Hasta siempre comandante! Sarà una morte annunciata quella di
Fidel Castro ma, facendo riferimento al suo grande amico Garcia Marquez,
la cronaca della scomparsa di un gigante politico del Novecento non ha
nulla di normale. Da giorni era in ospedale, ma quando venerdì dopo il
film della notte, la tv ha interrotto le trasmissioni e ha annunciato un
comunicato speciale, i brividi sono corsi nella schiena dei
telespettatori.
Quello che quasi nessuno voleva sentire e vedere, perché Fidel esta
vivo, stava accadendo. Uno sguardo al fratello Raúl, in uniforme da
generale, accasciato su una scrivania, un foglio in mano, la voce
tremante, è stato come un lampo. E quando il presidente ha annunciato ai
«cari compatrioti» Fidel falleció, quell’istante ben pochi lo
dimenticheranno.
Finisce un’era, finisce un mondo, un modo di essere cubani, con
dignità, al centro degli eventi pur vivendo in una piccola isola che
prima di lui era il casino degli Usa. Una visione certo manichea, ma
quasi tre generazioni sono cresciute così, con Fidel come un padre,
degno o tirannico a seconda dei punti di vista, ma sempre la grande
figura dominante. Un baluardo, simbolo dell’indipendenza nazionale
soprattutto dalle mire egemoniche del potente vicino del Nord. Un
baluardo indebolito da quando, nel 2006, era stato operato e si era
messo da parte «temporaneamente».
MA MILIONI DI PERSONE a Cuba hanno continuato a
sentirlo come «uno di famiglia». Lo shock emotivo è stata la prima
reazione. E una grande tristezza, assieme a un senso di vuoto, di
incertezza sul futuro. Ma in generale sentimenti contenuti, manifestati,
fatto insolito per Cuba, a voce bassa. Come fosse difficile esprimere
un tale vuoto. Anche i giovani, accusati di essere ormai legati solo al
giorno per giorno, con pochi valori e poca politica, esprimevano così,
con parole a mozziconi, «una noticia fuerte y triste». Un silenzio
profondo nella notte. A fronte dell’indecente rumore delle feste a
Miami.
LA CITTÀ IERI SI È SVEGLIATA con le bandiere a
mezz’asta in edifici pubblici e hotel, in lutto ufficiale, scuole
chiuse, cerimonie rimandate, compreso l’atteso concerto di Placido
Domingo previsto per ieri sera al Gran teatro della capitale. Mentre il
corpo di Fidel, «secondo i suoi desideri», veniva cremato.
Le sue ceneri partiranno dall’Avana il 3 dicembre e percorreranno
l’isola a ritroso rispetto a quella che fu l’avanzata della rivoluzione
dal 1958 fino al trionfo nel gennaio 1959, dalla Sierra Maestra
all’Avana. E verranno sepolte, dopo aver raccolto l’omaggio di tutta
Cuba, nel cimitero di Santa Efigenia a Santiago, dove già dall’anno
scorso è pronto il mausoleo di Fidel. Accanto a Martì, Apostolo della
patria e a altri grandi, dalla lotta di indipendenza contro la Spagna e
alla guerriglia rivoluzionaria.
LA PRIMA CERIMONIA PUBBLICA, di massa, è prevista
per lunedì in piazza della Rivoluzione, dove l’immagine di Fidel –per
più di 50 anni per volere del lider maximo esposta solo in uffici-
comparirà accanto a quelle del Che Guevara e di Camilo Cienfuegos. A
quest’ultimo, quando l’8 gennaio era entrato trionfante all’Avana e
arringava la folla proclamando una nuova era di libertà, Fidel aveva
chiesto voy bien Camilo?, «dico bene?», ricevendone l’assenso. Sulla
medesima piazza, a metà degli anni ’60, il comandante leggeva la lettera
con la quale il Che salutava Cuba e annunciava che altre rivoluzioni lo
attendevano. Non vi è dubbio che il saluto al comandante sarà dato da
una folla immensa.
Ieri in mattinata la città era tranquilla, l’atmosfera di tristezza e di incertezza era presente ma abbastanza sotto traccia.
SENZA FIDEL CHE SUCCEDERÀ? Una domanda che però non
era pronunciata per la prima volta. Ma circolava da tempo. Da quando
nell’ultimo congresso del Pc, il comandante aveva annunciato che si
metteva da parte. E che toccava ai giovani gestire e continuare la
Rivoluzione. Ma ora la domanda è concreta, ognuno ha la sua ricetta, chi
pensa che le riforme intraprese da Raúl verranno accelerate, chi teme
che lo zoccolo duro della burocrazia di partito resista. Ma i cubani
sono soprattutto emotivi.
Per tutto il lutto non saranno distribuite bevande alcooliche,
polizia e forze di sicurezza sono nelle strade come sempre per dare
garantire la sicurezza di una città in generale sicura. I negozi
resteranno chiusi durante il lutto? Molta gente, in attesa di una
risposta ufficiale, si è messa in coda, lunghe fila, per comprare generi
alimentari e quanto può servire per la casa. Code anche di fronte alle
case di cambio. Nella coda i discorsi erano polarizzati, un dolore
contenuto ma anche gli interrogativi sulla nuova fase che si apre,
perché la scomparsa di Fidel , appunto, non ha nulla di ordinario.
VI SONO POCHI DUBBI sul fatto che il fratello Raúl
Castro gestirà la transizione. Il fratello minore ha ormai da più di
dieci anni il timone politico e militare, perché gran parte del suo
staff è in uniforme. E le forze armate, controllano anche più dell’80%
dell’economia con un conglomerato, la Gaesa, che controlla più di 50
compagnie che operano in molti settori, dal turismo al commercio, dalla
ristorazione alla costruzione, dai trasporti alla sicurezza. La sua
squadra di Raúl è sperimentata. Ma vecchia. Appartiene alla generazione
di Fidel.
E dovrà mettersi da parte presto. Il presidente lascerà la carica nel
febbraio del 2018. E dall’altra parte del Golfo di California, si
allunga l’ombra di Donald Trump.
Il fratello Raúl lo saluta: hasta la victoria. Silenzio lungo le strade: lui è la nostra storia
Francesco Semprini Busiarda
Il silenzio, vellutato e profondo, da Plaza de la Revolución al Malecón, e più a nord sino ad avvolgere Vedado e Miramar. Un silenzio cadenzato da luci appassite e dal bisbiglio sofferto di chi compostamente racconta la sofferenza per la «scomparsa alla quale non avrebbero mai voluto assistere».
«Non sembra vero, pensavamo vivesse in eterno», spiega Daniel Romero.
Accanto a lui c’è chi volge gli occhi lucidi al cielo come a cercare, invano, la stella che non brilla più, la più brillante e più alta del firmamento cubano, la stella rossa del Líder Máximo. Venerdì alle 22,29 si è chiuso uno dei capitoli più rivoluzionari e controversi dalla storia contemporanea, e a mettere la parola fine è stato il suo stesso protagonista. Un capitolo che ha la sua genesi nelle trame post-coloniali e che, attraversando la Guerra fredda, è ambientato nelle ultime pagine in un mondo lontano anni luce dal suo. Quasi a volerne fermare la storia, una storia durata poco meno di un secolo, una storia che porta il nome di Fidel Castro.
