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L’«Economist» recentemente ha sostenuto che il 10% delle imprese mondiali genera l’80% dei profitti. Varrebbe la pena indagare se quest’economia di mercato non ha finito per mangiarsi il capitalismo e non viceversa.
La parabola discendente di una «potenza industriale» europea
Italia. «Che fine ha fatto il capitalismo italiano?» di Giuseppe Berta per il Mulino
Marco Bertorello Manifesto 3.11.2016, 19:53
La progressiva esclusione dell’Italia dalla cabina di regia continentale, sembra aver già archiviato l’incontro estivo a tre di Ventotene. In molti si domandano come possa essere esautorata la «seconda potenza industriale» europea. Una formula, questa, viene definita nell’ultimo libro di Giuseppe Berta, Che fine ha fatto il capitalismo italiano? (Il Mulino, pp. 160, euro 14) «logora e tuttavia ancora in voga».
Il testo di Berta ruota attorno un duplice interrogativo: il primo concerne lo stato degli assetti produttivi in Italia, il secondo, di rimando, quale relazione intercorra tra questi e quelli globali. In definitiva riflette sul capitalismo e la sua natura. L’autore è uno storico dell’economia e da questo angolo visuale legge le trasformazioni intervenute e i dibattiti attorno a esse, ma ponendosi anche con lo sguardo verso presente e futuro.
I processi di modernizzazione italiani sono avvenuti dentro una cornice dicotomica, oscillante tra progetti industriali su misura delle grandi imprese oppure, più modestamente, su progetti ancorati ai territori, capaci di rilanciare loro specificità e potenzialità. Da un lato cambiare, tentare un salto di qualità, dall’altro adeguarsi senza perdere di vista i propri connotati storici.
IL CONFRONTO si è sviluppato lungo tutto il Novecento, dai tempi di Giolitti, passando poi per fascismo e ricostruzione post-bellica. Da Einaudi fino a Carli. Negli anni Settanta la crisi del modello fordista sembrava trovare soluzione nell’affermazione della cosiddetta terza Italia, quella dei distretti, quell’Italia che superava i limiti della grande impresa. Un modello che appariva vincente non solo per le micro-relazioni su cui si fondava quanto per la sua capacità di incontro con mercati mutevoli, sempre più personalizzati, ove la dimensione di scala non risultava più decisiva.
La crisi, o meglio gli anni che l’anno preceduta e determinata, hanno ridimensionato questa prospettiva, lasciando un vuoto apparentemente incolmabile. È così che Berta, già nell’introduzione, risponde al quesito del titolo con un secco «no, un capitalismo italiano come se ne poteva parlare negli anni Sessanta e Settanta, quando ancora ci si interrogava sulla sua specificità, non esiste più».
Ma tale risposta è ricca di conseguenze analitiche e, forse, anche di prospettive che vanno oltre l’intento dell’autore. Non basta registrare quei mali che ormai sono talmente cronici nell’economia italiana da farne il tratto distintivo sia di ciò che resta della grande impresa come della media e piccola: bassa produttività, modesta capacità di innovare, specializzazione sui bassi segmenti merceologici.
MALI che nel tempo hanno fatto venir meno persino un quadro d’insieme, una coerenza sistemica da cui derivare un progetto per il futuro. Qui si tratta di capire se esiste ancora un modello capitalista.
Berta prende spunto dal Braudel che non considera il capitalismo una struttura totalizzante, ritagliando per l’Italia uno spazio ricoperto più dal mercato che dal capitale. Certamente il capitalismo è stata una formazione economica poliedrica e mutevole, capace di assorbire molteplici diversità dentro un disegno organico, ma la domanda che oggi si pone è la seguente: quanto capitalismo è rimasto in una delle potenze del G8 e del G20?
NEL DOMANDARSI se esista ancora un capitalismo italiano verrebbe da aggiungere il quesito se esista o meno un capitalismo in generale, almeno nei termini in cui eravamo abituati a considerarlo. Gli apparati produttivi italiani non reggono i livelli di iper-competitività imposti dal mercato, la grande impresa gode di un indiscusso primato tecnologico che le consente produzioni di massa e personalizzate.
Finanziarizzazione, debito e competitività globali forniscono un quadro inedito, dove rendita e lotta per il primato fanno sì che il mercato faccia pressione su tutti i fattori della produzione salvo il capitale.
