mercoledì 26 ottobre 2016

La guerra tra poveri come guerra razziale si avvicina ogni giorno di più. Si salvi chi può

Goro, la cacciata dei profughi
A quel paese. La prefettura di Ferrara cede alle proteste e trasferisce 12 donne e bambini rifugiati. La diocesi: «Rivolta ripugnante» 
Marco Zavagli Manifesto GORINO (FERRARA) 26.10.2016, 23:59
Alla fine hanno vinto loro. Gli abitanti di Gorino che pur di non accogliere 12 donne rifugiate con i loro bambini hanno alzato barricate e protestato tutta la notte, accendendo i riflettori su questo paesino del Delta del Po. Il prefetto di Ferrara ha deciso il trasferimento del piccolo gruppo di rifugiati nei comuni vicini senza però riuscire a mettere fine alla protesta che è continuata anche ieri. Un episodio che «non fa onore all’Italia» dice il ministro degli Interni Angelino Alfano, mentre la diocesi parla di una «notte che ripugna alla coscienza cristiana». 
Strano destino quello dei pescatori di Gorino. Un tempo rischiavano la vita per salvare donne e bambini dalle acque. Ora respingono chi da altre acque, quelle del Mediterraneo, è riuscito a fuggire. Era la notte del 17 novembre del 1951. Il Po aveva rotto gli argini a Occhiobello, tra Ferrara e Rovigo. I pescatori di Goro risalirono la piena con le proprie barche per portare soccorso a chi era in balia dell’alluvione. «Non esitarono, nessuno esitò – raccontava Fidia Gambetti riportando su l’Unità la cronaca di allora -. Per 48 ore almeno e proprio nei momenti della massima piena, migliaia di vite umane dovettero la loro salvezza soltanto all’audacia, allo sprezzo del pericolo, alla perizia instancabile degli uomini che navigavano su codesti gusci di noce». Alcuni persero la vita. Ma «portarono in salvo 320 fra bambini e donne». 
Cosa è rimasto di «questo pugno di uomini intrepidi e da sempre dimenticati su un lembo di terra duramente conquistata giorno per giorno»? Difficile stabilire i contorni umani della rumorosa rivolta contro la decisione della prefettura di Ferrara. Difficile anche riportare i commenti che i manifestanti hanno affidato ai taccuini dei cronisti mentre sbarravano l’accesso a quell’ostello dal nome che suona oggi come crudele beffa, «Amore e natura». Eppure se un intero paese scende in strada spontaneamente per negare accoglienza a dodici giovani donne un motivo ci deve essere. 
E allora si prova a scavare nella recente storia di questo paesino di 600 abitanti sperduto nel delta del Po. Fino a dieci anni fa i goresi erano forse tra i pescatori più invidiati dell’alto adriatico. La Sacca sembrava un serbatoio inesauribile di vongole. Il prezzo dei molluschi era alle stelle. Poi il mercato si è incrinato. La natura ha fatto la sua parte. Il cuneo salino e l’aumento delle temperature hanno provocato morie di vongole. A questo si aggiunge una selvaggia pesca abusiva notturna. Tutti elementi che hanno messo in ginocchio l’economia locale. 
Bastano i motivi finanziari a giustificare quello sbarramento prima umano che materiale? Una domanda destinata qui a restare senza risposta. Certo fa riflettere la denuncia, etica, del prefetto Michele Tortora: «Abbiamo contattato i privati, tutti gli hotel e strutture ricettive della costa e tutti hanno risposto, appena sentito parlare di profughi, che le strutture sono già al completo». Per la cronaca, in ottobre il turismo sui lidi ferraresi è prossimo allo zero. 
L’esasperazione verso quello che, inutile nasconderlo, viene visto da buona parte della popolazione come un «pericolo invasione» trova terreno fertile nella destra. La Lega Nord, con l’appoggio di Casa Pound e Forza Nuova, nel capoluogo amministrato dal Pd, ha ottenuto seguito denunciando il degrado e la microcriminalità in zona stazione. A questo si aggiungono inchieste di procura e corte dei conti sui rapporti tra Comune di Ferrara e cooperative che gestiscono l’accoglienza. Tutto utile a far crescere la diffidenza. 
