazione americana, insieme ai Paesi europei, è chiamata a guidare questo processo, ma le premesse finora sembrano puntare in un’altra direzione.
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I russi in Siria «a tempo indefinito»
Il Parlamento di Mosca ha votato all’unanimità la ratifica dell’accordo stretto con Assaddi Alberto Negri Il Sole 8.10.16
Questa
guerra non è fredda - in Siria si contano migliaia di morti - ma non è
neppure frontale, è una sorta di conflitto ibrido dove gli attori locali
condizionano anche le mosse delle grandi potenze, Usa e Russia, che
stanno posizionando forze e schieramenti. Mosca lo fa affermando con
decisione quello che già sapevamo: non se ne andrà mai, se possibile,
dalla Siria. La Duma ha ratificato ieri (446 voti favorevoli su 446
presenti) il trattato firmato con Assad per la permanenza a tempo
indeterminato dei russi nella base di Hmeimim (Latakia), che si aggiunge
a quella navale di Tartous e ai sistemi antiaerei e anti-missile S-400 e
S-300. I russi, entrati in campo il 30 settembre 2015, sono schierati
nel cuore della Siria, una sorta di ex Jugoslavia araba che però secondo
Putin non farà la fine della Serbia di Slobodan Milosevic. Con questa
mossa la Russia non solo tiene sotto pressione gli avversari ma
garantisce il regime, cioè le gerarchie militari nel caso di una
transizione, e anche l’Iran, alleato storico degli alauiti siriani.
Teheran a sua volta conta sulla Siria e gli Hezbollah libanesi per
rafforzare la sua profondità strategica in Medio Oriente che passa anche
dallo stretto legame con il governo sciita di Baghdad. L’intesa
russo-iraniana è evidente ma gli interessi tattici potrebbero non
coincidere in futuro con quelli strategici: la Russia è potenza a tutto
campo che vuole avere buoni rapporti con il mondo musulmano sunnita e
non limitarsi a quello sciita.
Questa guerra è ibrida non solo
perché è stata rotta ogni barriera tra militari e civili - ostaggio dei
miliziani e bersaglio dei bombardamenti - è ibrida perché vengono
utilizzate tutte le tecniche possibili, terrorismo compreso, e anche per
il groviglio di interessi e alleanze. Sul fronte opposto a quello
russo-siriano-iraniano, ci sono gli Stati Uniti coinvolti in due
conflitti vicini ma assai diversi. In Iraq gli americani vorrebbero
sferrare l’offensiva per riprendere Mosul dal Califfato ma devono
contare sull’esercito di Baghdad, notoriamente alleato di Teheran. E il
governo di Baghdad, già in contrasto con il Kurdistan di Massud Barzani,
è in piena tensione con Ankara che mantiene truppe sul territorio
iracheno. Mai gli Stati Uniti occupando l’Iraq nel 2003 immaginavano di
potersi trovare dopo 13 anni in un groviglio così inestricabile. Sul
fronte siriano Washington deve manovrare con la Turchia, un tempo
pilastro della Nato, che detesta i curdi di Kobane appoggiati dagli
Stati Uniti, ma anche con Israele che occupa le alture siriane del Golan
e allo stesso tempo intrattiene ottimi rapporti con Mosca. Ecco perché
l’incontro tra Putin ed Erdogan ad Ankara il 10 ottobre assume una
importanza: se tra i due dovesse scaturire un’intesa può cambiare anche
tutta la partita siriana.
In questo clima bellico ma anche di
manovre diplomatiche e scambi di accuse reciproche, Mosca ha richiesto
la convocazione del Consiglio di sicurezza dopo l’allarme lanciato
dall’inviato Onu Staffan de Mistura secondo il quale Aleppo Est potrebbe
essere totalmente distrutta dai bombardamenti russi. La proposta di de
Mistura, sostenuta da Mosca, per il ritiro dei miliziani di al-Nusra in
cambio della fine dei raid è stata respinta: i jihadisti, affiliati di
al-Qaida, e riuniti nel nuovo Fronte Fatah al-Sham hanno dichiarato di
essere determinati a spezzare l’assedio. La Francia vorrebbe mettere ai
voti una risoluzione per una “no fly zone” mentre il segretario di Stato
Usa John Kerry ha accusato la Russia e Assad di avere bombardato gli
ospedali della Siria per “terrorizzare” i civili e ha richiesto
un’indagine per “crimini di guerra”.
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