venerdì 11 novembre 2016

La bancarotta filosofica della sinistra italiana: reagire alla crisi amplificando la strategia che l'ha prodotta




Do not agonize: Organize!
Elezioni Usa. Un commento inedito della filosofa e femminista Rosi Braidotti. «Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi - superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica»
 Manifesto  
Bisogna sempre pensare contro il proprio tempo, soprattutto ora che ci troviamo a raccogliere i pezzi di un sogno infranto: la prima donna eletta alla presidenza degli Stati Uniti. Come ha scritto Donna Haraway su Facebook: «Sì ho pensato che avremmo lottato insieme nel contesto dell’amministrazione neoliberale e parzialmente progressista di Clinton. Ho pensato che il cambiamento climatico e l’estinzione e tante altre cose sarebbero rimasti temi centrali. Devono esserlo ancora. Ma ora dovremmo unirci per combattere fascismo, razzismo scatenato, misoginia, antisemitismo, islamofobia, anti-immigrazione, e molto altro. Sento il cuore spezzarsi e ri-radicalizzarsi».
Sì, la parola chiave è ri-radicalizzarsi – superare questa sconfitta traumatica, imparare dai nostri errori e dagli errori altrui per sviluppare una nuova prassi politica.
Derrida, d’altro canto, ricorda il carattere suicida della democrazia. Partirei dalla consapevolezza che la democrazia in sé non ci salverà, non in una fase storica di ascesa di nuovi populismi. Negli anni Trenta del XX secolo, l’epoca di Virginia Woolf, si è votato «democraticamente» per i partiti nazional-socialisti, che hanno poi affossato le libertà più basilari e commesso immani atrocità. La ripetizione di questi fenomeni induce a chiedersi perché la democrazia rappresentativa non sia capace di sviluppare anticorpi verso gli elementi reazionari. Penso ovviamente all’uso strumentale che del referendum è stato fatto in Gran Bretagna, Olanda e Italia.
La vittoria di un misogino, incapace, maschilista e pericoloso razzista quale è Trump rende più che mai evidente la vulnerabilità e i limiti della democrazia rappresentativa. Assistiamo a un re-imporsi delle retoriche razziste della politica dell’emergenza e della crisi, Trump ha marciato proprio sul senso di insicurezza diffuso tra le classi meno abbienti americane. All’alba del Terzo millennio Bush aveva una strategia simile. Certo il ritorno in auge del populismo presenta importanti elementi di novità, da indagare con urgenza.
Tutti i populismi – che siano di destra o di sinistra – si equivalgono. A destra, gli appelli astratti alla nozione sacralizzata di autenticità culturale hanno sostituito le retoriche del sangue e del suolo. A sinistra, le classi devastate da declino economico e austerità hanno autorizzato l’espressione pubblica della rabbia dei bianchi – per lo più uomini: whitelash, colpo di ritorno dei bianchi.
Comportandosi come un’etnia urbana in pericolo di estinzione, producono forme virulente di populismo ultra-nazionalista. Fanno del loro senso di vulnerabilità un vero cavallo di battaglia – come se le sole ferite che contano fossero le loro. Queste ferite inflitte alle classi più vulnerabili sono state interpretate come disincanto politico post-ideologico, ma non si può dire che il populismo di sinistra non sia altrettanto misogino e xenofobo. Io mi oppongo fermamente ad entrambe le versioni: tutti i populismi ruotano attorno al perno della supremazia maschile e della bianchezza. Basti considerare il sostegno entusiasta che un intellettuale come Žižek ha prestato a Trump nei giorni cruciali prima delle elezioni americane. La misoginia di Žižek è nota, tuttavia stavolta si è svenduto alle destre e dovrebbe essere ritenuto responsabile per una tale deriva.
Certo, la sinistra ha enormi responsabilità: è anche grazie agli errori dei precedenti leader e delle vecchie coalizioni «democratiche» che i repubblicani hanno vinto. D’altra parte, il populismo di destra di personaggi quali Trump e Johnson è una forma così palese di manipolazione da risultare nauseante, si esercita sulle persone più colpite da ristrettezze economiche.
Questi manipolatori usano i/le migranti e tutte le soggettività «altre» come capri espiatori. Appellarsi a tali leader nazionalisti significa riprodurre quello che Deleuze e Guattari chiamavano micro-fascismo. E i micro-fascisti sono a destra tanto quanto a sinistra.
Sul piano filosofico, non posso fare a meno di interpretare queste elezioni attraverso il Nietzsche di Deleuze: siamo nel regime politico della «post-verità», alimentato da passioni negative quali risentimento, odio e cinismo. In quanto docente ritengo che il mio compito risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell’insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica.
In quanto filosofa ritengo necessario portare avanti una critica dei limiti della democrazia rappresentativa, a partire dallo spinozismo critico e dall’esperienza storica dei femminismi. Non possiamo fermarci all’antagonismo, non è sufficiente la fede nella dialettica della storia, dobbiamo elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i. Abbiamo bisogno di ri-radicalizzare in primis noi stesse/i.
Nel mio lavoro ho sempre sostenuto che l’afflizione e la violenza conducono all’immobilismo, non sono foriere di cambiamento. All’indomani della vittoria di Trump ne sono ancora più convinta: occorre mettersi alla ricerca di forme di opposizione costituenti, capaci di dar vita a politiche concrete. Non nego che il processo in corso sia doloroso e difficile. Tuttavia, come ha sostenuto Hillary Clinton, la rabbia non è un progetto, va trasformata in potenza di agire, organizzata, indirizzata non solo «contro», ma anche «per».
Risulta chiaro a tutte/i che Trump è il baratro di negatività della nostra epoca, che avevamo bisogno di tutto meno che della sua vittoria. Mi permetto però di chiedere: e poi? Siamo contro l’alleanza tra neolibersimo e neofondamentalismo che Trump oggi, come Bush ieri, incarna a pieno. Dobbiamo però accordarci su cosa vogliamo, cosa desideriamo costruire insieme come alternativa. Dobbiamo capire chi e quante/i siamo «noi».
La risposta, e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate. Quello delle passioni negative non è il linguaggio che propongo come antidoto all’avvelenamento dei nostri legami sociali. Pertanto mi chiedo: siamo capaci di immaginare pratiche e teorie politiche affermative, di creare orizzonti sociali di resistenza? Di che strumenti ci dotiamo per non arrenderci al nichilismo e all’individualismo?
Abbiamo dalla nostra parte parte potenti etiche politiche: da Spinoza a Haraway, da Foucault a Deleuze. Abbiamo pratiche all’altezza della sfida: dalle Riot Grrrl alle Pussy Riot, passando per le cyborg-eco-femministe e le attiviste antirazziste e antispeciste, innumerevoli irriverenti e cattive ragazze rivendicano autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività. Muse ispiratrici per modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull’isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di trasformazione.
Forse in Italia vedremo questa potenza politica nelle piazze il 26 novembre. Ed è forse giunto il momento che la sinistra impari dal pensiero e dalle pratiche femministe, dai movimenti antirazzisti e ambientalisti. È inaccettabile che nel 2016 come nel 1966 i sedicenti intellettuali di sinistra sminuiscano il portato delle nostre lotte riducendole a politiche identitarie. È tempo di ri-radicalizzare la sinistra mostrandole gli effetti del suo stesso sessismo e della sua negazione della politica affermativa femminista.
(traduzione di Angela Balzano)