L’annuncio del fratello
L’ex presidente si è spento dopo dieci anni di malattia, a raccontarne l’ultimo respiro è stato il fratello Raúl con un breve e sofferto discorso televisivo alla nazione: «Caro popolo di Cuba, è con profondo dolore che compaio in questa sede per informare voi, gli amici della nostra America e il mondo intero della scomparsa del comandante in capo della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz. Hasta la victoria siempre». Il presidente è visibilmente commosso, anche lui che, otto anni fa aveva ricevuto il testimone della guida del Paese dal Líder Máximo, alle prese con l’ultima grande battaglia contro la malattia, non era pronto ad assistere alla scomparsa del fratello. E la sensazione all’Avana è questa, è come se nessuno fosse pronto a un tale evento, nonostante i 90 anni compiuti dal barbudo pioniere del socialismo reale al di qua della cortina di ferro.
Come Daniel Romero in tanti non se ne capacitano, scuotono la testa, la stringono tra le mani ripetendo il nome Fidel in maniera quasi ossessiva. «Sono distrutta - dice Aitana - la nostra storia è la sua storia, ci ha preso per mano e ci ha condotto per tutti questi anni, non posso crederci». L’Avana piange il suo líder ovattata in quel silenzio surreale di calma apparente che sembra covare un dolore orfano dell’elaborazione del lutto.
Le ultime parole
Come se i cubani della capitale e non solo fossero stati convinti che non avrebbero mai vissuto questo momento. Quelli di loro che sono scesi in strada a dar voce al dolore, raccontano il dramma come una sorta di stupro al normale corso della vita. Come quando un padre assiste alla scomparsa del figlio, nonostante molti di loro siano figli di Fidel Castro e della sua rivoluzione. E così in questo silenzio pneumatico che si coglie sin dall’arrivo a José Martí, lo scalo internazionale, riecheggiano le parole ultime che Fidel pronunciò in pubblico. «Presto compirò 90 anni, presto sarò come tutti gli altri, è un momento che arriva per tutti - disse lo scorso aprile durante il congresso del Partito -, ma le idee dei comunisti cubani rimarranno come prova che su questo pianeta, se si lavora con fervore e dignità, si possono produrre materiali e beni culturali di cui gli esseri umani hanno bisogno. È necessario combattere senza mai rinunciare».
Parole che per i cubani fedeli al regime sono il «testamento» del loro leader: «Fidel l’immortale» come dice qualcuno perché così è l’immagine che di lui emerge nelle prime ore successive al lutto. Ore nelle quali pian piano si diffonde la notizia nella capitale e nell’isola, dove la televisione non è un bene di largo consumo e dove Internet è un lusso concesso col contagocce al popolo. Perché il regime è anche questo, anzi molto di più, nonostante la lenta riapertura e il ripristino delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, alle quali però non è ancora seguito un ritiro degli embarghi. Ma oggi a L’Avana non si parla di questo. Si piange solo il Líder Máximo e lo si fa secondo l’ordine impartito da Raúl quando, congedandosi dai teleschermi dopo l’annuncio della morte del fratello, ha pronunciato la formula magica: «Hasta la victoria siempre».
Le lacrime dei cubani
Perché è questo che i cubani di Cuba, o almeno quelli fedeli al loro líder, si vogliono sentir dire, gli esuli di Miami sembrano lontani anni luce così come i nemici del regime. «Per le riflessioni ci sarà tempo, anche per parlare del futuro», spiega Ramon a chi gli chiede cosa si aspetti ora dai palazzi del potere dell’Avana. Cuba, una certa Cuba, vuole solo piangere il suo Líder Máximo, ricordandone l’aspetto iconico nella sua mimetica verde oliva, col cappello e il Cohiba in bocca, e con lo sguardo compiaciuto e ambizioso. Non più giovane ma sicuro, malgrado tutto, di essere portatore di una messaggio ancora rivoluzionario.
Così come viene rappresentato nelle immagini che campeggiano per la città, quelle che lo rendono «immortale», come quando nel 1960, pronunciò il discorso fiume di 269 minuti dinanzi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Immortale davanti ai potenti della Terra. Immortale come il compagno di lotta di un tempo Ernesto Guevara, detto il «Che», con cui espugnò L’Avana nel gennaio del 1959, cacciò la dittatura di Fulgencio Batista e stabilì la spina marxista nel fianco dell’Occidente a stelle e strisce. Aveva 32 anni, il più giovane leader in America Latina. Allora sì che sembrava immortale.
«Sarà uno spettacolo importante, come ai tempi del “Che”», dice Edmundo, signore con un numero di anni sufficienti a ricordarsi la cerimonia in onore del padre della «Guerra di guerriglia», morto in Bolivia in circostanze poco chiare. «C’erano centinaia di migliaia di persone - prosegue - Questa volta per il Líder Máximo saranno ancora di più».
Il lutto
Nove giorni di lutto, come annuncia Raúl Castro, in cui «non si svolgeranno spettacoli, le bandiere saranno a mezz’asta in sedi pubbliche e istituti militari e tv e radio pubbliche rispetteranno una programmazione informativa storica e patriottica sulla vita di Castro». Fidel sarà cremato, secondo sua volontà, le ceneri portate a Santiago de Cuba, culla della sua ribellione armata.
I funerali si terranno il 4 dicembre quando il popolo si raccoglierà a lutto inneggiando a «socialismo o muerte», il grido di battaglia che lo ha reso immortale. Sino a ieri.
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Quando Berlinguer disse “Un abisso coi Paesi dell’Est”
Dal segretario del Pci a Bertinotti, gli italiani affascinati dal mito Spriano sentenziò: “La rivoluzione si trasforma in un ritmo ballabile”
Mattia Feltri Busiarda
«Siamo riusciti dove ha fallito la Cia», ironizzarono quelli del Pci. Era successo che Enrico Berlinguer aveva chiuso la mano del capo del sicurezza di Fidel Castro nella portiera di una Chaika, l’auto ammiraglia dell’Unione sovietica. «Si sentì un rumore sinistro di ossa rotte», scrisse anni dopo il corrispondente all’Avana dell’Unità. L’infortunato emise un solo stoico gemito prima del ricovero, ma l’episodio non rovinò la visita. Era il 1981, e Berlinguer rimpatriò con tutte le sue perplessità e una certezza: «C’è un abisso coi Paesi dell’Est». Riferiva forse la stessa impressione di Paolo Spriano, contegnoso storico del Pci e dell’operaismo, per il quale a Cuba la rivoluzione poteva «trasformarsi in un ritmo ballabile». Era il ritmo per cui il comunismo filomoscovita diffidava del castrismo, senza sconfessarlo, e per cui il movimentismo sessantottino se ne innamorò. Cuba era Macondo, e Castro era il velleitario Aureliano Buendía, e cioè il luogo e l’eroe di Cent’anni di solitudine il cui celebratissimo autore, Gabriel García Márquez, era con Maradona il garante sentimentale del socialismo caraibico. Un sogno per il variopinto mondo della contestazione, come Ho Chi Min o il terzomondismo, la sollevazione senza burocrazia e doppiopetti, e fino alla vaga traduzione di Beppe Grillo: «L’esigenza di un rovesciamento radicale della società».