Ferrara un tempo era conosciuta come patrimonio Unesco, città d’arte e di cultura, patria d’adozione dell’Ariosto e del Tasso. E negli ultimi anni? Le cronache nazionali la ricordano per il caso Aldrovandi. Per l’assurda fine di Said Belamel, il 29enne morto di freddo dopo una notte in discoteca mentre chiedeva invano aiuto agli automobilisti di passaggio. Per la madre che ritira la figlia dall’asilo dove lavora un’assistente con la sindrome di Down. Per il medico vicepresidente dell’ordine che le dà ragione, perché «i Down devono stare in cucina e non a scuola». Per i commenti sui social di chi brinda al suicidio sotto un treno di un giovane nigeriano. Per l’esponente di FdI che promette di far fuori tanti profughi quanti ne sbarcano. Per un vescovo che augura a Bergoglio di fare la fine di Giovanni Paolo I. 
Ah, è vero. Grande spazio è stato riservato anche al «petaloso» nato dal «bell’errore» del piccolo Matteo. Qualcuno una volta chiedeva di restare umani. Sarebbe già molto tornare bambini.



La reazione irrazionale di chi si sente lasciato solo 

Giovanni Orsina Busiarda 25 10 2016
Non riesco a immaginare niente di più facile che stigmatizzare gli abitanti di Goro e Gorino, nel Ferrarese, per aver innalzato le barricate contro una ventina scarsa di migranti. Che per giunta erano donne - una addirittura incinta - e bambini. Diamo dunque per assodato che i comportamenti di goresi e gorinesi siano stati ispirati da una buona dose di egoismo e xenofobia. E che le dure parole rivolte loro dal ministro dell’Interno, dal prefetto Morcone, a capo del dipartimento immigrazione del Viminale, oltre che da innumerevoli italiani qualunque sui social network siano perciò giustificate.
Bene. Una volta che avremo sfogato la nostra indignazione, dovremmo però cominciare a chiederci se seguire la via facile significhi pure seguire la via giusta. Ossia, se la domanda che dobbiamo porci di fronte alle barricate di Goro e Gorino sia soltanto «che cosa pensiamo di loro», o non piuttosto: «come possiamo convincerli a non comportarsi così?». Un interrogativo tanto più pertinente, quest’ultimo, perché - pure a voler credere col ministro Alfano che goresi e gorinesi non rappresentano il nostro Paese - non paiono pochissimi gli italiani spaventati quanto loro.
Ma come, si dirà, spaventati da uno sparuto gruppetto di donne e bambini? Certo che no. Spaventati, però, dai molti problemi di cui quello sparuto gruppetto rappresenta un’avanguardia. Non vedo ragione perché proprio il delta del Po debba essere immune da una sensazione diffusa ormai in tutto l’Occidente, e in Italia ancora più forte che altrove: quella di aver perduto il controllo su noi stessi. Ossia, d’esser destinati nei prossimi anni a un declino che nessuno sembra in grado di arrestare, né lo Stato nazionale né l’Unione Europea, e in fondo al quale ci aspettano la scomparsa d’un modello di vita - se l’espressione non fosse troppo altisonante potremmo dire: il tramonto di una civiltà -, e il vanificarsi d’un benessere materiale che già adesso appare fragile e precario.
Certo, questa è una sensazione astratta. Proviamo però a collegarla con un dato concreto: il gruppetto di migranti del quale stiamo parlando è effettivamente un’avanguardia. Seguita, soltanto quest’anno, da altre centocinquantamila persone - ventimila in più di quelle che vivono a Ferrara. Persone che non si limitano più a transitare per l’Italia puntando verso Nord, come avveniva negli anni scorsi, e che in buona parte si fermeranno da noi. Ma mica andranno tutti e centocinquantamila a Goro! - si obietterà. No, naturalmente, e lo sanno anche i goresi. Quel che i goresi non sanno, però, è quanti alla fine andranno a Goro, e per quanto tempo resteranno, e in che modo saranno integrati, e se la comunità locale sarà aiutata a integrarli. E non soltanto quest’anno, ma per un numero imprecisato di anni a venire. Perché questi flussi migratori chissà quando si fermeranno.
