martedì 22 novembre 2016

Il geniale Piketty dice che Trump è figlio della disuguaglianza. Intanto Angela Merkel dà retta a Bolaffi e si ricandida


LA FORBICE PIÙ LARGA DELLA DISEGUAGLIANZA 
THOMAS PICKETTY Rep 21 11 2016
DICIAMOLO subito: la vittoria di Trump si spiega innanzitutto con l’esplosione delle disuguaglianze economiche e territoriali negli Stati Uniti, in atto da vari decenni, e con l’incapacità dei successivi governi di far fronte a questi problemi.
Per lo più le amministrazioni Clinton e Obama non hanno fatto altro che accompagnare l’avanzata delle liberalizzazioni e la sacralizzazione del mercato portate avanti con Reagan e quindi coi Bush padre e figlio — quando non l’hanno addirittura esacerbata, come nel caso della deregulation finanziaria e commerciale approvata sotto Clinton. L’incapacità delle élite politico — mediatiche dell’area democratica di trarre insegnamento dal voto per Sanders e dai sospetti di contiguità con la finanza hanno fatto il resto.
Hillary Clinton ha prevalso di stretta misura nel voto popolare (60,1 milioni di voti contro 59,8 per Trump, su una popolazione adulta totale di 240 milioni), ma la partecipazione delle fasce più modeste e di quelle giovanili è stata di gran lunga insufficiente per consentirle di vincere negli Stati chiave.
Sfortunatamente il programma del nuovo presidente non farà che aggravare la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. Trump si prepara a sopprimere l’assistenza sanitaria faticosamente concessa sotto Obama ai lavoratori poveri, e a lanciare il suo Paese in una fuga in avanti nel dumping fiscale — mentre finora gli Usa avevano resistito a questa rincorsa senza fine proveniente dall’Europa — con la riduzione dal 35% al 15% del tasso d’imposta federale sui profitti delle società.
Oltre tutto, la connotazione etnica sempre più marcata del conflitto politico americano non promette nulla di buono per il futuro, se non si troveranno nuovi compromessi: in questo Paese il 60% dei voti della maggioranza bianca va strutturalmente a uno dei due grandi partiti, mentre l’altro ottiene più del 70% dei voti delle minoranze; e la maggioranza si avvia a perdere la sua superiorità numerica (il 70% dei suffragi espressi nel 2016 contro l’80% nel 2000 e il 50% da qui al 2040).
La principale lezione per l’Europa e il mondo è chiara: è urgente riorientare la globalizzazione. Le disuguaglianze e il riscaldamento climatico sono le principali sfide del nostro tempo. Da qui la necessità di stipulare trattati internazionali che consentano di rispondere a queste sfide promuovendo un modello di sviluppo equo e sostenibile.
Questi accordi di nuovo tipo potranno anche contenere, ove necessario, alcune misure volte a facilitare gli scambi commerciali; ma non dovranno più essere centrati sulla loro liberalizzazione. Il commercio deve ridiventare ciò che non avrebbe mai dovuto cessare di essere: un mezzo al servizio di obiettivi più elevati.
Concretamente, bisogna smettere di firmare trattati internazionali di abbattimento dei diritti doganali e di altre barriere commerciali che non includano, fin dai loro primi capitoli, una serie di regole quantificate e vincolanti, per contrastare il dumping fiscale e climatico, ad esempio sotto forma di tassi minimi comuni d’imposizione sui profitti delle società e di obiettivi verificabili per le emissioni di carbonio, con le relative sanzioni. Non è più possibile negoziare trattati di libero scambio in cambio di nulla.
Da questo punto di vista, l’accordo economico e commerciale globale (CETA) tra l’Unione Europea e il Canada è un trattato d’altri tempi, e va quindi respinto. È di natura strettamente commerciale, e non contempla nessuna misura vincolante sul piano fiscale o climatico, mentre dedica alla «tutela degli investitori» un’intera sezione che consente alle multinazionali di citare gli Stati davanti a corti arbitrali private, aggirando così i tribunali pubblici chiamati a giudicare la generalità dei cittadini.
L’inquadramento proposto è palesemente insufficiente, soprattutto riguardo alla questione cruciale della remunerazione dei giudici-arbitri, e condurrà a ogni genere di derive. Nel momento stesso in cui l’imperialismo giuridico americano raddoppia il proprio peso, imponendo alle nostre imprese le sue regole e i suoi tributi, quest’indebolimento della giustizia è più che mai aberrante.
La priorità dovrebbe andare invece alla costituzione di un potere pubblico forte, con un procuratore e un’istanza europea capaci di far rispettare le proprie decisioni.
Che senso aveva firmare gli accordi di Parigi, con l’obiettivo puramente teorico di limitare il riscaldamento a 1,5° — il che richiederebbe la rinuncia all’estrazione di idrocarburi come quelli ricavati dai sali bituminosi dell’Alberta, dei quali il Canada ha rilanciato di recente lo sfruttamento — per stipulare poi, a pochi mesi di distanza, un trattato commerciale realmente vincolante, in cui non si fa il minimo cenno a questo problema?
Un trattato equilibrato tra il Canada e l’Europa, volto a promuovere un partenariato di sviluppo equo e sostenibile, dovrebbe precisare innanzitutto gli obiettivi di emissione per ciascuna delle parti, e gli impegni concreti per raggiungerli.
Sulla questione del dumping fiscale e dei tassi minimi d’imposizione sui profitti delle società, si tratterebbe evidentemente di un cambiamento totale di paradigma per l’Europa, costruita fin qui come zona di libero scambio senza regole fiscali comuni.
Ma questo cambiamento è indispensabile. Che senso ha accordarsi su una base impositiva comune — il solo cantiere in cui l’Ue abbia fatto finora qualche piccolo passo in avanti — se poi ciascun Paese può fissare un tasso vicino allo zero per attirarsi le sedi delle imprese?
È tempo di cambiare il discorso politico sulla globalizzazione: il commercio è un’ottima cosa, ma per uno sviluppo sostenibile ed equo servono anche servizi pubblici, infrastrutture, sistemi di istruzione, formazione e salute, che a loro volta esigono tassi impositivi equi. Altrimenti sarà il trumpismo a prendersi tutto.
Traduzione di Elisabetta Horvat ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Una candidatura alla prova dell’Europa
Marco Bascetta Manifesto 22.11.2016, 23:59
Se vi è una costante, saldamente radicata nella mentalità e nell’opinione dei cittadini tedeschi, questa è il timore delle avventure politiche. I lunghi cancellierati di Adenauer e Kohl ne sono stati, al tempo loro, l’espressione.
E i tre mandati di Angela Merkel si innestano su questa tradizione, che la quarta candidatura della Cancelliera, alle elezioni politiche del 2017, non fa che rafforzare ulteriormente. È una decisione che i più considerano inevitabile, logica, priva di alternative. E come tutte le scelte obbligate non suscita particolare euforia. A cominciare dalle file stesse del suo partito, la Cdu, e soprattutto del partito fratello bavarese, la Csu.
Se, dunque, nell’area democratico-cristiana non è cresciuta nessuna figura politica in grado di competere con Angela Merkel, più in generale, sull’intero orizzonte politico della Repubblica federale non si affaccia nessun avversario davvero temibile. La destra sempre più nazionalista e xenofoba di Alternative für Deutschland ( Afd), abbandonata la patina borghese delle origini, si radicalizza sia ai vertici sia nella sua base elettorale rendendosi così un interlocutore del tutto impraticabile.
A sinistra la Spd si interroga se candidare il suo sbiadito segretario Sigmar Gabriel, mai uscito sul serio dall’ombra della Cancelliera, o il non popolarissimo presidente del Parlamento europeo Martin Schultz. Ma, soprattutto, non vi è nulla nell’esperienza recente della socialdemocrazia che indichi la possibilità di formulare un programma alternativo e più avanzato di quello della Grosse Koalition. Spd, Verdi e Linke avrebbero in realtà i numeri per governare insieme, ma è assai difficile che ne abbiano il coraggio. Non siamo in Portogallo, e i tedeschi, anche quelli che siedono nelle segreterie dei partiti, non amano, come dicevamo, le avventure. Merkel tiene saldamente nelle mani un centro spostato a sinistra quanto basta per togliere aria alla già boccheggiante socialdemocrazia, ma senza spaventare troppo l’elettorato tradizionalmente conservatore. Ha le carte per vincere. E, del resto, in un’Europa orfana della Gran Bretagna, tra i regimi sempre più postdemocratici dell’est, la Francia presumibilmente contesa tra il Front national e un personaggio marcatamente di destra come Fillon, per non parlare di Donald Trump alla Casa bianca, la Cancelliera appare, sia pur in versione rigorista, come la paladina di un liberalismo occidentale che non ha ancora gettato a mare tutti gli strumenti di mediazione e alcuni principi basilari.
Nei grandi paesi dell’Europa occidentale, la destra xenofoba e antieuropeista non ha i numeri per arrivare a governare (con qualche legittimo timore per la Francia), ma ha un formidabile potere di condizionamento, paragonabile a quello che esercitarono le opposizioni di sinistra negli anni Sessanta e Settanta, ottenendo concessioni tali da modificare visibilmente gli assetti sociali in diversi paesi.
Questa pressione della destra è visibile in molti programmi di governo, nelle legislazioni emergenziali, nella chiusura delle frontiere e, soprattutto, nei linguaggi che hanno diffusamente colonizzato il discorso pubblico. Merkel, fino ad oggi, sia pure con qualche retromarcia e qualche cedimento, ha tenuto testa a questa pressione e ci si augura che continui a farlo anche durante la campagna elettorale.
Certo, il quadro che si prospetta è quello di un’Europa sempre più soggetta all’egemonia tedesca e alle sue dottrine economiche. Ma è chiaro che se Berlino continuerà a puntare senza mediazioni su una competizione intraeuropea che alimenta la crescita dell’economia tedesca con il deperimento di altre economie continentali, se il potere dei creditori continuerà a impedire la crescita imponendo politiche di austerità, allora la potenza tedesca non costituirebbe un elemento di equilibrio o di argine di fronte alla disgregazione dell’Unione e all’involuzione dei sistemi politici europei, ma, al contrario, un acceleratore di questi processi.
La Cancelliera sembra esserne del tutto consapevole quando dichiara che questa che si accinge a intraprendere sarà la sfida più difficile della sua carriera politica. Non tanto sul fronte interno, che pur avrà la priorità fino al giorno delle elezioni, quanto su quel ripensamento dell’architettura europea senza il quale l’intero progetto è destinato a franare.