Naturale che stesse con Fidel il Movimento disoccupati napoletani che nel ’90 chiede asilo politico all’ambasciata di Cuba, dove regna «la giustizia sociale», e naturale che ci stessero i frati francescani di Assisi, che nel ’96 sperano di progettare con lui il futuro dell’isola. Torneremo al ’96 ma, anni prima, a viaggiare a Cuba sono soprattutto Luigi Pintor e Rossana Rossanda - oltre a Pietro Ingrao - cioè gli animatori del Manifesto, e non sono proprio critici, ma nemmeno entusiasti. E quando nel ’96 il Líder Máximo viene in visita a Roma, Pintor se ne va in Svizzera, annoiato, mentre resta Valentino Parlato che trova meravigliosa l’ipotesi di un Fidel Castro che pronuncia un discorso dalla finestra della redazione. Castro però non ci va e si farà perdonare con un barilotto di rum. «Ottimo», dirà Parlato. Siamo già nella seconda Repubblica, e a quel punto appoggiano la Revolución, già malmessa, già più un poster che un’ambizione, tutti i partiti a sinistra del Pds. E senza barcollare. Fausto Bertinotti è il più entusiasta per «le speranze e le emozioni» e, quando papa Wojtyla dichiara il regime «dell’odio, della vendetta, delle vittime» - presupposto irrinunciabile della ricucitura - il capo di Rifondazione, ardito, lo invita a minore superficialità: Castro «è uno dei massimi capi di Stato». Stanno con lui tutti, da Oliviero Diliberto ad Armando Cossutta. E siccome bisogna sempre guardare a sinistra, come ha fatto ieri Roberto Speranza, della minoranza Pd («un pezzo di storia del Novecento... ha influenza intere generazioni», che potrebbe valere anche per Adolf Hitler), nel ’99 ci si butta pure Massimo D’Alema, che al Senato riferisce di una lettera di Fidel per complimentarsi dell’«intervento umanitario» in Kosovo. È un D’Alema già più contenuto di quello che, nel ’78, era sinceramente «impressionato dalle conquiste civili della rivoluzione cubana».
Tutti castristi, alla lunga. E perché essere castristi significava essere antiamericani e in generale contro il sistema. Qualunque sia e sebbene se ne faccia parte. Anche a marxismo morto. È il castrismo assoluto dei castristi assoluti alla Gianni Minà o alla Gianni Vattimo. Ed è il tipo di castrismo che piace molto agli intellettuali: Giangiacomo Feltrinelli scrive a Cuba nel ’68 il suo Guerriglia politica; Dario Fo dice che Fidel è un uomo «ancora capace di ascoltare»; Alberto Ronchey illanguidisce davanti all’«utopia in un clima perfetto, con le mense comuni, sena valuta»; Claudio Abbado suona a un compleanno del dittatore: «I nostri mestieri sono simili». Oppure si è castristi per personalissime ragioni. Don Verzé: «Grand’uomo. Così prepotente, così simpatico. Mi faceva portare l’olio del mio Veneto e il Recioto. Dieci bottiglie: una la apriva in Consiglio dei ministri, le altre nove se le beveva lui. Un carisma che ritrovo solo in Gheddafi». Gina Lollobrigida: «Quelle mani così belle...». Carla Fracci: «Nei paesi socialisti il balletto gode di grande considerazione». E si rimane castristi, oltre il tempo massimo, per l’ultimo spiffero di leninismo: «La volontà e la lotta del grande rivoluzionario cubano ha trasformato il suo popolo ridando dignità e uguaglianza contro la mercificazione dell’imperialismo», ha detto ieri Marco Rizzo, comunista irrimediabile che forse non ha mai letto la conversazione ricordata da Rossana Rossanda, con Fidel che non sapeva chi fosse Lev Trockij, ma escludeva che lo avesse fatto uccidere Stalin: «Impossibile!».
Castellina: non era regime poliziesco Lui fu Davide che sfidò Golia
“Certo, nell’isola paranoia e burocratismo. Ma anche orgoglio”
Riccardo Barenghi Busiarda
«Mi dispiace molto, e penso che i cubani piangeranno per la morte di Fidel Castro. Perché Fidel, malgrado tutto, era ancora popolarissimo. Così come la sua rivoluzione, una storia complicata che però ha sempre suscitato un forte orgoglio nei cubani e in tutti i popoli dell’America Latina». Luciana Castellina, storica dirigente del Pci, prima, e poi del “manifesto” su cui scrive ancora oggi (proprio oggi e proprio su Fidel), paragona Cuba a “Davide che sfida Golia”.
Per questo, nonostante la povertà, la mancanza di libertà fondamentali, la repressione di ogni dissenso, il regime cubano è rimasto in piedi così a lungo, ormai da quasi sessant’anni?
«Esattamente. Quel popolo ha sempre sostenuto il suo regime proprio perché è stato l’unico argine alla colonizzazione. Se pensiamo alle difficoltà enormi che quella gente ha dovuto sopportare, l’isolamento, l’embargo economico, la povertà, la fame, non si spiega altrimenti la ragione per cui Castro non è stato buttato giù trent’anni fa insieme a tutti i regimi comunisti dell’Europa dell’est».
Forse perché c’era comunque un durissimo regime poliziesco?
«Ma questa è una balla colossale. Se ci fosse stato non sarebbero state permesse quelle manifestazioni oceaniche in occasione delle visite dei Papi o del concerto dei Rolling stones, che avrebbero potuto facilmente trasformarsi in occasioni di protesta politica».
E allora perché?
«Perché lì ha sempre funzionato un principio elementare ma difficilissimo da applicare quello dell’uguaglianza. Basti pensare alla scuola, all’università e alla sanità. Tutte pubbliche e gratuite. Un principio che ha mantenuto viva la dignità dei cubani».
E lei come e quando ha scoperto Cuba?
«Sarà stato il ’56 o ’57, ero in una tipografia della Tiburtina per impaginare Nuova generazione (il giornale dei giovani comunisti, Ndr) e siccome non avevamo una lira per comprare le fotografie le saccheggiavamo da altre riviste. Trovai su Newsweek, una bellissima foto di un gruppo di guerriglieri nella selva, tra i quali Castro. Nell’intervista Fidel raccontava che mangiavano carne di serpente e erba e dicevano che volevano liberare Cuba. Invece di una didascalia scrissi un’intera pagina».
Una rivoluzione romantica?
«Una rivoluzione allegra, perché i cubani sono allegri. Che ha esercitato una grande fascino su tutta la sinistra mondiale. A cominciare dai giovani di allora e pure di oggi, visto che le magliette con la faccia di “Che” Guevara ancora vanno a ruba e le vedi indossate in tutti i paesi del mondo».
Però quella rivoluzione “romantica” ha anche prodotto una compressione delle libertà e dei diritti individuali e collettivi.
