Siamo nell’accampamento di Pompeo, nel 49 a.C., prima della
battaglia di Farsalo. Lucio Domizio Enobarbo promuove a un delicato
posto di comando un uomo inadatto alla guerra, solo perché è mite e
saggio. E Cicerone: «Allora perché non te lo tieni stretto a educare i
tuoi figli?». Se, leggendo l’aneddoto nella Vita di Cicerone di Plutarco, vi è venuto in mente Massimo Troisi (Le vie del Signore sono finite,
1987): «Da quando c’è Mussolini i treni sono in orario», dice la
signora fascista; e Camillo/Troisi: «Mica c’era bisogno di farlo capo
del governo. Bastava farlo capostazione no?»; ecco, se avete fatto
questa ingenua comparazione, siete pronti/e per leggere Ridere nell’antica Roma di Mary Beard (Carocci, pp. 347, € 28,00), traduzione di Anna Maria Paci dell’originale Laughter in Ancient Rome: On Joking, Tickling, and Cracking up, 2014 .
Ha scritto di recente Maurizio Bettini: «Esiste in Inghilterra una
figura che l’Italia non possiede: il classicista in pubblico. Qualcuno
cioè che si è guadagnato ascolti, visibilità, perfino un ruolo di
opinione nel proprio paese, perché parla di Pompei e di Augusto. Questo
qualcuno – cioè qualcuna, lei ci terrebbe a sottolinearlo – è Mary
Beard: la storica di Cambridge nota anche al grande pubblico grazie alla
BBC e ai suoi molteplici interventi sui media. Vorremmo averla in
Italia, Mary Beard».
Molto vero: in quasi ogni pagina del suo libro Mary Beard, come dinanzi a
una platea attenta e interattiva, dà conto al lettore (non
necessariamente esperto di classici o di storia romana) del suo progetto
di ricerca e del modo in cui ha inteso affrontarlo, dichiarando
esplicitamente l’obiettivo di rendere più ingarbugliato, non più
ordinato, il tema del libro. Perché questa sadica attitudine contro un
lettore che magari vorrebbe certezze, ricostruzioni rassicuranti?
Perché, quando si mette mano a una lettura antropologica del mondo
antico, bisogna innanzitutto sgombrare il campo da molte letture
precedenti, che si sono accumulate nei secoli divenendo spesso
tradizione autorevole allo stesso livello di quei testi – letture
‘perfette’ che hanno consegnato al nostro immaginario un mondo molto
spesso non corrispondente a quello reale che si vorrebbe studiare e
descrivere.
Dopo il capitolo introduttivo, che parte dall’analisi di due testi in
cui il riso dei Romani viene rappresentato e descritto (una pagina dello
storico Dione sulla risata soffocata di un senatore dinanzi
all’imperatore Commodo, e una risata teatrale in Terenzio), il secondo
capitolo, «Questioni sul riso, antiche e moderne», affronta le tre
teorie che hanno tentato di connettere riso antico, per così dire, e
riso moderno: la «teoria della superiorità», che vede il riso come forma
di derisione o scherno (con Hobbes come teorico di punta); la «teoria
dell’incongruenza», cioè il riso come reazione all’illogico o
all’inatteso, con Aristotele come capofila, fino a Kant, Bergson e
oltre; infine, la «teoria del sollievo», il riso come liberazione di
energia nervosa o emozione repressa, portata a solidità teorica da
Freud. Teorie-sistema che non riescono a spiegare, secondo Mary Beard,
l’intera dimensione del riso, anche se è comodo individuare padri
fondatori, per esempio la presunta teoria aristotelica del riso e del
comico, per giunta affidata al perduto secondo libro della Poetica: col
risultato che «può essere uno shock tornare ai testi originali e
scoprire cosa sia stato effettivamente scritto e in quale contesto».
Figuriamoci, allora, che, oltre alla perdita del secondo libro della Poetica,
si debba scontare in futuro anche quella del Motto di spirito di Freud.
