La ragione dell'incredibile silenzio sull'ultimo libro di Galli della LoggiaCritiche al Pci e lodi a Craxi: troppo per la stampa italianadi Giuseppe Bedeschi Foglio
1 Aprile 2017 alle 05:55
L’Italia che non sa cambiare
di Aldo Grasso Corriere 25.10.16
Benedetto
Croce sosteneva che «ogni vera storia è sempre autobiografica».
Verissimo: nei giudizi, nelle ricostruzioni, nelle analisi è impossibile
prescindere dalle proprie esperienze personali, dagli studi che ognuno
di noi ha fatto, dalle persone che ha incontrato. Basta ammetterlo, con
franchezza. Per questo Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire,
vivere . Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino) non si
rifugia dietro quella forma di anonimato accademico («il noi delle tesi
di laurea», diceva Roland Barthes) che normalmente usano gli storici di
professione, specie quando parlano di cose recenti in cui, in qualche
modo, sono coinvolti: «Di qui — scrive l’autore — la natura alquanto
inconsueta di questo libro: insieme libro di storia e di ricordi, di
vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro. E
proprio in un grumo di sentimenti (e risentimenti, perché non dirlo) è
da cercare l’origine del tema di fondo delle sue pagine: la difficoltà,
l’impossibilità di cambiare».
In una puntata della settima
stagione di Grey’s Anatomy (anch’io ci metto qualcosa della mia vita),
la grande Shonda Rhimes mette in bocca a Meredith queste parole: «Quando
diciamo cose tipo “Le persone non cambiano”, facciamo impazzire gli
scienziati. Perché il cambiamento è letteralmente l’unica costante di
tutta la scienza… È il fatto che le persone cerchino di non cambiare che
è innaturale, il modo in cui ci aggrappiamo alle cose come erano invece
di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai
vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi». Il cambiamento, con tutti i
rischi che comporta, è il motore dell’esistenza. Perché allora ci
rifugiamo nell’immobilismo delle idee, in una sorta di eden di
specchiata moralità, finanche nel gattopardismo?
Con questo libro
variegato, Galli della Loggia ci regala l’esempio più efficace della sua
maniera di affrontare la storia. Seguendolo lungo le vie più personali
che qui tratteggia, ci troviamo ad avere un’immagine molto più precisa,
molto più concreta di questi anni, a partire dal fatidico Sessantotto.
Anni che abbiamo vissuto, ma anche anni che la memoria storica cerca di
levigare, smussando i contrasti e le non poche contraddizioni.
Nel
parlare di questo libro non vorrei seguire il filo cronologico per non
rovinare al lettore il piacere delle trame, per non rivelargli come va a
finire. Preferirei parlare di alcuni temi che ricorrono e si rincorrono
come leitmotiv , come fari nella notte per le nostre povere risorse
intellettuali stremate dagli eccessi d’informazione.
Uno di questi
è appunto «quel presunto tipico vizio italiano che sarebbe il
voltagabbanismo/trasformismo. Vizio storico italiano ma, beninteso,
degli “altri” italiani, sempre di quelli dell’altra parte, non della
nostra, che invece, come si sa, è immancabilmente quella degli italiani
bravi e virtuosi per definizione». Insomma, è possibile «cambiare» senza
necessariamente «tradire»? La democrazia non dovrebbe essere il luogo
per eccellenza della mobilità delle idee? Anche i padri della Patria,
come Camillo Benso conte di Cavour, non hanno forse seguito itinerari
tortuosi prima di arrivare, nel caso specifico, a un fulgido esempio di
liberalismo progressista? La tesi dell’autore è questa: in politica
cambiare opinione è normale, spesso necessario (senza per questo essere
additati al pubblico ludibrio). L’unica condizione per un personaggio
pubblico è però di ammettere che si è cambiati.
C’è un momento
storico che spiega questo atteggiamento moralistico? Il capitolo
«Autobiografie della nazione» andrebbe letto e riletto, riga per riga.
Perché parla dei conti mai chiusi con il fascismo, della politica che
stinge nella morale (e diventerà molto ambigua quando si parlerà di
«questione morale» con Enrico Berlinguer), del peso della memoria e
della funzione liberatrice dell’oblio. Galli della Loggia si sofferma
sul caso Bobbio, quando nel dicembre del 1988 compare sulla prima pagina
della «Stampa» un articolo in cui l’insigne filosofo confessa alcuni
atteggiamenti «servili» tenuti durante il fascismo. Quello che colpisce
non è l’onesta confessione di Bobbio quanto la reazione di alcuni suoi
famosi sodali (da Alessandro Galante Garrone a Giorgio Bocca) che
insultano chi tenta una qualche riflessione su quella sorprendente
dichiarazione. Il passaggio dal fascismo alla democrazia è stato
piuttosto caratterizzato da un trasformismo di massa e la «conversione»
altro non è stata che dimenticanza (nel mio piccolo ho più volte
descritto il passaggio «indolore» dalla Eiar alla Rai, con la
beatificazione di quasi tutti i dirigenti storici compromessi).
