L’IMPREVEDIBILITÀ DELLE LEGGI E GLI EFFETTI DISTORTI SULL’ECONOMIA
ALESSANDRO DE NICOLA Rep 23 10 2016
OTTANT’ANNI anni fa, in un celebre saggio il sociologo americano Robert K. Merton parlò della legge delle conseguenze involontarie o non previste, che si verifica quando si pianificano azioni che portano a risultati imprevisti.
Sebbene Merton ebbe il merito di sistematizzarla, non si trattava di una scoperta nuova: dai tempi della legge di Gresham (“la moneta cattiva scaccia la buona”) passando per Bernard de Mandeville e la sua favola delle api, i filosofi illuministi scozzesi come Hume e Smith ed arrivare più recentemente all’economista premio Nobel George Stigler, vi è consapevolezza che molte azioni creano dei risultati non solo non voluti ma persino contrari alle finalità originarie.
Il fenomeno si verifica assai spesso quando il legislatore si intromette nell’economia e tenta di piegare le relazioni di mercato di imprese ed individui alla sua volontà politica: ne nasce una spirale di regole che hanno esiti inaspettati e negativi, per i quali si provvede ad emanare altre norme dalle quali ovviamente scaturiscono conseguenze indesiderabili, per rimediare alle quali si approvano altre disposizioni e così via.
A conferma di ciò, è appena uscito uno studio di due economisti del National Bureau of Economic Research, Doleac e Hansen, che hanno esaminato le cosiddette leggi “ Ban the Box”. Di che si tratta? Sono normative emanate da Stati e autorità locali negli Usa che proibiscono agli imprenditori di richiedere a chi è in cerca di lavoro informazioni relative al suo “ criminal record”, vale a dire le sue passate condanne definitive o meno che siano.
Lo scopo della norma è in primis facilitare il reinserimento nel mondo del lavoro degli ex detenuti che, specie se recidivi o freschi di penitenziario, faticano ad essere assunti e, in secondo luogo, combattere le disparità razziali, perché i giovani neri ed ispanici costituiscono una percentuale altissima dei carcerati americani e quindi si spera che guardando solo alle qualifiche professionali i datori di lavoro siano più propensi ad offrire loro una occupazione.
Peccato che il ben intenzionato legislatore americano, oltre ad aver interferito in una libera scelta contrattuale, non abbia tenuto conto dell’implacabile legge di Merton. Infatti, il risultato di questa normativa è che gli imprenditori hanno semplicemente rinunciato ad assumere giovani ispanici e neri tra i 25 e i 34 anni. Non volendo prendere rischi, hanno chiuso le porte a quella fascia di popolazione che per età e razza ha la maggior presenza di ex reclusi e per di più di recente scarcerazione. Confrontando gli Stati e le città dove le leggi “Ban the Box” sono state introdotte con le altre e con il periodo antecedente alla loro approvazione, si è rilevato che neri ed ispanici tra i 25 e 34 anni hanno diminuito la loro probabilità di assunzione tra il 3% (latini) ed il 5,5% (afroamericani) e negli Stati dove la popolazione ha una percentuale più bassa di minoranze (e quindi i datori di lavoro hanno un mercato di risorse umane più ampio), tale probabilità è scesa fino all’8,8%. E non si può nemmeno rimproverare il tanto decantato “razzismo implicito” di cui si fa un gran parlare negli Usa. Infatti, in termini di occupazione chi ha beneficiato di più della selezione avversa ai giovani di colore o latini, sono stati gli afroamericani più anziani (che, anche se sono finiti in galera da giovani, diventati maturi statisticamente rigano più dritto) e le donne nere con titolo di studio, il cui criminal record è pulito nella quasi totalità dei casi. Gli effetti sui bianchi risultano invece “statisticamente insignificanti”.
Questi esiti, conclude lo studio Nber, sono coerenti con quelli di numerosi altri che hanno esaminato i frutti dell’imposizione di limiti alle informazioni che le imprese possono ottenere sui loro dipendenti. Peraltro, nemmeno la rassegnazione è una conseguenza necessaria: semmai bisogna aiutare chi ha la fedina penale macchiata ad ottenere maggiori delucidazioni sui posti disponibili o aiutarli a riqualificarsi per renderli accettabili ai datori di lavoro.
Se noi pensiamo alla complicatissima legislazione sul lavoro del nostro Paese, molto facilmente troveremo esempi simili, il più noto dei quali è stato il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, applicabile solo alle aziende con più di 15 dipendenti e che ha contribuito al nanismo delle nostre imprese, restie a superare la fatidica soglia, e al proliferare di forme alternative di impiego, complicate e foriere di contenzioso giudiziale, utilizzate per sfuggire alle pastoie dello Statuto: vedremo quali saranno le conseguenze inintenzionali del Jobs act tra qualche anno.