Ebbene, «sarebbe interessante immaginare che genere di ricostruzione
verrebbe fuori mettendo insieme le diverse sintesi e citazioni. Io penso
– scrive l’autrice – che sarebbe lontanissimo dall’originale». Con
questa lezione di metodo, cui ho voluto dedicare buona parte della
recensione, il lettore viene, direi felicemente, avvertito che non
troverà ricostruzioni rassicuranti in cui tutto si tenga, come spesso
avviene nei grandi affreschi storico-filologici, quando le tessere del
conosciuto sembrano congiungersi perfettamente nascondendo, in realtà, i
tanti vuoti che si insinuano pesantemente fra di esse, a partire dai
quadri mentali e dalla vita concreta che quei testi presuppongono.
Ai quattro capitoli della prima parte del libro sono dedicate, appunto,
più che le risposte, le informazioni necessarie a formulare possibili
risposte per domande cruciali, aggravate, si potrebbe dire, dal
combinato disposto dell’aver situato la ricerca nel mondo antico:
«Potremo mai sapere in che modo, e perché, si rideva nell’antichità? E
possiamo farlo, visto che a stento siamo in grado di spiegare perché noi
stessi ridiamo? Esiste qualcosa come il riso dei Romani, distinto, che
so, da quello dei Greci?» (p. 9); «Quanto ci è familiare, o estraneo, il
mondo del passato? Quanto ci è comprensibile?» (p. 65). Ma i primi
quattro capitoli non sono mai teoria pura, discussione astratta di
modelli: in ogni pagina il lettore incontra testi spesso ambigui e
analisi complesse: a partire dal lessico greco e romano del ridere,
molto più articolato il primo, più asciutto il secondo (ridere,
soprattutto, con i suoi composti), comparati con le mille sfumature del
lessico inglese, per esempio, e passando per la valenza sintattica del
ridere (ridere assoluto o ridere di qualcuno); proseguendo col confronto
fra esempi testuali (le parole e le descrizioni, in fin dei conti, sono
il principale campo di indagine dell’antropologia del mondo antico) e
immagini, anch’esse di problematica interpretazione, soprattutto se si
vuole evitare l’universalità delle espressioni facciali cui tenderebbero
«gli etologi, i neuroscienziati più intransigenti e i loro seguaci» (p.
88); dedicando, infine, pagine di ‘complessa chiarezza’, se mi si passa
l’ossimoro, al famoso passo virgiliano (IV ecloga) in cui si delinea un
rapporto comunicativo di riso fra neonato e genitori.
Il riso romano, capace di trascrivere e influenzare il – più che essere
influenzato dal – riso greco, soprattutto nella fase di intreccio di
culture dell’impero romano, si offre così, nei quattro capitoli della
seconda parte, al lettore, allenato ormai al rifiuto della
semplificazione, attraverso personaggi e testi più o meno noti.
In primis Cicerone, con le sue riflessioni su riso e oratoria nel De oratore,
riprese e forse sovrainterpretate da Quintiliano; e poi, imperatori,
buffoni, schiavi, per finire col riso delle donne, i mimi e le facce da
animale. Il lettore non avrà che da seguire per molte pagine la
affascinante strategia discorsiva di Mary Beard, vedendo crollare luoghi
comuni a vantaggio di un arricchimento di sorprendenti conoscenze sul
ridere a Roma, nonché sull’assenza o la scarsa rilevanza del
‘sorridere’.
E le barzellette? Come mai ridiamo ancora leggendo una raccolta di tarda
età imperiale (scritta in greco e dalla tradizione complicata) come il Philogelos, cioè L’amante del riso?
Non certo perché ridiamo ancora come i Romani, ma solo perché, in
qualche modo, il loro riso è entrato nella tradizione che porta fino a
noi, con, forse, continui riadattamenti culturali. Però provate a dire a
qualcuno, oggi, che è ridicolo. Se l’aveste detto a un Romano:
ridiculus es, avrebbe cercato di capire se volevate fargli un
complimento (sei uno arguto, capace di far ridere) o denigrarlo.
Differenza non da poco.