Nella Vienna operaia affascinata dalla destra 
Sulla scia del voto statunitense che ha premiato il nazionalismo alle presidenziali di dicembre molti socialdemocratici tentati da Hofer 

Busiarda

Non è tanto il poliziotto di 29 anni arrestato alla frontiera di Nickelsdorf perché salutava gli automobilisti ungheresi al grido di «Heil Hitler!». Non è neppure il centro d’accoglienza di Rohrbach, completamente dato alle fiamme prima dell’arrivo dei profughi. Nemmeno sarebbe giusto fermarsi alla soddisfazione per la vittoria di Donald Trump espressa dal giovane leader del «Movimento identitario» Martin Sellner, uno che non ha problemi a pubblicare in rete simboli nazisti: «Grazie America per avermi regalato la notte più bella della mia vita. Per costruire muri intorno alle nostre frontiere, prima dobbiamo abbattere la fortezza del politicamente corretto». 
No, per capire quello che succederà alle presidenziali austriache del 4 dicembre, dopo annullamenti, ricorsi e rinvii, bisogna venire al mercato Viktor Adler nel quartiere Favoriten, distretto numero 10. È una periferia operaia e impiegatizia, tradizionalmente socialdemocratica. Di sinistra. Un quartiere che sta cambiando pelle giorno dopo giorno. Sarà Vienna la prossima Brexit? 
Tilman Fromelt della Caritas, allo stand 129 del mercato più multietnico della città, responsabile dello sportello che si occupa di sanare i conflitti sociali, ne è sicuro: «Il 4 dicembre vincerà il populista Hofer. Purtroppo vedo in Austria gli stessi terribili semi che c’erano prima della Seconda Guerra Mondiale. I migranti sono gli ebrei di allora. Da almeno un anno non c’è nessuna emergenza. Questo è ancora un Paese ricco. Ma i profughi vengono usati continuamente per fare leva sull’insicurezza delle persone. In questi piccoli bar del mercato, i pensionati iniziano a bere alle dieci del mattino, ed è di questo che parlano: di come la loro vita stia peggiorando. Non per quello che è successo, ma per quello che potrebbe succedere».
Il Viktor Adler Markt è il posto dove tutto si incrocia. Puoi trovare cucina bulgara e cinese, cavoli bianchi, noci sgusciate, peperoncini dal Marocco e mirtilli dagli incantati boschi austriaci. Puoi verificare che i dati reali contano, ma le paure di più. Ad agosto del 2016 i disoccupati in Austria erano 388.624, cioè l’8,3% della popolazione. Ad aprile del 2015 erano il 5,7%. C’è stato un lieve impoverimento del Paese, quindi. Lieve. Ma alla signora Helga Pruller, 72 anni, al bancone del «Lilly’s cafè», dove tutti ancora fumano accanitamente, interessa davvero poco. «Italiano? Ah, l’Italia!», dice appoggiando il bicchiere di vino bianco sul bancone. «Ero stata in vacanza a Lampedusa quasi dieci anni fa. C’erano poliziotti dappertutto. E poi, di giorno, i migranti erano seduti per strada». Ce l’ha con i migranti? «Non possiamo sistemare tutti. Prendo 600 euro di pensione minima perché ho lavorato solo 26 anni come segretaria in uno studio legale. Mio marito faceva il ferroviere e mi ha obbligata a stare casa con i nostri due figli. Così ho perso anni di lavoro, che adesso mi sarebbero serviti». Dopo una vita con il partito socialdemocratico, adesso voterà la destra populista del Fpö: «Hofer non è Haider. Sono persone diverse pur militando nello stesso partito. Hofer non è nazista, neanche io lo sono. Ma serve una scossa, una rivoluzione. Questo sistema deve cambiare. Il problema non è l’Austria, ma la dittatura dell’Unione Europa. Non possiamo decidere nulla. Nemmeno il numero di migranti. Io ne conosco che lavorano