È
stata proprio la mancanza di un processo di autoconsapevolezza sugli
errori del passato ad acuire la confusione tra politica e morale, a far
considerare il cambiamento con diffidenza, a dividere il mondo tra buoni
e cattivi.
Negli anni Sessanta era quasi impossibile non essere
di sinistra: «Fu per l’appunto il mio caso. Il caso di chi allora
diventò di sinistra quasi naturalmente: perché, guardandosi intorno,
erano lì le idee che apparivano più moderne e più vive, lì soprattutto
stavano le persone che incontravi e ti colpivano per la loro
spregiudicatezza, la loro cultura e la loro capacità critica». Era in
quell’ambito culturale che si cercavano i padri ideali, che si
interpretavano i fermenti che arrivavano dall’estero, che i laici
potevano avvicinarsi al mondo cattolico attraverso le «aperture» del
Concilio Vaticano II. Ma era sempre in quell’ambito che si sarebbero
presto sviluppati i germi dell’estremismo, le ondate di radicalismo
manicheo, le pulsioni antiparlamentari dei gruppi gauchisti, le
ideologie più utopiche o assassine. Anni terribili in cui bisognava
avere il coraggio di cambiare idea, anche se per molti illustri maître à
penser il cambiamento è avvenuto troppo tardivamente.
L’idea che
mi sono fatto sui Sixties è che sono stati un periodo decisivo di storia
sociale (il nascente benessere e la segregazione razziale, il sogno
americano e Il giovane Holden , il dottor Spock e la gioventù bruciata)
attraverso l’accumulo di sensazioni, di filmati, di spot pubblicitari,
di telegiornali e soprattutto di canzoni. Le idee innovative erano
nell’aria, si respiravano con entusiasmo. Poi è arrivato il Sessantotto,
il tanto evocato e osannato Sessantotto, che avrebbe ucciso tutto, con
la sua pesantezza ideologica, con la sua illusione di sovvertire
strutture ed equilibri del capitalismo. Non dunque un punto di partenza,
ma un fatale arrivo.
E poi c’è tutta la storia dell’egemonia
culturale della sinistra, degli orfanelli del «Politecnico» di
Vittorini, di una cultura che cercava risposte politiche alle proprie
inquietudini, delle scelte di campo che talvolta obbligano alla cecità.
Rappresentando
se stesso all’interno di queste narrazioni che riguardano la storia del
nostro Paese, la sua identità (il compromesso storico, la Biennale del
dissenso di Venezia, il rapimento di Aldo Moro, l’ascesa di Bettino
Craxi, la questione morale di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi,
l’idea perduta di patria…), e sono narrazioni una più interessante
dell’altra, Galli della Loggia stringe un ideale patto di lealtà
conoscitiva con il lettore.
Pur esponendosi in prima persona, lo
storico non è mai un semplice io, ma una specie di sistema complesso:
dove si trovano molte funzioni, molte particolarità secondarie che
legano rapporti reciproci e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre
ruotano attorno a un nucleo centrale.
Ma qual è questo nucleo? È
l’uso della storia. Nella sua pagina più importante, quella su cui
edifica tutto il libro, l’autore pone una distinzione fondamentale tra
uso politico della storia e vocazione pubblica della storia: «L’uso
politico è quello che non si fa scrupoli di manipolare in vario modo i
fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio universale
(tacendoli o distorcendoli palesemente)… la vocazione pubblica della
storia, il suo uso pubblico, è invece quella caratteristica
dell’indagine storica connessa al clima generale, alla temperie ideale,
dell’epoca in cui l’autore vive».
Nella vita, ogni persona
intelligente compie un cammino tortuoso, possibilmente di maturazione.
Perciò cambia idee, si confronta continuamente con l’immagine virtuale
dell’epoca, cerca di vincere l’atrofia della memoria, prende atto di
quel misterioso «sentire comune» o «spirito del tempo» che la
storiografia filosofica ha chiamato Zeitgeist .
E infatti le
pagine più trascinanti sono quelle in cui l’autore depone per un attimo
la corazza dello storico e in veste di chroniqueur traccia del suo
passato, delle sue avventure esistenziali, degli incontri decisivi:
l’esperienza di «Mondoperaio», gli incontri con Livio Zanetti, Lamberto
Sechi, Giorgio Fattori e Claudio Rinaldi, la lunga amicizia con Paolo
Mieli, l’avventura di «Pagina», lo scontro con gli einaudiani di ferro…
La storia delle idee lascia il posto a immagini vive e riccamente
articolate.