Draghi: “L’Eurozona non si spaventa più per le scosse politiche” 
Marco Bresolin  Busiarda 22 11 2016
«È ancora molto difficile valutare l’impatto delle elezioni Usa» sull’economia. Ma per Mario Draghi l’allarme potrebbe essere mitigato dal fatto che l’Eurozona ha dimostrato una «capacità di reazione agli sviluppi avversi e alle incertezze globali». Da Brexit a Trump, gli choc politici sono ormai così tanti - sembra dire il presidente della Bce al Parlamento di Strasburgo - che l’Eurozona ha sviluppato uno spirito di adattamento. Del resto la ripresa avanza «a ritmo moderato, ma costante» e i dati indicano che va nella giusta direzione: «La disoccupazione sta diminuendo» e «il 2016 è il primo anno in cui il Pil è tornato ai livelli pre-crisi».
Ma guai ad adagiarsi. «Non ci dobbiamo fermare qui, perché i cambiamenti hanno un impatto a lungo termine sulle politiche economiche che è difficile valutare ora» dice Draghi. E poi perché gli ostacoli da superare sono ancora molti, con le insidie di tipo politico che attendono dietro l’angolo. Se «le sfide sono aumentate», per Draghi la ricetta sta nell’unità: «L’Europa - ha ripetuto ieri presentando il rapporto della Bce - deve rispondere in modo coeso e deciso alle sfide che ha davanti». Rivolgendosi direttamente agli eurodeputati, ha quindi citato un discorso fatto dieci anni fa in quella sede da Carlo Azeglio Ciampi: «Se agiamo da soli, saremo alla mercé di eventi più grandi di noi, eventi che minacciano la pace e la sicurezza dell’Europa».
Unità sul fronte «politico», dunque, ma anche passi avanti decisi in campo economico. «Deve essere accelerata in modo sostanziale l’attuazione delle riforme strutturali». E soprattutto i vari governi devono guardare avanti, ma senza tirare troppo la corda. Meno di una settimana fa, la Commissione europea guidata da Jean-Claude Juncker ha diffuso una «comunicazione» per un diverso orientamento nelle politiche di bilancio, che devono essere espansive. Una pietra tombale sull’austerità. L’Ue ha addirittura fissato per la prima volta un’asticella, indicando l’obiettivo di crescita dello 0,5% del Pil dell’Eurozona per il 2017. Draghi ha ricordato che «le politiche fiscali devono sostenere la ripresa economica, pur rispettando le regole Ue».
Se qualche passo avanti è stato fatto, questo è il messaggio di Draghi, è anche grazie alle scelte della Bce, oggetto di molte critiche soprattutto per il «Quantitative Easing»: «Le nostre politiche monetarie sono state un fattore chiave dietro gli sviluppi positivi». L’obiettivo resta quello di riportare l’inflazione a un livello vicino al 2%. Il trend è quello giusto, visto che «siamo passati dal -0,2% di febbraio al +0,5% di ottobre e nei prossimi mesi continuerà a salire». Anche Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione e titolare del portafoglio per l’euro, ha ammesso che le misure adottate dalla Bce hanno avuto «un impatto positivo sulle condizioni finanziarie dell’Eurozona». Replicando a chi contestava questa visione ottimistica, in modo particolare la politica dei bassi tassi di interesse, il numero uno dell’Eurotower ha ricordato che «non sarà così per sempre», visto che a medio termine «possono avere effetti negativi». Però «la redditività delle banche resta un tema da affrontare» e «i tassi bassi oggi sono necessari per un ritorno dei tassi più alti in futuro».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI



Quattro volte Merkel “Mi candido di nuovo perché va fermato il pericolo populista” 

L’annuncio della cancelliera dopo il voto su Trump: saranno le elezioni più difficili dalla caduta del Muro
TONIA MASTROBUONI Rep 21 11 2016
Angela Merkel si ricandida per la quarta volta. Prima “Kanzlerin” donna e la più giovane della storia quando fu eletta nel 2005, si prepara a superare un altro record. Se vincerà l’anno prossimo, eguaglierà il primato di Helmut Kohl, rimasto in carica per sedici anni. L’annuncio ufficiale, dopo giorni di indiscrezioni, è arrivato ieri. «Ci ho pensato molto a lungo; le mie decisioni arrivano tardi», ha ammesso, con riferimento ironico alla sua proverbiale cautela.
In realtà, era previsto che sciogliesse le riserve il 6 dicembre prossimo, al congresso della Cdu di Essen. Dopo altri due appuntamenti cruciali che potrebbero cambiare il volto dell’Europa, quelli con il referendum in Italia e con le elezioni presidenziali in Austria, il 4 dicembre. Troppo tardi. Dunque, dopo una riunione coi vertici della Cdu, la cancelliera ha rivelato indirettamente, senza mai citarlo, un altro motivo centrale della sua accelerazione: Donald Trump. Una delle frasi principali ricalca alla lettera la sua prima reazione alla vittoria del repubblicano populista. Mi impegnerò, ha detto, per difendere «i valori della democrazia e il rispetto per le opinioni altrui, a prescindere dalla razza, dalle religione, dal sesso, dall’orientamento sessuale, dall’opinione politica ».
Tuttavia la cancelliera ha tentato di frenare le aspettative di chi, come il
New York Times
o l’Economist, la considera l’ultimo baluardo dell’Occidente liberale, assediato dai populismi crescenti. Anche Barack Obama è sembrato nei giorni scorsi volerle trasmettere il testimone da «leader del mondo libero», per citare Timothy Garton Ash. Ma Merkel, fa capire lei, si sente issata su un piedistallo troppo alto per il suo caratteristico, asciutto pragmatismo. «Tutto ciò mi onora, ma lo ritengo grottesco e totalmente assurdo », ha precisato. La cancelliera ha scandito davanti ai cronisti che «nessun singolo individuo, anche con la più grande esperienza, può fare in modo che le cose in Germania, in Europa e nel mondo vadano di nuovo bene, tanto meno la cancelliera della Germania».
Non è falsa modestia: è anche un messaggio interno. Uno dei motivi per cui la cancelliera stava prendendo tempo era il contenzioso con una fetta del suo partito e con l’alleato storico, i bavaresi della Csu, scoppiato l’anno scorso sulla crisi dei profughi. A loro Merkel ha voluto dire che non ci saranno assoli e fughe in avanti come sulle «porte aperte» ai rifugiati. Si decide insieme. Quella di ieri, non a caso, «è stata una decisione non semplice, né per il Paese, né per il partito, né per me». In una situazione «difficile », ha detto, «voglio mettere a disposizione tutta la mia esperienza, salute permettendo», per correre una quarta volta.
Sarà una campagna elettorale «difficile» e «il mio compito sarà ascoltare». La cancelliera ha anche detto che «il mio obiettivo sarà tenere insieme la società, scongiurare l’odio». Merkel vuole anche rimanere a capo del partito. Una decisione sensata: in questi ultimi undici anni ha lentamente occupato il centro della scena politica mangiandosi tutti. Spazzando via i liberali della Fdp e assorbendo ampie fette di elettorato Spd con politiche attente al sociale. Sempre attentissima agli umori dell’elettorato, per anni la cancelliera ha preso decisioni anche contro le sue convinzioni, pur di non perdere consensi.
Dopo la tragedia di Fukushima, da convinta nuclearista, ha deciso l’uscita dall’atomo. E ha sempre fatto sue, con grande disinvoltura, riforme di sinistra come le unioni civili o il salario minimo. Fino alla crisi dei profughi, gestita in solitario, ignorando umori dei sondaggi, e dei suoi. Una fetta della Cdu l’ha accusata di aver snaturato il partito. Scoprendo il fianco a destra, favorendo la nascita del primo partito populista in grado di insidiare i conservatori, l’Afd. Sarà infatti contro un’altra donna, la capa dei populisti tedeschi, Frauke Petry, la sua battaglia più difficile, l’anno prossimo.
©RIPRODUZIONE RISERVATA


COSÌ SI ASSUME LA LEADERSHIP DELLA UE
L’azzardo di Angela per evitare la resa ma il suo carisma rischia il tramonto 