«E questo è il lato peggiore di Cuba. La paranoia, la grettezza, il burocratismo portato all’eccesso. Che non hanno una giustificazione ma una spiegazione sì. E cioè l’ossessione del nemico, la paura di essere attaccati e invasi. Non a caso tutte le rivoluzioni sono finite in questa spirale: quella francese col Terrore, quella sovietica con un regime autoritario se non dittatoriale. Ricordiamoci però quel che disse Churchill dopo il 1917: “La rivoluzione russa va stroncata nella culla”».
Lei ha incontrato spesso Fidel?
«Diverse volte quando ero vicepresidente della delegazione del Parlamento europeo per l’America latina. In Particolare ricordo che prima di arrivare a L’Avana avevamo avuto un incontro con la Commissione esteri del Congresso americano, presieduta da Robert Torricelli, un democratico che aveva però proposto una legge odiosa contro Cuba, inasprendo l’embargo. Uscendo alla sala rubai la targhetta in cui c’era il nome di Torricelli e la portai a Fidel: “In vita mia ho avuto molti regali, ma uno come questo mai”».
E ora come vede il futuro di Cuba?
«Male, molto male. Malgrado Raul sia una persona sensata, meno duro del fratello, temo che le aperture di Obama ormai siano bruciate. Non a caso Trump ha esultato alla notizia della morte di Fidel. Lo spettro di una nuova colonizzazione si aggira intorno a quell’isola nella corrente».
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“La rivoluzione fallì per colpa di Europa e Usa”
Macaluso: li lasciammo alla Russia
Giuseppe Alberto Falci Busiarda
«Da un certo punto di vista Fidel è stato un eroe». Dalla casa di Testaccio Emanuele Macaluso, ex dirigente del Pci e già direttore de L’Unità, commenta la scomparsa di Castro.
Insomma senatore Macaluso, il líder máximo se ne va da eroe, non da dittatore?
«Sì, Castro è stato un uomo che ha fatto una rivoluzione autonoma contro una dittatura feroce, quella di Batista, e ha sfidato gli Stati Uniti. La colpa fu dei democratici americani ed europei che tentarono di stroncare quella Rivoluzione, spingendolo a fare una patto di ferro con la Russia. Da lì iniziò l’involuzione del regime: gli arresti dell’opposizione, la vicenda dei missili, la tensione con Kennedy. E da quest’altro punto di vista Castro è stato un uomo che ha vissuto una forte contraddizione: la sua è stata sì una rivoluzione democratica autonomista, ma un modello mai esportato».
Da dirigente di Botteghe Oscure, ha un ricordo personale?
«Negli Anni 70 rilasciai un’intervista al Corriere della Sera sull’involuzione del regime. In quell’occasione feci una critica aperta che venne considerata dai cubani troppo forte, quasi fosse un atto di ostilità del Pci. E quando Giancarlo Pajetta, allora dirigente incontrò lo stato maggiore dei cubani, questi ultimi sollevarono la mia questione. E sa cosa rispose... che “quelle erano valutazioni personali”. Ora per via di quest’elemento ostativo non l’ho mai incrociato, e non ho mai messo piede a Cuba, nemmeno quando fui direttore dell’Unità».
Cosa ha rappresentato per i comunisti italiani Fidel Castro?
«La rivoluzione autonoma non portata dai sovietici: il segno possibile di una rivoluzione fatta col popolo, con l’instaurazione di un regime che aveva i segni del socialismo. Poi certo Castro fu costretto a saldare un rapporto di ferro con l’Urss, con le conseguenze che conosciamo: quella rivoluzione perse un pezzo della sua autenticità ed autonomia».
Svanito Castro si possono definitivamente archiviare il ’900 e l’esperienza comunista?
«L’esperienza comunista? Ma quale esperienza?! Non era un’esperienza comunista, la sua era un’esperienza autonoma; con la scomparsa di Fidel si apre la possibilità che il Paese si democratizzi, anche se purtroppo ora c’e Trump…».
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“Così Wojtyla lo convinse a festeggiare il Natale”
L’ex portavoce Navarro-Valls: voleva sapere tutto di Giovanni Paolo II
Andrea Tornielli Busiarda
«Fidel Castro mi tenne a parlare per sei ore. Era incuriosito da Giovanni Paolo II, e pur essendo geloso della sua interiorità si capiva che voleva andare più a fondo... Gli dissi che era un uomo fortunato, perché il Papa pregava ogni giorno per lui. Per una volta rimase in silenzio». Joaquín Navarro-Valls, il portavoce di Giovanni Paolo II in occasione della storica visita di Wojtyla a Cuba del gennaio 1998 ha svolto un ruolo che va ben al di là di quello ufficialmente assegnato al direttore della Sala Stampa vaticana. Così lo racconta in questa intervista concessa a La Stampa.
Come si arrivò alla visita del Papa che aveva contribuito ad abbattere il Muro di Berlino in uno degli ultimi baluardi del comunismo?
«Per una decina d’anni Giovanni Paolo II aveva inviato suoi delegati a Cuba. Ci andò anche il “ministro degli Esteri” vaticano Jean Luis Tauran. Il Papa aveva il desiderio di visitare l’isola, ma l’invito non arrivava. Finalmente nel novembre 1996 Castro venne a Roma per una riunione della Fao e fu ricevuto in Vaticano e invitò formalmente il Pontefice».
Come si preparò il viaggio?
«Per tutto il 1997 si lavorò ad organizzarlo. Tre mesi prima che avvenisse, nell’ottobre di quell’anno, arrivai all’Avana e incontrai Fidel. Fu un incontro lungo, durato sei ore e concluso quasi alle tre del mattino. Castro era molto incuriosito, voleva sapere tutto su Giovanni Paolo II, che famiglia aveva avuto, come era vissuto. Voleva sapere di più sull’uomo Wojtyla e lasciava trasparire la sua ammirazione per lui. Si percepiva che voleva andare più a fondo. Gli dissi: “Signor presidente, la invidio”. “Perché?”. “Perché il Papa prega per lei ogni giorno, prega affinché un uomo della sua formazione possa ritrovare la via del Signore”. Il presidente cubano per una volta rimase in silenzio».
Che cosa chiese lei a Castro per conto della Santa Sede?
«Gli spiegai che essendo stata ormai fissata la data della visita, il 21 gennaio 1998, era interessante che questa risultasse un grande successo. “Cuba deve sorprendere il mondo”, gli dissi. Fidel si dichiarò d’accordo. Allora io aggiunsi qualcosa a proposito delle sorprese che il Papa si aspettava. Chiesi a Castro che il Natale ormai alle porte fosse celebrato a Cuba come una festività ufficiale per la prima volta dall’inizio della rivoluzione».
Come reagì il Líder Máximo?
«Disse che sarebbe stato molto difficile, il Natale cadeva nel pieno del raccolto della canna da zucchero. Replicai: “Ma il Santo Padre vorrebbe poterla ringraziare pubblicamente per questo gesto già al suo arrivo all’aeroporto dell’Avana”. Allora, dopo una lunga discussione, Castro finì per dire di sì. Anche se aggiunse: “Ma potrebbe essere soltanto per quest’anno”. Mi limitai a dire: “Benissimo, il Papa gliene sarà grato. E quanto all’anno prossimo, si vedrà”. Com’è noto, la festa del Natale è continuata a essere da allora festa civile».
Come guardava a Castro Papa Wojtyla?