Il capitalismo nostrano che non fece l’impresa
SALVATORE TROPEA Rep 1 11 2016
Esiste ancora il capitalismo italiano? Da tempo questa domanda è ricorrente come l’avvicendarsi delle stagioni nella storia del paese. Questa volta però è più urgente ed è in parte legata al passato che già si conosce, in parte al futuro che si vuole o più esattamente si deve costruire per riappropriarsi di un posto e di un ruolo in un mondo profondamente cambiato sotto la spinta di nuovi attori che estromettono i vecchi. A porsela è Giuseppe Berta, storico e sociologo della Bocconi e la sua risposta è no se la forma di capitalismo è quella che abbiamo conosciuto negli anni Sessanta del secolo passato e che di fatto è stata smontata tra la fine del Novecento e l’inizio del Duemila senza che ad essa sia sopravvissuto un modello economico capace di offrire una prospettiva. Insomma, Olivetti, Fiat, Pirelli, Iri sono un altro mondo consegnato agli archivi al quale potrebbe subentrare un altro tipo di capitalismo, quello fatto dalle tante aziende virtuose la cui caratteristica è quella di «enfatizzare le condizioni peculiari in grado di animare una crescita magari più lenta, ma costante e solida».
È una scommessa e un atto di coraggio. Nel suo ultimo saggio, edito da il Mulino, con il titolo Che fine ha fatto il capitalismo italiano? Berta mostra di crederci e spiega in maniera accattivante questo suo prendere partito in un paese che tende a inseguire soluzioni improbabili per i suoi tanti mali, compreso il declino economico. Quel che viene fuori è il racconto della transizione dal capitalismo del Novecento basato sulla fabbrica e la produzione di beni che il lavoratore poteva acquistare in quanto possessore di un reddito che glielo consentiva a quello di una capitalismo del low cost dove l’illusione di prendervi parte svanisce con la feroce tendenza a pagare poco il lavoro ignorando o sottovalutando l’effetto perverso di andare incontro a un mercato fatto di consumatori deboli. E c’è posto anche per un rilettura del ruolo dell’Iri.
E poiché ogni buon saggio per essere tale deve indicare una “via d’uscita” Berta non si sottrae a questo impegno e nel sostenere che «l’Italia economica ha più che mai urgenza di uno sguardo realistico rivolto a se stessa, che la sottragga, al contempo, alla retorica e alla decadenza», invita a prendere atto che le nostre imprese «non sono e non possono essere le incarnazioni di un capitalismo che oggi si muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di capitali immensi, fuori dalla portata degli operatori italiani». Cosa che, a suo dire, non equivale a sminuire o sottovalutare la loro qualità. Quindi nessuna nostalgia del «secolo manifatturiero, dell’Italia del triangolo industriale, dei capitani di industria». Quella è storia passata, Berta dice «una parentesi», mentre oggi occorre pensare a un capitalismo leggero fatto di piccole e medie imprese proiettate verso le lontananze del mercato globale. Che per lui non è un “downgrading autoimposto” ma semplicemente l’ultima frontiera del made in Italy.
La via di mezzo per la ripresa secondo Berta
Luigi La Spina Busiarda 29 11 2016
La diagnosi è così lucida da sfiorare la spietatezza. La terapia è suggestiva, persino con un filo di autocritica, ma suscita alcuni interrogativi, ai quali, peraltro, è l’autore stesso a sollecitare qualche risposta.
L’ultimo libro di Giuseppe Berta, professore di storia alla Bocconi e appassionato indagatore dell’economia industriale, corre sul filo di una duplice provocazione. Da una parte, l’invito a prendere atto della realtà, contro le tentazioni della retorica o della nostalgia: il capitalismo italiano, meglio, quel peculiare modello di capitalismo nostrano che si era affermato nel secolo scorso, «ormai è collassato». Si è spento quando all’industria privata è mancato il sostegno dello Stato e quella pubblica è stata smantellata. Ed è inutile, oggi, coltivare il rimpianto di quel modello e vagheggiare un’ipotetica resurrezione, magari sotto altre vesti, di quelle che furono le grandi aziende nazionali.
Se la risposta alla domanda che compare nel titolo del libro, edito dal Mulino, Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, non può che essere «una cattiva fine», qual è la strada che l’autore suggerisce per assicurare al nostro Paese un posto, magari non di prima fila, ma dignitoso e interessante, nel panorama dell’economia internazionale?
La seconda provocazione di Berta consiste nel puntare su quella che chiama «l’economia di mezzo», costruita da aziende, appunto, di medie dimensioni che «offre all’Italia l’occasione di adottare un percorso originale» di sviluppo industriale. L’autore non pensa certo a quel modello dei distretti, teorizzato da economisti come Fuà ed esaltato da sociologi come De Rita, in difficoltà davanti ai profondi mutamenti dei mercati mondiali. Ma crede in un’economia che si può sviluppare solo in aree metropolitane e non nei borghi d’Italia, un’economia che possa contare su risorse umane di alto livello, su «lavoratori della conoscenza» molto qualificati.
Qui sorgono le inevitabili domande alla suggestione di Berta: ci sono le condizioni, politiche, finanziarie, giuridiche e amministrative perché il nostro Paese possa percorrere una simile strada?
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