ANGELO BOLAFFI Rep 21 11 2016
LE GRANDI crisi storiche impongono al vero capo politico di prendere su di sé delle responsabilità che prescindono dal proprio destino personale.
SEGUE A PAGINA 4
LA SOFFERTA decisione di Angela Merkel di candidarsi per la quarta volta alla guida della Germania va letta per questo come testimonianza della coscienza dei pericoli che minacciano l’ordine mondiale. E della necessità di fare delle Germania e attorno ad essa dell’Europa una sorta di antemurale capace di respingere la minaccia della demagogia populista che mira a sovvertire i valori politici e spirituali dell’Occidente liberale. Ed è fin troppo facile immaginare che l’inattesa vittoria di Donald Trump e il commosso commiato dalla politica mondiale preso proprio a Berlino da Barack Obama (ma anche le pericolose incertezze che si proiettano sul futuro di Paesi chiave del progetto europeista, come Italia, Austria, Francia e Olanda) abbiano contribuito a far superare alla cancelliera tedesca le ultime esitazioni. Cresciuta in un ambiente profondamente influenzato dalla religiosità luterana Angela Merkel, pur consapevole dei rischi di cui è carica questa sua scelta, ha ritenuto che qualunque altra decisione sarebbe stata interpretata come un segnale di resa dalle conseguenze imprevedibili. E, dunque, che fosse suo dovere agire coniugando etica della responsabilità ed etica della convinzione ripetendo a se stessa e al mondo: «Qui sto io e non posso fare altrimenti ».
Qualunque sarà l’esito della vicenda politica tedesca e delle elezioni politiche che si terranno in Germania nel settembre del prossimo anno che si preannunzia davvero “fatale” per il futuro destino europeo — nel 2017 ricorre anche il 60esimo anniversario della firma dei Trattati di Roma — con questa sua quarta candidatura alla Cancelleria in ogni caso Angela Merkel si è assicurata un posto nella galleria dei grandi statisti del secondo dopoguerra tedesco: accanto ad Adenauer che riportò la Germania dell’”anno zero” in Occidente, a Willy Brandt che fece fare pace alla Germania col mondo, a Helmut Schmidt che aiutò l’Europa a resistere alla minaccia sovietica e, infine, a Helmut Kohl il cancelliere della riunificazione del Paese dopo la caduta del Muro di Berlino.
Ma, come si diceva, quello che dovrà affrontare sarà per la Merkel un percorso pieno di insidie ad iniziare da quella più subdola ma anche in qualche modo ineluttabile: il rischio del progressivo appannamento del suo carisma personale prodotto dal tempo. Anche in considerazione del logoramento psico-fisico che provoca l’impegno del politico di professione quando, come nel suo caso, è inteso come vera e propria vocazione e non come mero esercizio di potere. E questo in un mondo totalmente interconnesso in cui ogni crisi locale può trasformarsi in minaccia globale. Inoltre dopo la grande popolarità conosciuta lo scorso anno per aver deciso di dare accoglienza a quasi un milione di profughi nel segno dell’ottimistico «noi ce la facciamo», gli ultimi mesi sono stati molto difficili per Angela Merkel. Una serie di sconfitte nelle elezioni regionali, l’emergere e poi il rafforzarsi nella destra dello schieramento politico del movimento-partito della Alternative für Deutschland sempre più orientato verso posizioni neonazionaliste e in qualche caso persino razziste ha provocato malumori profondi nel suo elettorato e aperte contestazioni nel suo stesso partito, e perfino a una sorta di guerra intestina con il partito “fratello” della Csu bavarese. Il futuro ci dirà se la generosa decisione annunciata ieri da Angela Merkel si rivelerà un azzardo o, invece, una scelta conseguente nel segno della razionalità politica capace di dare risposta alla sfide che porteranno la politica tedesca ad affrontare questioni del tutto inedite come l’inevitabile trasformazione della Germania in Paese di immigrazione. O la determinazione di assumere su di sé la leadership dell’intera Europa nel momento in cui questo compito appare improcrastinabile, basta pensare al minaccioso attivismo ad Oriente della Russia di Putin o al probabile allontanamento ad Occidente dell’America di Trump, se non al prezzo di un fallimento di cui proprio la Germania per ragioni storiche e geopolitiche sarebbe la prima a sopportare le dolorose conseguenze.
©RIPRODUZIONE RISERVATA



Germania  La sinistra nel caos cerca l’anti-Merkel

Contro la Cancelliera, che si ricandida, la Spd non sembra avere una strategia Schulz e Gabriel le prime ipotesi. Lo storico Stürmer: “Ma la Cdu è distrutta”
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE Rep TONIA MASTROBUONI BERLINO.


Scene da un partito in stato di confusione. Passando in rapida rassegna le indiscrezioni delle ultime settimane, dalla Spd tedesca sono trapelate le seguenti ipotesi. Il vicecancelliere Sigmar Gabriel potrebbe prendere il posto di Frank-Walter Steinmeier a febbraio, quando il ministro degli Esteri diventerà presidente della Repubblica. Martin Schulz, rinunciando a un altro mandato da presidente del Parlamento europeo, potrebbe dunque prendere il posto di Gabriel. Oppure. Gabriel potrebbe dare le dimissioni e candidarsi contro Angela Merkel, se il partito lo appoggerà e Schulz tentare un altro mandato. Oppure. Schulz potrebbe candidarsi contro la cancelliera, Manfred Weber (Csu) prendere il suo posto al Parlamento europeo e Gabriel potrebbe rimanere vicecancelliere. Nessuno conferma, nessuno smentisce.
L’unica certezza, dopo la candidatura di Merkel ufficializzata domenica, è che la Spd non sente il bisogno di fare chiarezza. Il presidio, l’organismo più importante dei socialdemocratici, ha deciso ieri che non c’è fretta, che si può aspettare fine gennaio, prima di sapere chi sarà il principale candidato contro la cancelliera. Quando Trump avrà assunto la presidenza e l’Europa potrebbe già essere con un piede nel baratro dopo il referendum italiano e le presidenziali austriache.
Intanto, dal lato opposto dello spettro politico, sono cominciati i festeggiamenti per l’annuncio di Merkel. La numero uno dei populisti dell’Afd, Frauke Petry, ha fatto sapere che il partito approfitterà di una sua corsa al Cancellariato visto che «ha provocato il pericoloso caos dei profughi e ha fallito nella svolta energetica». E se la Spd candiderà Schulz, «che come nessun altro tedesco rappresenta il fallimento dell’Europa », i populisti sentiranno di aver vinto alla lotteria. Secondo Petry, l’ipotesi di un match tra Merkel e Gabriel sarebbe «il dream team del tramonto della Germania».
In realtà, anche in casa dei conservatori non c’è un clima di festa all’idea che Merkel corra di nuovo. Il capo della Csu, Horst Seehofer, ne ha preso atto o poco più. E ieri i vertici della Cdu hanno approvato la mozione che sarà presentata al congresso di Essen di inizio dicembre in vista della lunga campagna elettorale del 2017. Promette un’altra era di “zero deficit”, sgravi fiscali, aiuti per le famiglie e risorse per la digitalizzazione del Paese. Si galleggia.
Interpellato al telefono da
Repubblica, il brillante storico ed ex consigliere di Helmut Kohl, Michael Stürmer, spiega che quella della cancelliera «è una soluzione di emergenza: nella Cdu e nella Csu restano moltissimi dubbi su di lei». E l’argomentazione che gli piace di meno è quella addotta più o meno da chiunque: la mancanza di alternative. «Mi ricorda quella storiella che mi raccontarono in Israele su un uomo che uccide i suoi genitori e poi si presenta in tribunale chiedendo le attenuanti perché è rimasto orfano». Stürmer sostiene che Merkel «ha peggiorato in questi anni i nostri rapporti con la Russia e ha varato la catastrofica politica sui profughi che tanti danni ci sta procurando. Oltretutto, ha deciso le “porte aperte” dopo aver deciso tagli al Programma Alimentare Mondiale che hanno contribuito a mettere in moto milioni di disperati… ». Per lo storico, il risultato di undici anni di Merkel «è che la Cdu è distrutta e in futuro dovrà fare i conti con uno scenario politico molto più frastagliato ».
Certo, il quadro politico non si sta complicando solo in Germania a causa del lungo tramonto dei partiti di massa e dell’exploit dei populisti. Per Stürmer, infatti, «è l’Europa intera che sta implodendo». E non lo convincono, ovviamente, gli opinionisti anglosassoni che hanno incoronato la cancelliera come ultimo baluardo del mondo libero. «La donna più potente del mondo non può rinunciare al controllo delle frontiere, è la funzione di base di ogni Stato».
©RIPRODUZIONE RISERVATA