«Sul volo verso l’Avana un giornalista chiese al Papa che cosa avrebbe consigliato al presidente Usa riguardo alla posizione da tenere con Cuba: “To change!”. Il suo consiglio era di cambiare. Poi gli venne chiesto che cosa si aspettasse dal presidente di Cuba. Giovanni Paolo rispose: “Mi aspetto da lui che mi spieghi la sua verità, come uomo, come dirigente e come comandante”. Io non ero sull’aereo, stavo già all’Avana. Ricevetti il testo di quella risposta e la mostrai a Castro mentre aspettavamo che il Papa atterrasse. Così c’era già un ordine del giorno scritto per il loro incontro. L’incontro faccia a faccia durò a lungo e all’uscita erano entrambi sereni e sorridenti. Ricordo la messa nella Plaza de la Revolución con i fratelli Castro in prima fila e la folla che accompagnava l’omelia con il grido “Liberdad! Liberdad!”. E ricordo le parole con le quali Fidel congedò Giovanni Paolo II all’aeroporto prima della partenza per Roma: “La ringrazio per tutte le parole che ha detto, anche quelle che mi potrebbero non essere piaciute”. Aveva questa eleganza umana, mentre Wojtyla sorrideva: con quella visita aveva inaugurato un tempo di lente ma reali aperture».
La dottrina dei piccoli passi Il Vaticano decisivo per il disgelo
Da metà Anni 90 a oggi ha accompagnato la transizione
Busiarda
Papa Francesco, la diplomazia vaticana e la Chiesa cattolica potranno giocare un ruolo nel futuro di Cuba dopo la morte del líder máximo, anche giocando sulla «sponda» ecumenica dopo lo storico incontro del Pontefice e del Patriarca di Mosca Kyrill, avvenuto all’aeroporto dell’Avana lo scorso febbraio, con la discreta mediazione del presidente Raul Castro.
Il Vaticano e la Chiesa cattolica hanno accompagnato il lento processo di disgelo con il regime cubano dopo la caduta del Muro di Berlino. Per un decennio Giovanni Paolo II aveva inviato suoi rappresentanti ufficiosi nell’isola. La prima svolta è arrivata con la visita del gennaio 1998. Negli anni successivi altri piccoli passi sono stati fatti e così anche Benedetto XVI, prima di sbarcare in Messico, ha fatto tappa a Cuba nel marzo 2012, quando già da sei anni Fidel aveva lasciato la guida del Paese. L’arrivo di Giovanni Paolo II aveva portato al ripristino del Natale come festività civile, l’arrivo del suo successore Benedetto XVI aveva ottenuto lo stesso per il Venerdì Santo.
Bergoglio ieri ha parlato di una «triste notizia» e ha espresso «dolore ai familiari del defunto dignitario, così come al governo e al popolo di codesta amata nazione». Il primo Papa latinoamericano, del resto, ha sottolineato con maggiore forza nel suo magistero i temi della giustizia sociale e della difesa dei più deboli, i rapporti hanno subito una nuova accelerazione. Anche perché essendo maturato il tempo per un accordo tra Washington e l’Avana, sia Obama che Castro hanno chiesto a Francesco di offrire in Vaticano una cornice neutrale che favorisse la mediazione. Entrambi hanno ringraziato pubblicamente il Papa, anche se in realtà il ruolo della Santa Sede è stato defilato e discreto. Dopo l’accordo tra Stati Uniti e Cuba, nel settembre 2015, Bergoglio ha visitato i due Paesi nel corso dell’unico viaggio. E nei mesi successivi i contatti sono continuati per arrivare all’incontro con il Patriarca di Mosca.
Il Papa e la Segreteria di Stato vaticana continueranno nella direzione dei piccoli passi, per favorire la lenta transizione nel Paese, secondo la prospettiva già indicata da Wojtyla appena sbarcato all’Avana nel 1998: «Possa Cuba aprirsi con tutte le sue magnifiche possibilità al mondo e possa il mondo aprirsi a Cuba». Ed è possibile, almeno questa è la sensazione che si coglie Oltretevere, che Raul Castro ora si senta meno vincolato dopo la scomparsa del fratello. L’embargo, che la Chiesa da anni chiede venga tolto del tutto, resta come un pesante macigno per l’economia dell’isola caraibica.
Un’incognita per il futuro è rappresentata da ciò che farà la nuova amministrazione statunitense di Donald Trump. Francesco e la Chiesa cattolica, ma anche la Chiesa ortodossa che è legata a Vladimir Putin, cercheranno di non bloccare il processo disgelo iniziato due anni fa.
Grazie comandante
Sepulveda Busiarda
La notizia arriva con le prime luci del giorno, forse con la stessa intensa luce dell’alba che videro i membri dell’equipaggio del «Granma» sulla costa dell’isola prima di sbarcare e cominciare l’impresa che ha segnato il riscatto della dignità latinoamericana.
Negli occhi di quel gruppo di uomini e donne che toccò la sabbia bianca di Cuba c’era anche la luce dei caduti nell’assalto della Moncada e, per questo, il braccialetto con la scritta «26 luglio» era l’identità di coloro che – come avrebbe scritto più tardi un argentino chiamato semplicemente Che – compivano il grande passo verso la condizione superiore dell’insorto, del ribelle, del militante, e diventavano guerriglieri.
La dignità latinoamericana cominciò con il colore verde oliva e l’odore di cordite, polvere, sudore delle marce dentro la foresta, la fatica del combattente che, invece di stancarsi, dava ancora più slancio alla vocazione di giustizia dei guerriglieri, dei combattenti di Fidel, dei barbudos che indossavano vestiti sbrindellati, armati di machete da contadini e fucili sottratti al nemico in combattimento.
I combattenti della Sierra Maestra, i guajiros, gli studenti e i poeti, passo dopo passo, sparo dopo sparo, mostrarono all’America Latina che la stella del Comandante Guerrigliero era il distintivo del primo a combattere, di colui che dava l’esempio e coltivava la fiducia in un destino migliore.
E mentre i guerriglieri del «26 luglio» avanzavano sulle montagne e attraverso la giungla, in tutto il continente latinoamericano, dal rio Bravo fino alla Terra del Fuoco, gli umili innalzavano le loro bandiere di stracci, «perché adesso la storia dovrà fare i conti con i poveri dell’America».
Oggi è il giorno del ricordo rivoluzionario. È il giorno del dolore di coloro che ebbero il coraggio di compiere un grande e imprescindibile passo, abbandonare un’esistenza arrendevole e di sottomissione per unirsi al percorso senza ritorno della lotta rivoluzionaria.
Hasta la Victoria Siempre, Fidel! Hasta la Victoria Siempre, Comandante Guerrigliero!
@Luis Sepúlveda
In Italia di Sepúlveda è appena uscito da Guanda La fine della storia
Nel futuro dell’isola Trump e il Papa
Maurizio Molinari Busiarda
Con la morte di Fidel Castro scompare l’ultimo leader comunista del XX secolo e si apre per Cuba una fase di transizione che ha tre protagonisti: il fratello Raúl, Papa Bergoglio e Donald J. Trump. Quasi mezzo secolo di feroce dittatura, fedeltà al comunismo sovietico e sfida agli Stati Uniti hanno generato a Cuba un microcosmo dove ideologie del passato, impoverimento economico e faide di regime hanno trasformato la fede cattolica nell’unica piattaforma su cui poter ricostruire un’identità collettiva, prima ancora che un modello sociale.