Rivista in questa prospettiva, la sensazione astratta di aver perduto il controllo diventa anch’essa tangibile: si trasforma in una sfiducia profondissima nella volontà e capacità delle istituzioni di proteggere i cittadini, ossia di governare i processi in corso. «Tutti quei carabinieri, mai visti tanti» - così si sarebbe detto a Gorino, secondo le cronache. «Sono venuti a difendere loro da noi, non noi da loro».
Se «rivolte» come quella del Ferrarese scaturiscono dalla paura del futuro e dalla sfiducia nella capacità delle istituzioni di affrontarlo - e tanto più se le istituzioni fanno davvero fatica a governare problemi oggettivamente intrattabili, e non possono che chiedere al Paese tanta pazienza -, c’è da domandarsi allora se battere soltanto la via facile dell’indignazione, della condanna, dell’accusa di egoismo e xenofobia sia davvero la scelta giusta. O se non finisca piuttosto per esser controproducente: per accrescere in tanti italiani la sensazione già forte che le istituzioni non solo non li tutelano, ma nemmeno li capiscono, e che fa bene chi bada a proteggersi da sé.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


LA SOLITUDINE DELL’INDIGENO ITALIANO 
EZIO MAURO Rep 
Q UI NON c’è niente. Niente per noi, che ci siamo nati: figurarsi per gli altri”. Potrebbe finire sui manuali di storia dei nostri anni complicati questa frase di una cittadina italiana, probabilmente moglie e madre, abitante della frazione di Gorino sul delta del Po, che ha partecipato al blocco stradale del suo paese per impedire l’arrivo di dodici donne immigrate coi loro figli nell’ostello requisito dal prefetto.
SEGUE A PAGINA 29 LE STRANIERE sono state dirottate in tre altri centri del Ferrarese, Gorino continuerà a non ospitare nemmeno un immigrato, la protesta ha vinto. Smontate le barricate e il gazebo notturno i bambini possono tornare a scuola, i pescatori riprenderanno il mare. Tutto come prima? Non proprio. Quella frase dimostra che dall’egoismo del niente può nascere una vera e propria guerra per il nulla in cui viviamo. Che ci angoscia, ma che non vogliamo dividere con nessuno.
Sono parole sincere, fotografie brutali delle mille periferie italiane quelle pronunciate al posto di blocco di Gorino. L’ospedale più vicino è a 60 chilometri, il medico viene in paese un’ora al giorno e se ne va, gli uomini sono fuori in barca dal mattino presto fino al tardo pomeriggio perché vivono di pesca, quell’ostello prima requisito poi restituito funziona anche da bar, è l’unico centro di ritrovo del paese, ha qualche camera per i pochi turisti che in stagione vogliono fermarsi per un giro sul delta. È una vita minima, s’immagina di sacrificio, attorno alla casa, la famiglia e la pesca. Dovrebbe farci riflettere il fatto che l’unica volta in cui il paese si sente comunità, agisce insieme, trova un’espressione collettiva, è davanti alla notizia che arriveranno dodici richiedenti asilo. Gorino non ha stranieri, tutti sono del posto. Ma ugualmente reagisce ribellandosi al sindaco di Goro, al prefetto, al colonnello dei carabinieri che promettono di far fermare le migranti una sola notte in paese. «Cosa vengono a fare qui? Abbiamo già i nostri guai, non ne vogliamo altri».
Non ci voleva molto a prevedere quel che sta succedendo. La superficie sottile della civiltà italiana — la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale — si sta sciogliendo nei punti più deboli della nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate all’interno delle grandi città. Persone in buona parte anziane, estranee al circuito del consumo multiculturale, frastornate dalla globalizzazione, con gli immigrati si trovano nei giardini spelacchiati sotto casa un mondo che non hanno mai visitato e mai conosciuto, senza che le comunità siano state preparate a gestire il fenomeno, inquadrandolo nelle sue dimensioni, nelle prospettive, nel rapporto tra i costi e i benefici. Si sentono esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione.