EUROPA, IL FUTURO DOPO TRUMP 
FERDINANDO SALLEO Rep 22 11 2016
LE PERSONALITÀ che, appena eletto, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha designato a ricoprire alcuni degli incarichi di maggior rilievo internazionale hanno suscitato non poco disagio in Europa per il profilo dei candidati e le idee che li caratterizzano. Aspettiamo con un certo timore i nomi del nuovo Segretario di Stato e del titolare del Pentagono con i quali l’Europa dovrà collaborare.
Dopo aver seguito preoccupati una campagna elettorale fortemente improntata all’America First!, al protezionismo commerciale e al nazionalismo muscolare, i governi e l’opinione pubblica del mondo aspettano con manifestazioni di voluto ottimismo che Trump presidente si mostri diverso dal candidato tonitruante che prometteva muri, dogane, espulsioni e, pur senza adombrare le sfortunate guerre preventive di un passato non lontano, sottolineava comunque un disegno generale di marcato isolazionismo. L’America, regolatore centrale dell’equilibrio globale dopo la fine della guerra fredda con una combinazione di diplomazia, di forza militare, di potenza economica e tecnologica — di hard e soft power, direbbe da Harvard Joseph Nye —, si preparerebbe dunque ad affrontare un mondo ormai multicentrico mostrando con Trump un approccio che si stenta a comprendere nella sua genericità, salvo per un marcato senso di ritirata strategica dal ruolo che ha caratterizzato Washington nella solidarietà occidentale e nelle alleanze strategiche nel mondo.
A maggior ragione è preoccupata l’Europa, sinora beneficiaria principale per la sua sicurezza della deterrenza contenuta nel ruolo dell’America, maggiore azionista e contribuente della Nato dove esercita una funzione di guida. Gli alleati atlantici, non la Nato, sono chiamati da Trump ad affrontare un maggior contributo alla propria difesa lasciando intendere in chiaro l’affievolimento del ruolo americano.
Un improvviso consistente aumento dei bilanci della difesa potrebbe avere in molti Paesi effetti politici sensibili sul piano interno in un tempo di crisi regionali acute e, insieme, di crescita economica insufficiente che si riverbera nella turbolenza politica e culturale interna. Non è difficile immaginare che il sentimento ostile all’America — alla globalizzazione, alle multinazionali, alla finanza predace, al complesso militare-industriale criticato da Eisenhower —, un sentimento molto diffuso in Europa tra i movimenti nazional- populisti che hanno finora preso anzitutto di mira l’Unione, si alimenti improvvisamente del temuto aumento delle spese militari per ispirarsi al già latente rigetto del modello liberal-democratico parlamentare della società occidentale e all’insistito richiamo al mito dell’“uomo forte” in cui si accomunano i Trump ai Putin ed Erdogan per coagularsi attorno a un messaggio nativista e terzaforzista insensato e irrealistico. La coesione dell’Alleanza occidentale sarebbe messa a rischio dalla combinata influenza degli eccessi che vengono da ambo i lati dell’Atlantico.
Nella rinata epoca post-fattuale dei miti che tengono poco conto dei fatti e li sovrastano, l’Europa è chiamata per la sua stessa sopravvivenza ad affrontare il problema della difesa europea. Complessivamente, il bilancio militare dei suoi membri non è trascurabile: il vero interrogativo è politico negli obiettivi, poi militare nelle esigenze di Stato Maggiore e nell’addestramento, infine tecnico-economico nella standardizzazione degli strumenti e dei mezzi. Comprende la volontà politica di ciascuno di mettere in comune un patrimonio tecnologico e industriale ritenuto in larga misura gelosamente nazionale.
Dibattuta per decenni solo tra specialisti, la vexata quaestio della difesa europea è cosa diversa dalla difesa dell’Europa, il concetto che ha prevalso sinora, perché presuppone in profondità il disegno dell’Unione politica ed ha ormai carattere di centralità e di urgenza comprendendo anzitutto le esigenze di integrazione dei cervelli e delle strutture, degli uomini e dei mezzi, a prevalenza degli aspetti finanziari.
È una premessa necessaria che richiede, tuttavia, una buona dose di realismo. L’eterogeneità politica che constatiamo ogni giorno nell’Unione “a 28” e le differenze di apprezzamento delle stesse finalità dell’Europa, compreso il grande disegno dell’integrazione, suggeriscono un percorso progressivo mediante il ricorso consentito dal Trattato di Lisbona a forme di cooperazione rafforzata strutturate tra i membri che si riconoscono in una concezione condivisa dell’identità e della sicurezza comune, disposti a mettere i propri mezzi al servizio di un disegno politico, non già antitetico a quello atlantico e meno ancora terzaforzista, ma forse attuazione del disegno di John Kennedy, quello dei due pilastri dell’Alleanza Atlantica.
©RIPRODUZIONE RISERVATA