La staffetta al potere fra Fidel e il fratello Raúl, avvenuta dieci anni fa, e la decisione dell’amministrazione Obama di abbandonare le sanzioni scommettendo su riconciliazione e commerci hanno creato le premesse per quanto ora diventa possibile all’Avana: gli eredi di Fidel hanno l’opportunità di trasformare il funerale del «Líder Máximo» nell’abbandono definitivo di una dittatura - spietato contro gli oppositori quanto contro i gay - che ancora imprigiona il destino dell’isola più grande del Mar dei Caraibi. In attesa di sapere se Raúl e i suoi più stretti collaboratori decideranno di permettere a 12 milioni di cubani di entrare a pieno titolo nel XXI secolo, possono esserci pochi dubbi sul fatto che quanto sta per avvenire a Cuba sarà un test tanto per il primo Pontefice latinoamericano che per il 45° Presidente degli Stati Uniti.
Papa Bergoglio è il leader più popolare sull’isola, è a lui che i cubani guardano sperando di riconquistare prosperità, diritti e libertà, ed è soprattutto la sua Chiesa a poter parlare direttamente con il popolo come il regime castrista non riesce più a fare dall’impoverimento massiccio seguito al crollo dell’Urss e dei suoi imponenti aiuti finanziari. Papa Bergoglio conosce le piaghe dell’isola e sa quanto il suo futuro conta per l’intero emisfero occidentale da dove lui proviene: le scelte che farà nelle prossime settimane potranno essere decisive sul corso degli eventi. Assai meno popolare, ma altrettanto decisivo, è il Presidente-eletto degli Stati Uniti. Nemico giurato del castrismo, paladino degli esuli di Calle Ocho a Miami e fautore di una proiezione dell’America nel mondo opposta a quella del predecessore, Trump trova nella morte del «brutale dittatore» Fidel il primo test imprevisto della sua presidenza. Dovrà rivedere l’agenda dei briefing di sicurezza, riassegnare le priorità strategiche al proprio team e apprendere in fretta quanto serve per affrontare i molteplici scenari che si aprono davanti alle coste della Florida: dal rischio di instabilità, rese dei conti all’Avana e dintorni all’opportunità di un’accelerazione nella normalizzazione dei rapporti bilaterali, inclusa la possibilità che gli esuli di Miami siano il motore più importante della rinascita economica.
Spingendo su uno stesso sentiero personaggi tanto diversi come Raúl, Papa Bergoglio e Trump, la morte di Fidel si preannuncia come un evento spartiacque: oltre a segnare la scomparsa dell’ultimo grande dittatore del Novecento, indica anche il possibile momento d’inizio di una nuova stagione per le Americhe. A conferma che, una volta ancora, la Storia passa per Cuba.
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La Chiesa “Si mise in tasca quel crocifisso dono del Papa”
PAOLO RODARI CON I TRE PAPI
CITTÀ DEL VATICANO.
«Solo ora che Fidel Castro non c’è più posso rivelare un episodio che per anni per discrezione ho preferito tenere per me. Avvenne a Cuba nel gennaio del 1998 durante il viaggio di Giovanni Paolo II. Al termine di un lungo colloquio, lontano dalle telecamere, il Papa donò a Castro un piccolo crocifisso in oro. Fidel accettò il dono e se lo mise nella tasca della sua giacca. Allora, e così negli anni successivi, questa cosa non poté essere rivelata. Per Wojtyla fu un segno col quale riconosceva del buono negli ideali del leader cubano. Non so cosa rappresentò per Castro. Ma comunque fu significativo il fatto che accettò il dono privato del Papa».
Joaquin Navarro-Valls aveva con Castro un rapporto speciale. Con lui svestì i panni del mero portavoce papale. Nell’ottobre del 1997, infatti, agì da fine diplomatico andando da solo in avanscoperta all’Avana per preparare lo storico incontro.
Cosa ricorda della sua missione lì?
«Tante cose. Su tutte probabilmente ciò che avvenne mentre il Papa stava volando per Cuba. Io lo aspettavo all’Avana. In volo – allora le conferenze stampa si facevano durante il viaggio di andata, ndr – un giornalista gli chiese: “Santo Padre, che cosa si aspetta da Fidel?”. Rispose: “Io voglio la sua verità, la sua verità di rivoluzionario, di capo di Cuba, la sua verità come comandante”. Mi mandarono subito il testo della conferenza stampa. Feci vedere a Fidel quella risposta del Papa che divenne immediatamente l’ordine del giorno della visita. Wojtyla voleva la verità di Fidel. Insomma, era arrivato fin lì per ascoltarlo».
L’incontro privato fra i due durò diverse ore. Cosa si dissero?
«Posso solo dire che uscirono sorridenti e rilassati. Credo che Castro gli abbia fatto moltissime domande. Era un uomo intellettualmente molto curioso».
Lei come preparò l’incontro?
«Venni invitato a casa di Castro verso sera. Lui di notte dormiva pochissimo. E, infatti, parlammo fino a notte fonda. Affrontammo diversi temi. Ricordo che mi chiese se a mio avviso ci fosse della vita oltre il nostro mondo. Gli dissi che la scienza fino a oggi non l’aveva scoperto ma che comunque di per sé non si poteva escludere. Poi mi disse: “La sfido a trovare in tutta la rivoluzione cubana una sola goccia di sangue versata da un prete cattolico”. Voleva sottolineare il fatto che a Cuba i preti non erano perseguitati a differenza di quanto avvenuto nelle rivoluzioni messicana e spagnola dove diversi sacerdoti vennero uccisi».
Tuttavia la Chiesa non aveva libertà d’azione.
«Era così. E Wojtyla lo sapeva bene. La Chiesa non poteva aprire scuole, ricoverare bambini, orfani. Nulla. Però, dopo l’incontro col Papa, la situazione cambiò in meglio. Fu uno dei frutti più belli di quel viaggio».
Spesso Castro veniva descritto come un condottiero burbero, spigoloso.
«In realtà se si aveva pazienza e se si riusciva ad andare oltre la facciata formale del grande dittatore si poteva incontrare un uomo anche giovale e capace di scherzare. Abbiamo riso moltissimo insieme. C’era un momento in cui abbassava la guardia e si lasciava andare a scherzi e risa ».
Cosa pensava del Papa?
«Giovanni Paolo II desiderava andare a Cuba ma l’invito non arrivava. Poi Castro venne a Roma, incontrò Wojtyla alla Fao e in quell’occasione decise di invitare il Papa. Credo che in fondo avesse ammirazione per il Papa, insieme a una grande curiosità».
Salutandolo all’aeroporto di Cuba Fidel cosa disse al Papa?
«Fu un saluto molto singolare. Disse: “Santo Padre, io la ringrazio per tutto quello che ha detto in questi giorni a Cuba, anche per quelle cose che a me non hanno potuto far piacere”. Fu molto sincero e il Papa apprezzò ».