Va così in scena una vera e propria lotta di classe in formato inedito, che mette di fronte la modernità esausta e logorata della democrazia occidentale con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per cercare sopravvivenza, e nient’altro. Gli ultimi si trovano davanti i penultimi, che non vogliono concedere agli stranieri un millimetro di spazio sulla terra che considerano loro. Se non fossero scesi fino appunto al penultimo gradino della scala sociale (quello di un ex ceto medio che viveva del proprio lavoro, e che con la crisi si sente precipitare nella mancanza di impiego e di futuro) non si sentirebbero sfidati direttamente dai richiedenti asilo che bussano alla nostra porta: non si sentirebbero “concorrenti”, invidiosi di quell’elemosina sociale che l’Europa elargisce con un’accoglienza riluttante, mandando i carabinieri a requisire sei stanze di un ostello vuoto in una stagione turisticamente morta. È l’ultima espressione del welfare state: nato come forma di solidarietà, come strumento di emancipazione e di integrazione — dunque di cittadinanza —, diventa simbolo di divisione e di identità, come un privilegio da consumare soltanto noi, al riparo dagli occhi stranieri e alieni.
Per capire bisogna avere il coraggio e la pazienza di guardare dentro l’impoverimento morale prodotto in ognuno di noi dalla crisi, che agisce sul sentimento di sé e degli altri. È un percorso scavato dalla paura e dall’insicurezza, due giganteschi motori politici di cui raccoglieremo i risultati avvelenati tra qualche anno. La crisi più lunga del dopoguerra, la mancanza di lavoro, l’erosione dei risparmi, la disoccupazione giovanile, il terrorismo jihadista nei nostri Paesi sono fenomeni che tutti insieme trasmettono la sensazione di un mondo fuori controllo, senza più governance, con la mondializzazione che diventa una minaccia, la politica e le istituzioni fuori gioco. L’insicurezza sociale determinava ancora domande politiche, l’attesa di una soluzione di governo. Quando l’insicurezza da sociale diventa fisica, cerca invece soluzioni pre-politiche o post-statuali, che rispondano a paure più che a bisogni, a una necessità di protezione più che di emancipazione, come se in gioco ci fosse non più la sicurezza del cittadino, ma l’incolumità dell’individuo.
Questa miscela fatta di spaesamento e solitudine, panico del presente e angoscia del futuro, si scarica facilmente e immediatamente sull’immigrato. Soprattutto nelle piccole comunità, e nel caso di anziani soli davanti allo spettacolo della paura moltiplicato dalle televisioni, c’è il timore di perdere il filo di esperienze biografiche condivise, che è quel che forma identità e comunità. C’è il timore, cioè, di finire “globalizzati” a casa propria, spostati senza muoversi, mentre il mondo fa un giro completo intorno a noi che non sappiamo più padroneggiarlo, con le nostre mappe diventate inutili. “Noi non siamo razzisti”, ripetevano davanti ad ogni microfono gli abitanti di Gorino sulle barricate. Ed erano sinceri. Ma siamo arrivati al punto che la coscienza di sé diventa esclusiva, la paura spiega l’egoismo, il destino degli altri non ci interpella: purché non qui da noi, finiscano dove vogliono, finiscano come possono, finiscano comunque. È la presa d’atto di una sotto-classe umana che non ha diritti e non può pretenderne, perché non assimilabile e dunque superflua, quindi inutile. Quanto alla sua pretesa di sopravvivere, alla sua ricerca disperata di libertà a costo della vita, è un problema che non ci riguarda: non noi, non ora, soprattutto non qui.
In questo modo mutiliamo la nostra umanità e rinunciamo ad ogni politica nei confronti dei migranti. La sostituiamo con il bando. Ci basta bandirli per non vederli, respingerli per allontanarli, non farli avvicinare per proteggerci. Non capiamo che solo una Europa che abbia un ministro degli Interni dell’Unione e una politica estera unitaria può affrontare il fenomeno. Dovremmo pretenderla, imporla, costruirla, invece di mettere in campo misure burocratiche e fisiche di selezione, le liste delle lingue e dei dialetti, la richiesta di esaminare i denti dei ragazzi richiedenti asilo per capire se sono bambini, minori o adulti, i rilevatori di battito cardiaco e di CO 2 al porto di Calais quando arrivano i camion, per scoprire se ci sono esseri umani nascosti.