La destra francese si ricompatta la sfida adesso è con Le Pen 

LA LINEA VINCENTE DI FILLON
BERNARDO VALLI Rep 21 11 2016
IL FUTURO presidente dalla Repubblica francese potrebbe essere François Fillon, 62 anni, ex primo ministro ed esponente liberal-conservatore senza tracce populiste.
SE L’ONDA favorevole, di cui ha usufruito negli ultimi giorni, l’accompagnerà al ballottaggio di domenica prossima, e poi fino alle presidenziali di maggio, dovrà affrontare Marine Le Pen, campione dell’estrema destra francese e del populismo europeo. La corsa al Palazzo dell’Eliseo si annuncia tuttavia piena di sorprese. Il successo di Fillon ne è già una. E non sarà la sola. Al primo turno delle primarie di destra lui, che era praticamente fuori gioco fino a una settimana fa, è arrivato in testa con il 44%, superando di parecchie lunghezze il favorito Alain Juppé, rimasto al 28,1 ed eliminando dalla corsa Nicolas Sarkozy, rimasto a un umiliante 21%. L’ex presidente della Repubblica tentava la riconquista del palazzo dell’Eliseo ed è stato sconfitto dal suo ex primo ministro. Subito dopo avere conosciuto il mediocre quoziente ottenuto ha annunciato il ritiro dalla vita politica.
La grande partecipazione alle primarie di destra, aperte a chiunque versasse due euro, ha determinato il risultato. Quasi 4 milioni di francesi sono andati alle urne, superando l’affluenza (2 milioni e mezzo)alle primarie di sinistra del 2011 apparse allora eccezionali. Ed era la prima volta che si organizzavano in Francia voti del genere già in vigore in Italia. Nicolas Sarkozy, rappresentante della corrente populista, contava su un’affluenza moderata, limitata per lo più agli iscritti al partito “I Repubblicani” di cui lui ha il controllo. Una partecipazione più forte avrebbe significato un afflusso di votanti di centro e di sinistra, privi di candidati validi dei loro partiti e decisi a sbarrare la strada al populista Sarkozy, la cui figura si è politicamente appesantita con la vittoria di Donald Trump. La vera versione francese di Trump è senz’altro Marine Le Pen, presidente del Front National. Ma per recuperare i suoi voti Sarkozy ha rincorso il populismo della Le Pen, che ricalcava in verità da tempo. Si capirà più tardi il peso avuto dagli elettori di sinistra rimasti orfani (per la forte impopolarità del presidente socialista François Hollande) e che hanno partecipato, insieme ai centristi alle primarie aperte della destra. Sarkozy e i suoi sostenitori se l’aspettavano e in più occasioni hanno minacciato di considerare illegittime le elezioni se gli avversari avessero favorito con le loro dichiarazioni un’irruzione di elettori estranei alla destra repubblicana. Forse, ha lasciato capire Sarkozy, sarebbe in tal caso venuto meno all’impegno di rispettare il risultato delle primarie restando ugualmente nella gara presidenziale anche se perdente, come libero battitore. Le smentite sono state tante e ferme, e comunque ieri sera Sarkozy si è dichiarato fedele all’impegno, ha detto che sosterrà al secondo turno François Fillon, il suo ex primo ministro, e poi rinuncerà alla politica. Nel quartier generale di Sarkozy si seguiva il numero dei votanti con apprensione e il superamento dei tre milioni c’è stato l’annuncio della sconfitta.
Alle primarie si confrontavano ieri tre correnti della destra repubblicana. Quella populista di Sarkozy è stata sconfitta. Ma è stata ridimensionata anche quella liberale di Alain Juppé. Ha prevalso quella liberista in economia e severa sui problemi come la sicurezza e l’immigrazione. François Fillon è definito un thatcheriano. La correttezza del linguaggio nei lunghi dibattiti durante la campagna elettorale, l’eleganza nei comportamenti, la discrezione, hanno contribuito alla veloce e inattesa ripresa nei sondaggi. E l’hanno favorito rispetto al più anziano Juppé (71 anni), forse troppo liberale, e all’agitato e radicale Sarkozy.
Il 27 novembre, domenica prossima, ci sarà il confronto Fillon-Juppé. Se Sarkozy manterrà la promessa, e cercherà di riportare i suoi voti su Fillon, quest’ultimo non avrà problemi per arrivare al finale di maggio, quando il ballottaggio, stando ai pronostici, dovrebbe essere con Marine Le Pen. Lo scarso quoziente ottenuto da Sarkozy fa tuttavia pensare che egli non abbia un grande ascendente su quelli che considera i suoi elettori. E quindi non è escluso che molti voti attratti dal populismo si riversino sul Front National. La sfida non è conclusa.
©RIPRODUZIONE RISERVATA