Al disgelo con gli Stati Uniti ha contribuito molto la diplomazia vaticana. Come si è arrivati a questo risultato?
«Ho seguito naturalmente l’opera portata avanti da Benedetto XVI prima e da Francesco poi. La diplomazia vaticana agisce tassello dopo tassello. Il risultato finale è sempre il frutto di un grande lavoro precedente. Con Giovanni Paolo II c’è stato il cambiamento di una Chiesa, quella cubana, che dal nulla ebbe finalmente una sua rilevanza sociale. Prima del viaggio di Wojtyla era come se la Chiesa cattolica non esistesse: non si vedeva e non si sentiva. Erano vietate le manifestazioni pubbliche per le strade, anche qualsiasi forma di pietà popolare. Da lì in poi sono stati fatti altri passi che anche grazie al lavoro dei nunzi presenti sul territorio hanno contribuito al disgelo con gli Stati Uniti».
IL DOLORE DEL PAPA
Nel ricevere la triste notizia della scomparsa del suo caro fratello esprimo i miei sentimenti di dolore a lei e al popolo di questa amata nazione
Il messaggio di papa Bergoglio a Raúl
Gli italiani Il magnetico “barbudo” che stregò pure Andreotti
FILIPPO CECCARELLI Rep
Per dire la potenza delle suggestioni ideologiche: esiste un certo numero di maschi italiani che nell’arco di due o tre generazioni sono stati battezzati e dunque risultano iscritti alla anagrafe come Fidel. E ancora oggi non c’è dubbio che suoni quale tributo al “Líder Máximo”, altra espressione che dall’epopea castrista entrò di prepotenza nel gergo della politica e del giornalismo, pure dilagando nell’iconografia: e in questo senso, pure di sfuggita, varrà la pena di ricordare che il Patto del Nazareno fu siglato da Renzi e Berlusconi sotto un poster di Castro che giocava a golf.
Dunque Fidel, che riuscì a riscaldare il cuore del più freddo e scettico fra i potenti italiani, Andreotti: «Quando sorride – scrisse di lui il Divo - non sembra la stessa persona che il giorno prima minacciosamente tuonava». Strano ma vero, i due si piacquero. O forse Fidel era in grado di conquistare chiunque, nel caso specifico riscaldando la fama di cultura e di acume dei gesuiti, presso cui aveva studiato, e mostrando in quell’occasione di conoscere «con una notevole finezza - è sempre Andreotti - la letteratura latina, con appropriati riferimenti a Svetonio e Cicerone».
Una leggenda di imprevedibile fascinatore, un tornado di calore e avventurosa teatralità. Come quando volle portarsi Enrico Berlinguer a pesca, invano tentando di convincerlo che i barracuda che si aggiravano sotto la loro barchetta fossero innocui. Per due giorni quell’omone espansivo si tenne vicino lo schivo leader del Pci e oltre agli squali ci furono cene, battute, spiritosaggini, visite a sorpresa. Al terzo giorno, nella redazione di
Granma, Berlinguer dovette simulare un malore: «In realtà avevo solo un gran sonno». Quando si rividero, portarono a Castro un dispaccio: un volontario cubano, fattosi maestro di scuola in Nicaragua, era stato ucciso poche ore prima dai mercenari. «Eccola la loro libertà - esplose Fidel - lo hanno fatto mettere in ginocchio davanti ai bambini e l’hanno ucciso!».
Quanti ricordi. Anche Gianni Agnelli volle conoscere e invitare Castro a pranzo a casa sua, durante una visita a Roma nell’autunno del 1996. E anche l’Avvocato restò colpito da quella personalità - a parte la voce che gli suonò «fessa». Il personaggio era già piuttosto in avanti con gli anni, da un pezzo aveva dismesso i panni dell’uomo sexy che guidava “la classifica mondiale dei gridolini”, come scritto da chi deprecava l’infatuazione in salsa romantico- terzomondista che a ragione e a torto, come succede nelle pieghe della storia e della vita, afferrò moltitudini femminili negli anni ‘60 e ‘70.
Il Castro delle indimenticabili interviste al chiaro di luna con Rossana Rossanda. Ma anche - e qui il comunismo c’entrava poco o nulla - l’aitante leader dei barbudos innalzato a divinità nei servizi fotografici di Gina Lollobrigida. Tanto ebbe presa sull’immaginario, quel mito di esotica virilità, che ancora nel 1990 Sandra Milo, per rilanciarsi, divulgò sui rotocalchi un presunto, ma indimenticabile flirt fotografico nella giungla con un improbabile simil-Fidel, il colonnello Ordonez.
Non si conoscevano allora, o non si vollero approfondire, gli aspetti più brutali del regime cubano, le persecuzioni dei dissidenti e dei gay, la miseria profonda e la prostituzione disperata. Ma certo il colore o il calore di tanti italiani - dal maestro Abbado alla berlusconiana Katia Noventa, da Carla Fracci a Raffaella Carrà, da Salvatores a Gianni Minà fino al “Merolone” - non bastano forse a spiegare gli equivoci e i fraintendimenti di quella lunghissima stagione: la revolución vissuta qui come un’offerta votiva che dai Caraibi illustrava l’opportunità di costruire il socialismo superando la logica dei blocchi. Un socialismo allegro, oltretutto, creativo, tropicale, musicale, Que linda es Cuba e Guantanamera: «Nulla che potesse ricordare le musonerie sovietiche avvolte dalle nebbie di quei freddi paesi», proclamò a suo tempo Sergio Endrigo (che pure aveva le sue malinconie).
E insomma: come sfidare l’imperialismo americano e vivere felici. O almeno questa era l’impressione, l’illusione. Con il suo berretto e la mimetica sgualcita, Fidel recava in dono all’umanità formidabili campioni di baseball e di atletica leggera, i ritmi del Caribe, un sistema sanitario modello, le spiagge di Varadero, il “Tropicana”, “Casa Hemingway”, il rhum e i sigari più buoni del mondo.
A completare «la luna di miele», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, quell’altra celebre foto di Korda che del Che fece un’icona planetaria di libertà. Nulla che potesse far sospettare le torve lotte di potere all’interno della nomenklatura o il lento ma inesorabile scivolamento nel campo d’influenza sovietica; nulla che potesse aprire gli occhi non solo sulla paralisi economica, ma anche sulle mistificazioni che la negavano rilanciando l’eterno mito di Davide contro Golia.