Oggi lo storico non ha più, come certi suoi colleghi
del passato, punti fissi d’orientamento: le grandi ideologie, la
divisione in classi, le organizzazioni sociali. È più solo,
paradossalmente più nudo. La storia insegna, ma prima ancora segna.
La paura di dirsi osservatori Libri. Ernesto Galli Della Loggia, Credere Tradire Vivere, il Mulino Alessandro Barile Alias Manifesto Pubblicato 1.7.2017, 11:32
Galli Della Loggia è intellettuale che suscita emozioni, e per tale motivo ogni confronto col suo pensiero non può che essere caldo, appassionato, forse anche viscerale. Lungi dal giocare di fino, la grande qualità dell’editorialista del Corriere della Sera sta nel mettere sul piatto sempre un realismo spogliato da mistificazioni deformanti. E’ il pregio d’altronde di ogni posizione forte (e che un tempo si sarebbe detta reazionaria): si può non condividere, ma non si può ignorare né, tantomeno, banalizzare. Quest’ultima fatica editoriale, Credere tradire vivere, segue in perfetta continuità la posizione che da decenni l’intellettuale romano si è ritagliato nel discorso pubblico: la voce della coscienza di una borghesia in crisi d’identità. Della grande borghesia, attenzione. Quella capace, nell’ottica dell’autore, di costruire un’etica pubblica, dei valori universali; in altre parole: una Cultura nazionale. Non è la nostalgia vittimista, né l’ironia post-moderna, a guidarne i ragionamenti, quanto un’arcigna interpretazione del corso della storia.
Si chiede Stefano Feltri dalle colonne del Fatto quotidiano perché il libro di Galli Della Loggia sia stato accolto con tanta plateale indifferenza, concedendosi una risposta forse troppo accomodante: perché chi avrebbe dovuto parlarne è anche l’oggetto delle invettive del libro. Una sorta di coscienza sporca, potremmo definirla, di gran parte del mondo intellettuale accusato di aver “tradito” certi furori giovanili. Permettiamo di avanzare un’altra ipotesi. Il prolifico autore ci sembra scrivere da un ventennio abbondante sempre lo stesso libro. Sempre uguali i protagonisti, identiche le invettive e i “conti da regolare” con la presunta (sotto)cultura dominante. Eppure Galli Della Loggia fa ampiamente parte, anzi ne è uno dei membri onorari, di questa cultura dominante che ha contribuito a plasmare. Da dove deriva questa coscienza infelice allora? Dove la discrasia tra le idee professate in ogni dove e la direzione di questa presunta cultura dominante? Troppo distante questo lamento dalla realtà quotidiana per non somigliare ad una posa studiata, che Della Loggia assume per veicolare meglio il suo discorso.
Il libro intreccia la propria biografia con quella della nazione, dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Seguendo un genere ormai abusato, relaziona le vicende personali a quelle di una Repubblica nata dal vizio originario dell’antifascismo, usato come fonte di legittimazione politica. D’altronde, per buona metà del testo l’autore mira alla demolizione scientifica di ogni retorica antifascista, di ogni mitologia costituente. L’antifascismo è, per l’autore, il grimaldello ideologico che ha reso accettabile l’anomalia politica del Pci. Ma questo sotterfugio retorico smaschera le ben più prosaiche intenzioni di Galli Della Loggia. Non si può essere hegeliani a corrente alternata. Drastico nel ridurre la storia a totalità quando si tratta di sottoporla a critica impietosa (lo “spirito dei tempi” ci ricorda costantemente l’autore, autoassolvendosi dall’onta di essere stato “di sinistra”), questa cessa di colpo di essere sintetizzata quando si tratta di demolire il senso della legittimazione antifascista. Cosa rimane una volta fatta la tara degli errori dell’antifascismo? Quale l’alternativa all’antifascismo in un paese “di confine” come quello della Prima Repubblica? Pur nei suoi innumerevoli errori, nelle sue mitologie distorte, nelle sue retoriche consociative, quale “terza via” era concretamente ipotizzabile per un paese uscito dalla lotta contro il fascismo, impregnato di fascismo nella sua burocrazia post-bellica, cedevole a pulsioni autoritarie, queste sì legittimate dallo spauracchio comunista?
Alla fine, quando a crollare insieme al Muro è questa Repubblica deformata, portandosi dietro la vituperata “vigilanza antifascista”, cosa rimane allora di questa Italia che finalmente si è liberata dei suoi lacci ideologici? Ben poco di edificante. Talmente poco che neanche l’autore riesce a gridare: “finalmente!”, perché, proprio in quanto autore intelligente, si rende conto per primo che quella tanto deprecata legittimazione politica fondata sull’antifascismo teneva unito un discorso pubblico che oggi si è rotto in mille pezzi, non più ricomponibili perché non comunicanti tra loro. Il problema è che Galli Della Loggia ha vinto; è il paese che ha perso, scoprendosi improvvisamente a-fascista.
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