Stop alle sanzioni e asse anti jihad Fillon già strizza l’occhio a Putin L’ex premier gollista frequenta da tempo Mosca e promuove una politica filo-russa Il riavvicinamento al Cremlino gli permette di smarcarsi dall’America di Trump Leonardo Martinelli  Busiarda 22 11 2016
Amici per la pelle? Lui, François Fillon, discreto e misterioso, si schermisce sempre sui suoi reali rapporti con Vladimir Putin: «Non ho nessuna relazione personale con lui», ha detto pochi giorni fa l’uomo, che potrebbe imporsi al ballottaggio delle primarie francesi del centro-destra. E forse diventare tra cinque mesi il nuovo presidente della République. Sta di fatto che i due hanno simpatizzato fin dal 2008, quando erano primi ministri dei rispettivi Paesi, a botte di incontri ufficiali e non, ore e ore di conversazioni più o meno riservate. François è stato visto più volte giocare a biliardo con Vladimir nel palazzotto di Sochi. E, quando, nell’agosto 2012, Fillon perse l’amata madre, presentandosi per l’ennesima volta al cospetto dello «zar», lo trovò con una bottiglia di Mouton Rothschild fra le mani: «Guarda, François - gli disse Vladimir -, è del 1931, l’anno della nascita di tua mamma. Un regalo per te».
Che sia amicizia o meno, Fillon non perde occasione per difendere Putin e un ritorno della Francia a una politica filo-russa. Ha criticato a più riprese François Hollande per il suo insistere con le sanzioni europee imposte alla Russia e per aver annullato la vendita a Mosca delle navi da guerra Mistral, nel pieno della crisi ucraina. Ha lanciato strali contro l’attuale presidente anche quando, nel mese scorso, si è rifiutato di partecipare con Putin all’inaugurazione della nuova cattedrale ortodossa a Parigi. «De Gaulle - fu allora il commento di Fillon - discuteva e si alleava con Stalin per abbattere il nazismo». A questa parola, prego, sostituire «jihadismo». Sì, perché per l’astro nascente della destra francese la Russia serve a contrastare l’avanzata dell’integralismo islamico. Non solo: un asse Parigi-Mosca (meglio se passa da Berlino) servirebbe alla Francia per sdoganarsi una volta per tutte dagli Stati Uniti. Anche in questo Fillon è un vecchio gollista: bisogna parlare ai russi (erano i sovietici per il generale) per manifestare la propria indipendenza nei confronti degli americani. E oggi, con Donald Trump ai comandi, il messaggio forse passerebbe senza problemi pure a Washington.
Le sue considerazioni non hanno impedito a Fillon di dire, a fine ottobre, alla tv francese: «Si sa che la Russia non è una democrazia. Ma cosa dobbiamo fare: continuare a provocarli, a rifiutare ogni dialogo con loro, spingendoli a essere più violenti e aggressivi e sempre meno europei?». Lo stesso pragmatismo si estende alla Siria di Assad, ancora sulle orme del caro Putin. «Non ho alcuna simpatia per il suo regime e so che commette dei crimini - ha detto di recente Fillon -, ma Assad è sostenuto da una parte della popolazione e, finché non si capirà questo, non si troverà una soluzione al problema siriano». L’alleanza dei russi con il dittatore di Damasco serve a un buon fine, la sconfitta dell’Isis. E poi il cattolicissimo Fillon non si dimentica dei cristiani d’Oriente: «Questi sanno che se Assad cade, i sunniti prenderanno il potere: per loro resterebbe l’alternativa tra la valigia per l’esilio e la bara».
A Parigi immaginano già Fillon al ballottaggio delle presidenziali contro Marine Le Pen. Che è un’altra «amica» di Putin, con il Front National, che dalle banche russe riceve preziosi finanziamenti. Ebbene, in un caso o nell’altro allo «zar» andrà sempre bene. 
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Merkel sposa la linea dura per restare Cancelliera Nel documento che la Cdu approverà al congresso di Essen il no al multiculturalismo ed espulsioni per chi non si integra Alessandro Alviani  Busiarda 22 11 2016
Riportare in Nordafrica i profughi salvati nel Mediterraneo piuttosto che condurli in Italia, vietare il velo integrale e difendere la «Leitkultur» (la cultura guida tedesca) come elemento «unificante» della società. Sono alcune delle richieste contenute in una mozione approvata ieri dai vertici della Cdu che racchiude i principi cardine su cui i cristiano-democratici costruiranno la campagna elettorale per assicurare un quarto mandato ad Angela Merkel nel 2017. Il documento di 21 pagine, visionato da «La Stampa», sarà discusso al congresso del 6 e 7 dicembre a Essen.
La Cdu annuncia di volersi opporre alle tendenze populiste: «Il populismo, l’isolamento dall’esterno, il protezionismo e la spaccatura della società non rappresentano una risposta ai problemi impellenti del presente e del futuro, finora non hanno funzionato mai e da nessuna parte». Emblematico il fatto che dal testo finale sia scomparso il riferimento all’obiettivo di riconquistare i voti dei «perdenti della modernizzazione», una formula che bollava in modo troppo negativo gli elettori passati alla AfD. Ora si parla solo di «riconquistare la fiducia perduta».
Dal documento emerge però in modo evidente anche il tentativo del partito di Merkel di ricucire lo strappo coi cugini bavaresi della Csu, rafforzando il proprio profilo conservatore. «Vogliamo impedire l’immigrazione per vie traverse che passa per l’abuso del diritto d’asilo», i richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta «devono essere riportati nei loro Paesi di origine o transito», si legge. «Il nostro obiettivo è combattere con successo l’immigrazione illegale dai Paesi africani, che spesso non è dovuta a persecuzioni o guerre civili, ma a necessità economiche e sociali, e impedire dunque che decine di migliaia di persone continuino a mettere a rischio la loro vita. A tal scopo vogliamo stringere con gli Stati africani accordi sul modello di quello Ue-Turchia» e creare «possibilità di raccolta» dei profughi «sul posto». Ciò «può significare anche riportare indietro sulle coste africane le persone che vengono salvate dalle imbarcazioni dei trafficanti» e occuparsi di loro lì.
I cristiano-democratici vorrebbero realizzare anche «zone di transito» alle frontiere nelle quali esaminare le richieste d’asilo ed elencano la chiusura della rotta balcanica – criticata a lungo da Merkel – tra le iniziative che hanno avuto «successo» per ridurre l’immigrazione illegale. Gli eventi del 2015, quando quasi un milione di rifugiati entrarono in Germania, «non dovranno ripetersi» - una concessione alla Csu.
Chi si rifiuta di integrarsi «deve fare i conti con sanzioni che vanno fino a tagli alle prestazioni sociali e all’espulsione». La Cdu si oppone poi al velo integrale e vuole sfruttare tutte le possibilità legali per vietarlo. Il partito si schiera contro «l’abuso dell’Islam per l’odio, la violenza, il terrorismo e l’oppressione», vorrebbe arrivare a chiudere le moschee in cui si predica la violenza ed espellere i «predicatori d’odio». Gli imam, che oggi arrivano spesso dalla Turchia, «dovrebbero essere formati in Germania».
Chiesti anche più poteri per la polizia, più videosorveglianza e pene più alte per i furti negli appartamenti. Nella prossima legislatura la Cdu non intende contrarre nuovi debiti, né aumentare la pressione fiscale e vorrebbe sfruttare i margini disponibili per un terzo per investimenti infrastrutturali, per un terzo per sgravi fiscali (specie a favore delle famiglie e delle persone con redditi medio-bassi) e per un terzo per aumentare le spese di Esteri e Difesa e ridurre il debito.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