Sta di fatto che partirono in tanti dall’Italia, con l’Aeroflot. Partirono dalle Botteghe Oscure Mario Alicata e Paolo Spriano. Partirono, più a sinistra del Pci, il professor Colletti e l’editore Savelli. Partirono, per tornare carichi di reportage, Moravia e Parise. «Quanto a Cuba - ha scritto Nello Aiello ne Il lungo addio (Laterza, 1997) - divenne meta privilegiata di viaggiatori liberal, quasi superando, in questo ruolo, la stessa Cina di Mao». Partì il giovane studente di architettura Renato Nicolini, per un convegno che nel documento finale fissò l’assioma: «Il primo dovere degli studenti d’architettura è di combattere l’imperialismo americano». Ma più di chiunque altro era partito per Cuba Giangiacomo Feltrinelli. E mai come nel suo caso, leggendo il libro del figlio Carlo ( Senior Service, Feltrinelli, 2000) e la documentatissima biografia, Feltrinelli, di Aldo Grandi (Baldini & Castoldi, 2000) si capisce come la Cuba di Castro sia stata una scoperta, una conquista, un’emozione, una speranza, una boccata di ossigeno. Una passione, insomma: certo politica, ma forse prima ancora esistenziale. Feltrinelli arrivò nei primissimi anni ‘60 con l’intento di pubblicare le memorie di Castro, ma invano, giacché questi intascò i dieci milioni di lire d’anticipo per acquistare un prezioso toro di razza Holstein con l’idea di migliorare la zootecnia dell’isola. «Cuando se hace la historia - spiegò in seguito - no se puede escribirla». In compenso l’editore divenne amico del “Líder Máximo”, e a lui si devono fantastiche e meticolose descrizioni del modesto condominio appartamento in cui viveva quella leggenda vivente, il cinturone e il revolver abbandonati sulla poltrona, il terrazzo con le galline e il cesto da basket, la nota e irrefrenabile logorrea.
Poi, come accade, anche Castro passò un po’ di moda. Il mondo, anche quello delle idee, prese altre forme. E neanche troppo lentamente l’aureola che luccicava attorno a Cuba perse fascino, allegria, energia, e parecchi che l’avevano venerata si acconciarono all’idea che quella figura di demiurgo rivoluzionario si poteva senz’altro consegnare alla storia del XX secolo, ma anche per aver instaurato una immobile tirannia.
Quando alla metà degli anni ‘90 venne a Roma per una conferenza della Fao, Fidel ancora strinse mani e firmò autografi per quasi tutta la mattina. Ma il comunismo era ormai poco meno che un ricordo. L’anno seguente, a Cuba, al termine della messa, il “Líder Máximo” lievemente s’inchinò dinanzi alla benedizione di Giovanni Paolo II.
La lunga malattia, il plausibile rimbambimento, la soluzione dinastica non hanno cancellato, ma certo un po’ ridimensionato il mito. La pace con Obama assomigliava addirittura a un lieto fine. Però la storia è più complicata, e ancora una volta per cercare di capire non basta che muoia qualcuno, ma avanza sempre qualcosa da rivedere con occhi nuovi.
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PIÙ CHE la casa di un rivoluzionario, sembra l’interno progettato da un designer, con la poltrona di pelle délabré, il parquet a listoni robusti, e quegli stivali tirati a lucido che non sfigurerebbero in una pubblicità del lusso. Siamo all’Avana, nel febbraio del 1964, nell’appartamento di “Barba Massima”, come lo chiama nel suo diario Giangiacomo Feltrinelli. L’editore è venuto a Cuba per realizzare un nuovo successo internazionale: le memorie di Fidel Castro. Con lui è la moglie Inge, brillante fotoreporter che velocissima con la sua Rolleiflex cattura scatti ovunque. «Non credo esistano altre fotografie del leader in pigiama», racconta Inge nella sua casa milanese. «Andavamo da lui la mattina molto presto e lo trovavamo ancora con la giacca da camera».
«Sì, ci aveva scelto tra tanti editori internazionali. Ma all’inizio non fu facile avvicinarlo. Eravamo ospiti del governo in una fantastica villa d’un barone dello zucchero, la Casa di Protocollo numero uno, la stessa che aveva ospitato il potente ministro sovietico Mikojan. E per una settimana aspettammo invano un suo cenno. Tanto che una mattina convinsi Giangiacomo ad andare al mare con la jeep. E proprio quel giorno si presentò il líder máximo nella sua divisa mimetica. Ci avrebbe scherzato sopra al telefono: ma come, io vengo a trovarvi e voi sparite?».
«Voleva quasi ammazzarmi. Per fortuna Fidel tornò da noi una seconda volta. Al principio rimase deluso da Giangiacomo che non aveva l’allure da borghese riccone. “Ma è proprio lui il miliardario?” continuava a chiedere ai suoi che riuscirono a rassicurarlo. Parlarono di tutto, della produzione agricola e della crisi dell’Ottobre rosso, di America Latina e dei contrasti con gli Stati Uniti. E poi ci diede appuntamento a casa sua, la mattina molto presto».
Per questo lo trovaste in pigiama.
«Sì, un pigiama borghese, molto curato nelle cuciture sul polsino e sul colletto della camicia. Era un uomo elegante, con le lunghe mani affilate da aristocratico spagnolo. Anche di primo mattino fumava dei sigari Cohiba molto sottili che ne accentuavano il fascino. La sua voce era invece deludente: una tonalità molto alta, quasi effeminata, che contraddiceva le pose da macho».
«Il dialogo era esclusivamente con Giangiacomo. Io non ero considerata, se non come appendice. Avevo l’impressione che fosse anche impaurito dalle donne».
«Ricordo che Giangiacomo lo criticò per la politica ostile ai gay: volete creare il mondo nuovo e vi comportate da persecutori? E lui fece un discorso sulla gioventù cubana rovinata da un mammismo impregnato di cattolicesimo. Accusava le madri di un eccesso di invadenza nella vita dei figli. E le donne risaltavano nel suo racconto come figure forti e castratrici».
che tipo di donne gli piacesse.
«Sì, vero. Rispose con una faccia marpionesca che gli piacevano “fini, spirituali, dolci”. In realtà il suo genere era la Lollobrigida ».
«No, tutt’altro. La sua vita era solo la revolución. Parlava di economia e di marxismo ma non era un comunista teorico: al contrario appariva superficiale e velleitario ».
Impietoso appare il giudizio annotato da Feltrinelli sul suo diario: “impulsivo”, “retorico”, “ideologicamente confuso”, “incapace di un pensiero forte e organizzato”.
«Sì, così. E non sapeva nulla neppure di letteratura. Un ruolo istruttivo importante l’avrebbe svolto García Márquez, che gli fece conoscere la narrativa sudamericana. Il loro rapporto era stravagante, complice ma anche competitivo. Una volta ho scritto che insieme mi ricordavano Federico il Grande e Voltaire. In realtà Gabo non era Voltaire. E Fidel non era Federico il Grande».
«Sì, erano entrambi Re. E quando la fama ne accentuò smisuratamente l’ego, Gabo non reggeva la presenza di Fidel, che anche fisicamente lo sovrastava».
Hobsbawm ha scritto che «nessun capo nel secolo breve ebbe ascoltatori più entusiasti di questo uomo barbuto con la mimetica sgualcita che parlava in modo assolutamente confuso». Al di là delle riserve, anche voi ne subiste il fascino.
«Io ero stata a Cuba la prima volta nel 1953. Uno spettacolo deprimente: alberghi di lusso, bordelli e bambini in stracci, quasi morenti. Una povertà estrema, come quella di Calcutta. In pochi anni Castro era riuscito a trasformarla, puntando sull’educazione e sulla salute della popolazione. Nel 1964 trovai Cuba completamente cambiata».
Però poi prevalsero gli aspetti illiberali.
«A Castro non perdonerò mai l’assassinio di Orlando Ochoa, l’eroe dell’Angola. Ma non concordo con la definizione di regime».
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