“Per descrivere la realtà non bastano le emozioni” Busiarda 2 12 2016
Hemingway era un gran ballista, raccontò dello sbarco in Normandia primo tra i primi mentre lui, in realtà, stava in retrovia. Eppure, quel suo drammatico reportage per Collier’s gli valse ogni premio giornalistico. E il direttore del Corriere della Sera si diceva stufo di Malaparte, «che rompe le scatole con quei suoi pezzi sulle battaglie nel gelo della Russia mentre lui se li scrive comodo in villa a Capri». Eppure, i reportage di Malaparte sono uno straordinario racconto giornalistico.
La realtà vive giorni grami, presa dentro le mani crudeli dei media; e la guerra, nella sua natura di sangue, di odi, di miserie senza misericordia, è uno scenario distruttivo d’ogni autenticità. Nel racconto, la semplificazione scarnifica lo spessore della tragedia, la dimensione della realtà stenta a farsi spazio nella pagina o nel video, lo stereotipo domina, e domina la rigidità convenzionale dei ruoli e delle figure.
E’ stato così anche ben oltre Hemingway e Malaparte, e però lo è ancor più oggi quando la velocizzazione della comunicazione mostra totale disinteresse per la veridicità della informazione. La cultura ormai dominante dell’immagine privilegia l’estetica dell’apparenza, esalta la retorica della superficie emozionale, impone alla scrittura obblighi che ne snaturano l’identità di strumento espressivo d’una realtà testimoniale.
La spettacolarizzazione ingloba fatti e interpreti, sembra quasi che il reporter debba essere eroe o, altrimenti, non «è» più. (Ma non solo in guerra: la politica, la cronaca, la vita stessa, o si consumano in una dimensione enfatizzata oppure perdono valorizzazione semantica, sono travolti nella marginalità)
È difficile sottrarsi a quest’obbligo di fronte all’aggressività comunicativa di YouTube, di Facebook, di Twitter, i social network che travolgono ogni mediazione giornalistica, ogni progetto di «capire» oltre che «credere di sapere».
Matt Drudge si esalta identificandosi con la Rete: «Oggi l’informazione è finalmente democratica»; Umberto Eco gli risponde che «oggi la Rete dà voce pubblica a milioni di imbecilli». Preso in mezzo, il povero reporter s’aggiusta per come può, tentando di rispondere con consapevolezza nuova alla sfida delle tecnologie disintermedianti e alla fascinazione dello spettacolo «live».
Ancora non si sa bene quale possa essere questa «nuova consapevolezza»; tuttavia il tentativo di fondarla parte dalla riaffermazione del valore della realtà, dal rispetto della sua complessità, della sua storia, delle sue radici. Mentre scrivevo il mio nuovo libro sulle guerre e sulla crisi del giornalismo, mi sono imbattuto in una intervista di Domenico Quirico - coraggioso reporter di guerra, drammatico protagonista di un sequestro in Siria - che diceva: «Quando vado in un posto, mi informo il meno possibile: non voglio spiegare, ma immergermi nella realtà», dichiarando disinteresse per quei reporter che, «un tempo», prima di partire per una guerra cercavano «ritagli e dossier sugli antecedenti».
Legittima ogni scelta personale, però questo metodo di lavoro orgogliosamente autistico (Io e la guerra) sembra dispiegarsi nelle forme oggi egemoni del racconto d’impatto impressionistico: un racconto che, non soltanto in «un tempo passato», ma sempre, il buon giornalismo ha tentato invece di svolgere facendosi assistere da «ritagli e dossier», cioè dall’accumulo della conoscenza e non solo dalla verginità delle emozioni, in modo da avere in possesso elementi di lettura che gli consentissero la miglior capacità di cogliere e valutare ogni elemento della complessità della realtà. E non soltanto in guerra, naturalmente. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
“Ma le analisi sono inutili Io comunico il dolore delle vittime” Domenico Quirico Busiarda 2 12 2016
Alcuni uomini muoiono, soffrono, gemono di dolore. O uccidono. Accanto a loro, davanti a loro, altri uomini li osservano, prendono appunti, immaginano già febbrilmente come descriverli, li raccontano. Il giornalismo è in questa ineliminabile, mostruosa, soffocante, complice vicinanza. Non c’è altro che non sia chiacchiere, retorica, canagliume vario. Non possiamo sfuggire a una contiguità fisica e morale, alla responsabilità dell’assistere del prendere nota di ciò che sta accadendo. Ma nello stesso tempo non possiamo intervenire, fermare la mano dell’assassino, non ne abbiamo la forza e neppure abbracciare la vittima. Non possiamo perché siamo SOLO testimoni. Qualche volta ci resta come unico compito quello di contare i morti.
La domanda della mia vita è: cosa faccio io qui, perché sono qui, qual è il mio rapporto morale con le vittime? E gli assassini.
Vent’anni fa tutto mi sembrava semplice; uomini attorno a me davanti ai miei occhi nascevano e morivano, speravano o disperavano, invocavano l’amore e l’angoscia come un richiamo o una barriera: capivo certe cose, non tutte, dei grandi movimenti della Storia, mi rassegnavo all’idea che nelle esperienze essenziali del giornalismo, la ricerca e il racconto sono già una vittoria, anche se non arrivano alla spiegazione, rappresentano a loro modo un trionfo. Mi bastava sapere, ma non gli attribuivo molta importanza, che qualcun altro custodiva le risposte, quel che cercavo io era la domanda. Il mio compito si limitava a interpellare ciò che mi circonda e trasformarlo in parole. Ora non so più niente. Come in uno specchio guardo il mio passato e mi chiedo se è il mio.
Non mi riconosco in quel giovane cronista che con fervore prende appunti. Il fatto è che, ORA, nel tempo delle guerre del fanatismo totalitario e delle migrazioni, sono circondato da altri uomini, cammino con loro le labbra serrate, la fronte bassa avanzo nella notte attratto dalle tenebre, li contemplo mentre entriamo insieme in un abisso di fuoco e di distruzione. Li vedo trasformarsi in cenere, sento le loro grida divenute silenzio e non so più niente, non capisco più niente. Loro hanno portato via le mie certezze e nessuno me le renderà.
Posso, devo raccontare in prima persona perché questa ormai è l’unica lealtà possibile. Lealtà. Non ossessione. O narcisismo. Lealtà verso di me, verso il lettore e soprattutto verso coloro che diventano il mio racconto. Mi conquisto il diritto di farli vivere, nelle parole, nel momento in cui mostro loro le prove. Ovvero. Che ho condiviso la loro esperienza, di dolore, di speranza, di morte: da pari a pari. Fino in fondo. Ho avuto freddo, fame, terrore, ho dubitato e sperato, mi sono illuso e ho detto: basta. Sono come voi e vi racconto.
Il mio compito non è vaticinare cosa vi accadrà. Non lo so, non lo sa nessuno. È restituire al lettore, in modo quasi tattile, le vostre grida di aiuto e di agonia, il vostro sudore di fuggiaschi, il vostro odore di prede braccate, il vostro odio di innocenti perseguitati. Quello che vedete attorno a voi. E che io ho visto. Persino il vostro silenzio, i lettori, devono poter sentire. Fino a quando la mia esperienza diventerà la loro coscienza. Altrimenti c’è solo l’onestà di non scrivere nulla, di tacere. La salvezza del giornalismo, forse, è nell’accettare la umile penitenza di una pagina bianca.
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