Comunque, l’insegnamento da trarre è abbastanza semplice e lo espresse bene Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali, il suo primo libro, quando osservò che l’uomo di Stato “sembra credere di poter disporre i diversi membri di una grande società con la stessa facilità con cui la mano dispone i diversi pezzi degli scacchi sulla scacchiera. Non considera che nella grande scacchiera della società umana ogni pezzo ha un suo principio di movimento, del tutto diverso da quello che il potere legislativo potrebbe scegliere di imprimergli”. Appunto.
IL RAPPORTO MIGLIORE TRA LEGGI E ECONOMIA SALVATORE BRAGANTINI Rep 24 10 2016
CARO direttore, nel suo illuminante pezzo “L’imprevedibilità delle leggi e gli effetti distorti sull’economia”, pubblicato ieri su Repubblica, Alessandro De Nicola cita una ricerca Usa sull’effetto indesiderato di norme volte a favorire il reinserimento dei carcerati. Essa, insieme a una frase di Adam Smith sull’imprevedibilità degli attori del mercato, gli fa affermare che «quando il legislatore si intromette nell’economia e tenta di piegare le relazioni di mercato... alla sua volontà politica, ne nasce una spirale di regole che hanno esiti inaspettati e negativi, per i quali si provvede ad emanare altre norme dalle quali ovviamente scaturiscono conseguenze indesiderabili... e così via». Fuori lo Stato dunque, non solo dalla gestione dell’economia, ma anche dalle leggi che la regolano, alla cui emanazione non si capisce chi provvederebbe.
I pur frequenti casi di “eterogenesi dei fini legislativi” non giustificano tale condanna; sarebbe come dedurre, da certi aberranti comportamenti di capi d’impresa, in Italia e all’estero, che il sistema di mercato non funziona.
I “30 gloriosi” dal’50 all’80 sollevarono al benessere generazioni europee, già in lotta con la fame per secoli; la conclusione di De Nicola, oggi quietamente accettata dal mainstream europeo, allora non avrebbe avuto cittadinanza. Eppure fu quella, appunto, una temperie magica nella storia d’Europa. Non perciò a quel modello si deve o si può tornare; troppe cose sono tanto mutate da allora. Resta però compito della democrazia, nelle forme che assume nei diversi Paesi, indicare ai cittadini i fini dell’agire pubblico; su questi la classe politica chiede il consenso, elaborando proposte, necessariamente radicate nel “qui ed ora” dei rapporti sociali ed economici che innervano la società.
Per questo alcune proposte politiche ora correnti paiono come una presa in giro, perché irrealizzabili – non è vero che basta volerlo e tutto si può fare – o chiaramente produttive di esiti negativi. Non basta però nemmeno porsi l’obiettivo di un bilancio in equilibrio, o della crescita ex se. La politica, quindi lo Stato, deve indicare principi di base, fini e mezzi per conseguirli. Il governo, anziché propiziarli con la propria azione, certo può ostacolarli talvolta senza volere.
Nel perseguire quei fini i governi non possono prescindere dalle asprezze della “scienza triste”, senza però elevarne gli obiettivi, necessariamente limitati, a fini. Segnalo la somiglianza con altro e diverso tema: si ritiene ormai che il solo fine dell’impresa sia il massimo profitto. Essa invece nasce e cresce per altre ragioni; conseguire profitti è sì condizione di sopravvivenza, come per gli umani un’alimentazione adeguata o, per gli Stati, i conti in ordine nel complesso del ciclo. Esse però avvizziscono se fanno di tale condizione il proprio fine unico, regalando ad azionisti di controllo o management, a seconda dei casi, soldi che loro non spettano. Tanto più quando, per la debolezza della domanda, s’inceppa la catena alla base del successo storico dell’economia di mercato: quella che va dai profitti, agli investimenti e ai posti di lavoro. Se, senza i secondi, non ci sono i terzi, cade la giustificazione pubblica dei primi.
Si può certo sostenere, con De Nicola, che lo Stato non debba impicciarsi dell’economia, ma questa è tesi estrema, smentita dalla storia, anche recente. Negli Usa e nel Regno Unito, bastioni dell’economia di mercato, i governi sono andati ben oltre il ruolo di mero arbitro che il liberismo “duro e puro” loro riconosce a malapena, divenendo proprietari dei mezzi di produzione; a differenza di quanto diceva la profezia marxiana, al governo non c’era la classe lavoratrice, ma un governo, pur sempre eletto dal popolo.
L’autore è economista ed ex commissario della Consob Le cortesi osservazioni di Salvatore Bragantini in parte danno per scontato un presupposto che io non affermo, e cioè che lo Stato non possa regolamentare l’economia. Al contrario, da Adam Smith ad Hayek, la rule of law è il pilastro di ogni pensatore liberale. Quello che lo Stato non deve fare è pensare di essere in una posizione privilegiata rispetto ai cittadini e alle imprese e di conoscere il loro bene e i loro fini meglio di loro e quindi di poter regolare minuziosamente i loro comportamenti. Così facendo costruirebbe un’opera pubblica di cui non c’è bisogno, una strada verso un rispettabile inferno lastricata di buone intenzioni.
(Alessandro De Nicola)
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