Se la politica non contrasta il passo alla paura, rispondendo ai sindaci toscani che denunciano una sperequazione nelle quote di accoglienza, ascoltando il sindaco di Milano che chiede di uscire dall’emergenza perché ormai il fenomeno ha bisogno di misure strutturali, faremo crescere mille casi Gorino, tentativi disperati e inutili di privatizzazione della sicurezza nella dispersione di ogni sentimento di fiducia nello Stato, nel suo senso di giustizia, nella sua capacità di garantire insieme protezione e democrazia. Proprio nel momento in cui credono di poter far da soli, non lasciamo soli i cittadini di Gorino: lo sono già, in compagnia soltanto delle loro paure. Ma sul delta del Po, ieri è nata l’ultima nostra raffigurazione contemporanea, spogliata del cosmopolitismo, dell’identità europea, del multiculturalismo, del sentimento di cittadinanza del mondo. È l’indigeno italiano, ciò che certamente noi siamo ma che non ci eravamo mai accontentati di essere.
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Istruiti, fanno lavori poco qualificati E adesso i migranti comprano casa
La fotografia degli oltre 5 milioni di stranieri presenti nel Belpaese I reati sono in aumento, ma meno di quelli commessi dagli italiani di Karima Moual La Stampa 26.10.16
Che il fenomeno migratorio non sia più da considerare una fase temporanea ma una realtà stabile e radicata nel nostro Paese lo dimostra il volto della nostra quotidianità, nelle città come nelle periferie. Però a fotografarlo in modo scientifico, con numeri alla mano e analisi del fenomeno, è il dossier Statistico Immigrazione 2016 curato dal Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, i cui dettagli saranno presentati ufficialmente domani. Il primo dato che balza agli occhi è la presenza di immigrati in Italia, che è aumentata di dieci volte negli ultimi 25 anni arrivando a superare oggi i 5 milioni.
Dove abitano
Stranieri sì, ma con un forte desiderio di stabilità, a partire dalla voglia di acquistare casa. Se per l’Istituto di ricerca Scenari Immobiliari, gli immigrati sono per il 62,8% in affitto, il 19,1% in una casa di proprietà, l’8,3% abita presso il luogo di lavoro e il 9,8% presso parenti o altri connazionali, il dossier statistico segnala, invece, un vero protagonismo nel mercato dell’immobiliare soprattutto nel 2015.
Tra le cause principali c’è l’ampliamento dell’accesso al credito e la discesa dei prezzi delle case. A usufruirne, tra i non comunitari, sono soprattutto i soggiornanti di lungo termine e titolari di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, che per il momento si accontentano di acquistare appartamenti non molto grandi, possibilmente non di nuova costruzione o elevata qualità, in zone urbane periferiche o comunque non centrali (37% dei casi) o in piccoli Comuni della provincia (quasi il 50% dei casi). Ma il dato più importante è che i nuovi compratori immigrati non si concentrano in quartieri-ghetto, anzi. Spesso lasciano le precedenti zone ad alta densità di immigrati e si insediano in quartieri dove gli italiani sono più numerosi. Nel periodo 2008-2015, nonostante la crisi, gli immigrati hanno effettuato 446 mila compravendite.