“Angela vera garante della stabilità sui profughi non cederà al populismo” Il sottosegretario Jens Spahn: sgravi fiscali e investimenti in Germania nessun altro partito fa proposte così concrete Busiarda
Jens Spahn è stato uno dei primi a sapere della ricandidatura di Angela Merkel. Domenica, prima di incontrare la stampa, la cancelliera ha informato i membri dell’ufficio di presidenza della Cdu, tra cui Spahn, 36 anni, deputato dal 2002 e sottosegretario alle Finanze.
C’è stato un momento in cui ha avuto dubbi sul fatto che si sarebbe ricandidata?
«No, per me non c’è mai stato motivo di dubitarne. La Germania va bene come non mai e, viste le crisi intorno a noi, abbiamo bisogno soprattutto di stabilità, anche in Europa. Merkel rappresenta proprio questo. Ecco perché sono contento che si ricandiderà».
Su di lei pesano aspettative enormi, che non potranno che andare deluse. L’elezione di Trump l’ha costretta a ricandidarsi?
«Non dovremmo sovraccaricare di significati la vittoria di Trump. È qualcosa che spetta anzitutto alla società statunitense chiarire, noi dovremmo osservare con calma che politica farà da presidente. Quanto a Merkel, ha già spiegato di non essere interessata a descrizioni come quella di leader del mondo libero: mi sembra una posizione corretta. Nessuno da solo può salvare il mondo. E nessuno dovrebbe avere la presunzione di farlo».
“La democrazia vive del cambiamento”, ha detto Merkel dopo aver incontrato Obama. Così non ha fornito un nuovo slogan a quanti già urlano “Merkel deve andarsene”?
«È chiaro che la campagna elettorale sarà molto diversa da quella del 2013. I tempi sono diventati più turbolenti. Ma state sicuri che avanzeremo le proposte giuste».
Cosa dovrà rivedere la Cdu per riconquistare i voti di chi si sente lasciato indietro e vorrebbe votare AfD?
«Dovremo soprattutto riuscire a parlare di nuovo l’uno con l’altro e ascoltarci. Su alcuni punti l’atmosfera in Germania è surriscaldata. Nell’ultimo anno la Cdu/Csu è stata molto chiara: semplificazione delle espulsioni, più personale di polizia, una legge sull’integrazione con chiare condizioni, maggiori capacità per Frontex. Nei prossimi anni vogliamo usare le maggiori entrate fiscali per sgravi, investimenti e riduzione del debito. Non conosco nessun altro partito che faccia proposte così concrete».
La Csu non ha reagito con entusiasmo all’annuncio di Merkel. Dovrete osare più populismo in campagna elettorale per andarle incontro?
«Non si tratta di populismo, se ne parliamo in continuazione aiutiamo quelli che semplificano le cose. Dobbiamo discutere insieme dei problemi e soprattutto risolverli. Così si genera credibilità».
Cosa rivela sulla situazione della Cdu il fatto che non ci siano candidati alternativi a Merkel per la cancelleria?
«Non è così, ci sono sempre alternative, la questione è solo se siano migliori. Abbiamo una buona squadra di governo e alla fine ci presentiamo come una squadra».
La misericordia di papa Francesco: ogni prete può assolvere l’aborto Appello ai confessori: generosi con donne e medici. E annuncia la Giornata dei poveri Andrea Tornielli  Buysiarda 22 11 2016
Non finisce il tempo della Misericordia. Francesco pubblica la lettera apostolica «Misericordia et misera» e annuncia di voler mantenere anche dopo la chiusura del Giubileo la facoltà per tutti i sacerdoti del mondo di assolvere l’aborto, rendendola così definitiva. Il Papa ha poi annunciato una Giornata mondiale dei poveri. La lettera inizia con le parole di sant’Agostino dedicate alla donna adultera che Gesù salva dalla lapidazione. Al centro di quell’episodio evangelico, ricorda Francesco, «non c’è la legge e la giustizia legale, ma l’amore di Dio, che sa leggere nel cuore di ogni persona».
Il «procurato aborto» è tra quei peccati che prevedono la scomunica automatica sia per chi decide di attuarlo, sia per chi vi coopera, come medici e infermieri. Il codice di diritto canonico riserva al vescovo e ad alcuni penitenzieri la possibilità di assolverlo. A volte, in particolari periodi dell’anno o in occasione di eventi, come è accaduto a Torino durante l’ostensione della Sindone, i vescovi hanno esteso a tutti i loro preti, per un tempo limitato, questa facoltà. Durante la presentazione della lettera, l’arcivescovo Rino Fisichella ieri ha confermato che sarà modificato il testo del codice di diritto canonico per rendere definitiva la nuova norma. 
«Niente di quanto un peccatore pentito pone dinanzi alla misericordia di Dio - afferma il Papa nel documento - può rimanere senza l’abbraccio del suo perdono. È per questo motivo che nessuno di noi può porre condizioni alla misericordia». 
In un altro paragrafo Bergoglio scrive: «Perché nessun ostacolo si interponga tra la richiesta di riconciliazione e il perdono di Dio, concedo d’ora innanzi a tutti i sacerdoti, in forza del loro ministero, la facoltà di assolvere quanti hanno procurato peccato di aborto». E aggiunge: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente». Tuttavia «devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre». Ogni prete è invitato dunque a farsi «guida, sostegno e conforto nell’accompagnare i penitenti in questo cammino di speciale riconciliazione». 
Fisichella ha anche confermato che la scomunica per l’aborto non verrà tolta dal codice. La volontà del Papa non è di «declassare» il peccato. Desidera invece rendere più accessibile a chi si pente la possibilità di ricevere il perdono. Più volte, da quando è stato eletto, Francesco ha parlato della gravità dell’aborto. «Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana» ha scritto nell’Evangelii gaudium. «Non è compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto», ha dichiarato nell’enciclica Laudato si’. «L’aborto non è un “male minore”... È un male assoluto», ha risposto ai giornalisti di ritorno dal viaggio in Messico. E ancora, appena due giorni fa, intervistato da Tv2000, lo ha definito un «crimine orrendo».
Nella lettera Francesco rilancia il sacramento della confessione e ai preti chiede di «essere accoglienti con tutti; testimoni della tenerezza paterna nonostante la gravità del peccato». Annuncia poi la decisione di «estendere» anche dopo la fine del Giubileo la possibilità per i fedeli di confessarsi «validamente e lecitamente» dai sacerdoti della Fraternità San Pio X, il gruppo fondato da monsignor Lefebvre, «confidando nella buona volontà» dei loro preti perché si possa recuperare «la piena comunione nella Chiesa cattolica». Vengono mantenuti in servizio anche i «missionari della misericordia», che quest’anno sono stati inviati nel mondo con la facoltà di perdonare quei peccati gravissimi per i quali la scomunica può essere tolta solo dalla Santa Sede. 
Infine, Bergoglio ha annunciato di voler istituire per tutta la Chiesa, la Giornata mondiale dei poveri, da celebrare nella 23° domenica del tempo liturgico ordinario, in novembre. Proprio a chi soffre e a chi è in carcere sono dedicati alcuni paragrafi della lettera, nei quali si invitano i cristiani a «rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Nessun commento: