sabato 29 ottobre 2016
L'eredità della schiavitù nella democrazia herrenvolk statunitense
Ta-Nehisi Coates: Un conto ancora aperto, trad. di Daria Restani, Codice, pagg. 109, euro 9,90
Risvolto
opo "Tra me e il mondo", Ta-Nehisi Coates mette in discussione un altro
grande conto che l'America ha in sospeso con la storia: il risarcimento
ai neri americani per gli oltre duecento anni di schiavitù, la
segregazione e la negazione dei diritti più elementari. Anche dopo
l'abolizione formale della schiavitù, gli afroamericani sono stati
ostacolati nell'esercizio dei diritti inalienabili di ogni cittadino: al
voto, allo studio, al lavoro. Soprattutto, scrive Coates, del diritto
alla casa, "il tesserino d'accesso al sacro ordine della classe media
americana". Affrancare uno schiavo per poi farne un cittadino a metà
equivale a lasciargli le catene addosso, con il benestare di chi
dovrebbe tutelarlo. Dalle spietate pratiche discriminatorie del mercato
immobiliare alle strane incongruenze del New Deal, Coates presenta il
conto all'America. E non è un conto da poco.
Schiavitù il conto sospeso dell’America con la Storia
Ta-Nehisi Coates, il più influente intellettuale afroamericano, racconta le origini di una ferita ancora aperta
TA-NEHISI COATES Rep 29 10 2016
Nel 1783 la schiava liberata Belinda Royall presentò allo Stato del Massachusetts una domanda di risarcimento. Belinda era nata nell’attuale Ghana, e da bambina fu rapita e venduta come schiava. Affrontò il Passaggio Intermedio e cinquant’anni di schiavitù in mano a Isaac Royall e suo figlio. Quest’ultimo, però, un lealista britannico, fuggì dal Paese durante la guerra d’indipendenza americana. Belinda, tornata libera dopo mezzo secolo di fatiche, rivolse questa supplica alla nascente assemblea legislativa del Massachusetts: «Il volto di chi si rivolge a Voi è oggi segnato dai solchi del tempo, il corpo piepiegato
da anni di oppressione, eppure in base alla Legge della Terra a lei è negato anche un solo boccone di quell’immensa ricchezza che in parte è stata accumulata grazie alla sua operosità, e nell’insieme accresciuta dalla sua schiavitù. Ragion per cui costei vi supplica... affinché a ricompensa della Virtù e in giusto riconoscimento dell’onesta operosità, tale somma le venga concessa».
A Belinda Royall fu garantita una pensione di 15 pound e 12 scellini, una somma attinta dalle rendite del patrimonio fondiario di Isaac Royall: fu una delle primissime richieste di risarcimento che andarono a buon fine. Ma anche se nel corso del tempo i portavoce delle richieste di risarcimento sono cambiati, la risposta del Paese è rimasta essenzialmente la stessa. Ecco che cosa si leggeva in un editoriale del Chicago Tribune nel 1891: «È stato insegnato loro a lavorare. È stata insegnata loro la civiltà cristiana e la nobile lingua inglese invece di qualche incomprensibile parlata africana. Non abbiamo alcun tipo di debito nei confronti degli ex schiavi». Le cose, però, non stavano proprio così. Dopo duecentocinquant’anni di schiavitù, i neri non venivano comunque lasciati in pace. Vivevano nel terrore. Nel profondo Sud vigeva una seconda schiavitù. Al Nord assemblee legislative, sindaci, associazioni civiche, banche e cittadini, tutti cospiravano per relegare i neri nei ghetti, in una condizione di sovraffollamento, sfruttamento economico e bassi livelli di istruzione. Il mondo del lavoro li discriminava, riservando loro le mansioni peggiori e i salari più bassi. La polizia li vessava per le strade. Oggi abbiamo in parte preso le distanze dai nostri lunghi secoli di saccheggio, promettendo «mai più», ma i loro fantasmi ci perseguitano ancora. È come se avessimo accumulato un debito sulla carta di credito, e pur essendoci impegnati a non spendere altri soldi non ci capacitassimo del fatto che il saldo negativo non sia scomparso. Gli effetti di quel saldo, con interessi che aumentano ogni giorno, sono ovunque intorno a noi.
Oggi, appena salta fuori l’argomento dei risarcimenti, immancabilmente si scatena una raffica di domande: chi ne avrà diritto? A quanto ammonteranno? Chi li pagherà? Ma se sono gli aspetti pratici dei risarcimenti, e non la loro legittimità, a costituire il vero intoppo, per un certo periodo si era potuta vedere una soluzione. Negli ultimi venticinque anni John Conyers jr, membro della Camera dei Rappresentanti per il Michigan, ha presentato in ogni seduta un’istanza affinché il Congresso avviasse uno studio sulla schiavitù, sui suoi effetti nel tempo e sulla messa a punto di «opportuni rimedi». Un Paese a cui importasse davvero capire come organizzare la questione sul piano pratico avrebbe già trovato molte risposte nell’istanza di Conyers, oggi chiamata H.R. 40. Se fossimo davvero interessati, ci faremmo promotori di questa istanza, studieremmo la questione e infine valuteremmo le possibili soluzioni.
Una nazione sopravvive alle proprie generazioni. Non c’eravamo quando George Washington ha attraversato il fiume Delaware, eppure il dipinto di Emanuel Gottlieb Leutze significa molto per noi. Non c’eravamo quando Woodrow Wilson ci ha fatto entrare nella prima guerra mondiale, eppure stiamo ancora pagando le pensioni di guerra. Se il genio di Thomas Jefferson è importante, deve esserlo anche il suo possesso del corpo di Sally Hemings. Se George Washington che attraversa il Delaware è importante, deve esserlo anche il suo implacabile inseguimento della schiava fuggiasca Oney Judge. Nel 1909 il presidente William Howard Taft dichiarò di fronte alla nazione che i cittadini bianchi del Sud «intelligenti» erano pronti a considerare i neri come «membri utili della comunità». Una settimana dopo Joseph Gordon, un nero, fu linciato alle porte di Greenwood, Mississippi. L’era dei linciaggi quotidiani è lontana, ma il ricordo di coloro che sono stati depredati della loro stessa vita sopravvive negli effetti persistenti di quelle violenze.
In realtà, in America c’è la bizzarra e profonda convinzione che se pugnali un nero dieci volte smetterà di sanguinare e inizierà a guarire appena mollerai il coltello. Siamo convinti che il predominio bianco appartenga a un passato inerte, che sia un debito colpevole che possiamo cancellare soltanto distogliendo lo sguardo. È sempre esistita un’altra via. «Non ha senso dire che sono stati i nostri antenati a portarli qui, e non noi» dichiarò nel 1810 Timothy Dwight, rettore di Yale. «Noi ereditiamo il nostro vasto patrimonio con tutti i suoi oneri, e siamo tenuti a saldare i debiti dei nostri antenati. In particolare questo debito, e quando il Giudice dell’Universo verrà a giudicare equamente i suoi servi, sarà inflessibile nell’esigere proprio da noi quel pagamento. Concedere loro la libertà e non fare nient’altro equivale a gettare su di loro una maledizione ».
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