Incidenza della criminalità
A fianco di fattori che segnalano un percorso di stabilizzazione, ce ne sono altri che evidenziano precarietà e sintomi di sfiducia verso i migranti. Tra questi i dati sulla criminalità, non drammatici, ma che segnalano un aumento delle denunce: «Dipende dall’incremento dell’attività criminale - spiega il dossier - da prendere in considerazione unitamente all’eventuale aumento della popolazione di riferimento (così è stato per gli stranieri) o alla sua diminuzione (così è stato per gli italiani)». Facendo un confronto: «Tra il 2004 e il 2014 (l’ultimo anno per cui si dispone di dati definitivi), le denunce sono aumentate del 40,0% per gli italiani (da 480.371 a 672.876), nonostante essi siano diminuiti (da 56.060.218 a 55.781.175). Per gli stranieri, invece, le denunce sono aumentate in misura più contenuta (34,3%), anche se essi nel frattempo sono più che raddoppiati (tra di loro i residenti sono passati da 2.402.157 a 5.014.437). Per loro, quindi, l’andamento è stato meno preoccupante». Ma l’incidenza delle denunce contro stranieri varia anche a livello territoriale: Nord-Ovest (42,3%), Nord-Est (42,0%), Centro (39,3%), Sud (15,0%) e Isole (15,5%). Questa diversità – spiega il dossier – sembra dovuta sia alla diversa situazione economica, sia al maggior controllo esercitato localmente dalle organizzazioni criminali. La Regione con l’incidenza percentuale più alta di denunce è l’Emilia Romagna (43,7%). Infine, il dossier fa emergere un’altra particolarità: colpisce, tra gli immigrati, la maggiore ricorrenza dei furti (incidenza più che doppia rispetto agli italiani). È il rilevante peso delle denunce per ricettazione, mentre la percentuale è identica per quanto riguarda le lesioni dolose. Di contro gli italiani sono più soggetti alle denunce per truffe e frodi informatiche.
Livello scolastico
Non la criminalità, ad allarmare è il dato sui migranti qualificati. Se da una parte si assiste all’esodo di italiani all’estero con diplomi o lauree, dall’altra si registra un ingresso di stranieri qualificati ma «congelati». «Sono scontenti anche gli stranieri che sono venuti in Italia con un livello di istruzione superiore», spiega il dossier. Nel 40% dei casi infatti sono chiamati a svolgere mansioni inferiori alla preparazione ricevuta. Questo sperpero di risorse intellettuali colpisce l’Italia più di altri Paesi industrializzati: «Tra il censimento del 2001 e quello del 2011, in Italia gli stranieri laureati sono aumentati di 243.163 unità e i diplomati di 840.945. Risulta poi che gli immigrati hanno lo stesso livello di istruzione degli italiani, se non leggermente superiore. Questi i dati: diplomati e laureati tra gli immigrati 35,3% e 9,1% (tra gli italiani, rispettivamente, 32,1% e 11,8%)». Dati che confermano ancora una volta quanto bisogna fare per valorizzare quella risorsa chiamata immigrazione. 

“Cerchiamo aiuto e voi ci cacciate, per favore fermate questo odio”
Joy, Belinda e Faith: parlano le rifugiate allontanate dal paese
Una è all’ottavo mese di gravidanza, un’altra era minacciata dagli islamisti
l’infermiera la futura mamma fuga da da Boko Haram
di Caterina Giusberti  Repubblica 26.10.16
FERRARA. Sembrano delle bambine: con le felpe col cappuccio calate sugli occhi, le mani sottili, l’aria sfinita. Otto arrivano dalla Nigeria, due dalla Costa d’Avorio e due dalla Sierra Leone. Scappano chi dalla guerra, chi da Boko Haram, chi dalla propria famiglia. Una di loro è incinta all’ottavo mese. Prima di sabato non sapevano neanche che esistesse, un Paese chiamato Italia, ma quello che hanno visto e sentito dai finestrini del pullman che lunedì sera ha fatto inversione sulla Ferrara Lidi lo hanno riconosciuto all’istante. «Mi rivolgo alle persone che ci hanno respinto — alza gli occhi Belinda, 22 anni — Ci hanno fatto male: dove vogliono che andiamo? Siamo qui per avere protezione. Fermate questo odio, per favore, siamo tutti una cosa sola, al mondo. Forse quelle persone non conoscono la nostra storia». Forse no. E allora loro la raccontano, in inglese, a bassa voce, una dopo l’altra. Tornate da Goro, lunedì sera, hanno aspettato per ore nella caserma dei carabinieri di Comacchio che un frenetico giro di telefonate permettesse loro di trovare almeno un posto per la notte. Era passata la mezzanotte quando Belinda, Joy e Faith sono arrivate in un centro per anziani di Asp, a Ferrara, dove un’altra nigeriana, Success, è ospite alla Caritas. Le altre ragazze respinte da Goro, tutte sui vent’anni, sono quattro in una casa famiglia di Codigoro e quattro in un albergo di Fiscaglia.
Belinda ha ventidue anni ed è scappata cinque mesi fa dalla Sierra Leone, dov’era un’infermiera. È sposata e suo marito, spiega, «è stato incarcerato dal partito, per vie di alcune manifestazioni politiche alle quali aveva partecipato». Quando lui è evaso, la vita anche per lei ha smesso di essere sicura. «Mi cercavano, credevano sapessi dov’era: avrebbero incarcerato anche me, così sono fuggita». Arrivata in Libia, c’è rimasta «due mesi e due settimane». Lo ricorda con precisione perché «la vita lì non andava bene, gli uomini arabi volevano violentarmi, così sono scappata dal centro governativo in cui mi trovavo e sono andata verso il mare». C’è rimasta due settimane, a sopravvivere, finché non ha visto un barcone. «Li ho supplicati e loro hanno accettato di farmi posto, anche se non avevo i soldi per il viaggio». Poi è arrivata in Italia, a Bologna e infine a Goro. «Mi ha molto ferito quello che ho sentito — spiega — io voglio pregare queste persone di smetterla, non va bene quello che fanno, io sono qui per chiedere protezione internazionale ». È la più grande del gruppo e si vede, protegge le altre come una sorella, soprattutto Joy, al suo fianco: «Siamo cugine», dice.
Joy ha vent’anni, viene dalla Nigeria ed è incinta all’ottavo mese. Sarà la mamma di un bambino, che, assicura, sarà sicuramente maschio e si chiamerà sicuramente Michael. «Spero di dargli la vita migliore possibile». Spera anche di ritrovare il suo compagno, il papà del bambino, che si chiama Lamin Dampha e ha 25 anni, lo cerca da quando ha messo piede in Italia. «L’ho perso di vista quando siamo saliti sulla barca in Libia — racconta — a me hanno fatto posto perché ero incinta, ma lui non so neppure se sia riuscito ad imbarcarsi: c’era troppa gente, il mare puzzava e le persone mi salivano sulla pancia». Joy scappa da suo padre. «Faceva riti vodoo e voleva che mi convertissi alla sua religione — spiega — poi si era risposato con una donna cattiva con me. Ho deciso di scappare via col mio ragazzo, volevo farmi la mia vita, ma sono rimasta incinta. A quel punto mio padre ha minacciato di ucciderci entrambi». La notte che hanno lasciato il Paese, ricorda, sono stati rapinati. «Siamo arrivati in Libia il 20 settembre, ma gli arabi ci picchiavano, non ci davano cibo. Siamo scappati dal centro in cui ci tenevano, dormivamo per strada, poi finalmente abbiamo trovato il modo di salire su una barca. Ma lì l’ho perso». Arrivata a Ferrara, gli operatori l’hanno subito portata in ospedale. «Il mio bimbo sta bene», ripete. E per la prima volta sorride.
Faith ha vent’anni, i capelli neri tagliati corti e parla pochissimo. «Vengo dal nord della Nigeria — spiega — dove c’è Boko Haram ». Quando i fondamentalisti hanno attaccato la sua famiglia, racconta, «siamo scappati verso il Mali, ma io ho perso di vista tutti quelli che erano con me. Non so che fine abbia fatto la mia famiglia ». Una volta arrivata in Libia però, dice lei, ha avuto fortuna. «Un uomo mi ha aiutato, mi ha dato da bere, da mangiare, un posto in cui dormire e mi ha messo sul gommone per l’Europa. Sono arrivata in Italia sabato scorso, poi a Bologna domenica e ieri ci hanno portato qui a Ferrara ». Dal pullman «abbiamo visto tante gente che parlava e non capivamo cosa stessero dicendo. Poi abbiamo capito: non ci volevano ».1 

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