Troppi scherzi e battute così Cicerone finì nei guai L’umorismo del grande oratore lo dimostra: i Romani sapevano ridere e far ridere. Un saggio di Mary BeardMAURIZIO BETTINI Rep 25 1 2017
Cicerone non era affatto un tipo serioso, come lascerebbero credere i testi delle versioni che si danno a scuola. Al contrario, era un amante dell’arguzia e delle battute di spirito. Non c’è dubbio che in tribunale e nella vita politica questa dote gli avesse spesso permesso di mettere in difficoltà i propri avversari; ma è altrettanto vero che, a giudizio di molti, la sua arte della battuta aveva anche finito per nuocergli. Veniva infatti accusato di cavarsela troppo spesso con una spiritosaggine, invece di affrontare con serietà i problemi che gli venivano presentati; e soprattutto di trattare con leggerezza temi che avrebbero invece richiesto serietà e compostezza. In breve, l’essere spiritoso aveva procurato a Cicerone tanta ammirazione quanta ostilità, e alla fine molti nemici. Il fatto è che le battute sono armi taglienti, lo sono per chi le subisce ma, paradossalmente, possono esserlo anche per chi ne è l’autore. Provate a farne con gente che per carattere personale o per appartenenza culturale è aliena da questo gioco: alla seconda battuta accadrà che vi prenderanno in antipatia e alla terza cercheranno semplicemente di farvela pagare.
Ma com’erano poi queste famose battute di Cicerone? Così fulminanti come dicono? Plutarco ne riporta qualcuna. Si raccontava per esempio che quando l’Arpinate era in campagna elettorale per il consolato, la carica di censore era tenuta da Lucio Cotta, il quale aveva fama di amare il vino. Una volta dunque che Cicerone ebbe sete, e si fermò a bere a una fontana, commentò: «Il censore potrebbe prendersela con me perché bevo acqua!». Battuta brillante, ma non certo capace di procurargli il sostegno politico del censore Cotta. Un’altra volta, incontrando un tale che aveva due figlie assai brutte, commentò: «Ha generato figli a dispetto di Febo!». Battuta sicuramente sgradevole, perché non si scherza sulla bruttezza delle persone. Già, ma a parte questo non trascurabile difetto, che cos’ha di ridicolo questa uscita? Difficile capirlo, almeno per noi.
Probabilmente Cicerone alludeva a un verso tragico in cui qualcuno parlava di Laio, il padre di Edipo: al quale l’oracolo di Apollo aveva predetto che, se avesse avuto un figlio, questi lo avrebbe ucciso. Magari questo verso veniva da una tragedia appena rappresentata, e dunque era ben presente alla memoria dei Romani; magari era diventato addirittura un proverbio, e tutti lo conoscevano. Chissà. Sia come sia, resta il fatto che a noi questa battuta non fa ridere. La qual cosa ci invita a riflettere su un problema più generale: è molto difficile capire di che cosa, e come, ridevano gli antichi, così come spesso lo è ridere con loro. Proprio come difficile è ridere di battute fatte in un’altra lingua — prova ne sia l’imbarazzo in cui spesso ci mettono le vignette che figurano sui giornali stranieri — e ancor più difficile è far battute in una lingua che non è la nostra. Impresa disperata, votata a sicuro fallimento. Perché il comico, il riso, costituisce in realtà uno dei fenomeni culturali più stratificati, sofisticati e complessi che esistono, legato com’è ai sottofondi del linguaggio, al vorticare degli avvenimenti, alle pulsioni più segrete, e speciali, di un gruppo o di un’intera società. L’alterità, ecco il nemico, e insieme il custode, del comico.
Per questo risulta tanto ammirevole, quanto riuscito, lo sforzo che Mary Beard ha fatto nel suo Ridere nell’antica Roma, un volume che tra acribia e leggerezza, filologia e senso dell’umorismo, erudizione e autentico senso storico, ci restituisce un quadro affascinante del come e del perché i romani ridevano o (perlomeno) si suppone che lo facessero. Senza peraltro sottrarsi all’altro terribile compito che inevitabilmente si trova ad affrontare chi si addentra su questo terreno: ossia quello delle “teorie” elaborate sul comico fin dall’antichità, un filone della riflessione filosofica e antropologica che vanta i nomi di Aristotele, dello stesso Cicerone, di Quintiliano, di Hobbes, di Freud, di Bergson e così via. Il fatto è che l’autrice, brillante divulgatrice oltre che storica di valore, non sa solo studiare e interpretare i testi, conosce anche l’arte di farsi leggere. Cicerone, con una delle sue battute, avrebbe detto: quale mostruosità maggiore di un libro noioso sul ridere?
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