ed hanno una famiglia. Ma adesso basta». La cosa magnifica è che per spiegarsi la signora Pruller si avvale della traduzione del barista curdo Ere Öz, nato nel 1989 in Turchia e residente a Vienna dal 1991. Ogni giorno serve litri di vino e birra ai pensionati, al punto da conoscere le loro storie a memoria: «Dovevate esserci durante il comizio del Fpö al mercato. Erano tutti lì ad applaudire». Nel decimo distretto, al primo turno, la destra populista aveva preso il 36,9%. Al ballottaggio era arrivata al 45,6. Quello che succederà intorno a questo mercato forse cambierà l’Europa. 
Il 4 dicembre tornano a sfidarsi il populista con la pistola Norbert Hofer («Che dio mi aiuti», il suo slogan sui manifesti) e il professore universitario sostenuto dai Verdi Alexander Van Der Bellen. Li separano pochissimi voti. «Rispetto ad Hillary Clinton, Van Der Bellen ha il vantaggio di non essere un’espressione dell’establishment. È visto come il nonno di tutti» dice Oliver Pink, responsabile degli Interni del quotidiano conservatore Die Presse. Basterà? «Io credo che possa vincere. Ma sarà una sfida estremamente equilibrata». 
Il 2 settembre del 2015 tutte le stazione di Vienna, Vienna la rossa, Vienna socialdemocratica, erano piene di ragazzi e ragazze che accoglievano i profughi in fuga dall’Ungheria. Quei giorni sono durati pochissimo. Raccontano che il clima sia iniziato a cambiare il 2 dicembre dello stesso anno. Quando un profugo iracheno è stato arrestato per violenza sessuale nei confronti di un bambino, nella piscina pubblica di Theresienbad. «Ho commesso un errore enorme, ma ero in emergenza, non facevo sesso da quattro mesi» ha dichiarato durante il processo. La condanna è stata annullata la scorsa settimana per vizi procedurali. Ed è qualcosa che ha rimesso in circolo la rabbia. A nulla sono servite le statistiche fornite dalla polizia federale: «Nel 2014 ci sono state 126 condanne per stupro, il 58,7% riguardano cittadini austriaci». Così come poco interessa la salute psichica dell’arrestato. «Questa Paese si sentiva forte, ricco, sicuro e in pace» dice la signora Pruller prima di ordinare un altro bicchiere di bianco. Forse nel suo rimpianto c’è la chiave per capire il futuro dell’Austria.
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“Siamo noi europei i cattivi maestri del populismo” 
«L’Ue deve fare di più per la difesa comune» Prodi: protezionismo e muri non vengono dagli Stati Uniti Il referendum in Italia e le elezioni in Austria sono piccole cose 
Fabio Martini Busiarda
Romano Prodi ride di gusto: «L’altra sera mentre ascoltavo il primo discorso di Donald Trump sembrava di ascoltare un’altra persona. Ha avuto accenti keynesiani, accennando ad investimenti in infrastrutture ed evitando qualsiasi riferimento alla riduzione del Welfare State...».
Sempre opportuno attendere la prova dei fatti, ma pare difficile che Trump non dia soddisfazione - tanto o almeno un po’ - a chi lo ha eletto, la “tribù dei bianchi” impauriti...
«Io dico: prima vediamo quali saranno le sue prime mosse concrete. Trump si è molto esposto in campagna elettorale, ma appare difficile possa realizzare in toto le promesse più dure e più assurde, come quella di far pagare ai messicani un eventuale muro al confine con gli Stati Uniti. Ma al tempo stesso Trump non potrà che essere “prigioniero” almeno in parte delle sue promesse: sul ripensamento del Welfare, sul commercio internazionale, sulla Corte Suprema...».
Quali sono le ricette che potrebbero propalarsi in Europa, in una sorta di “contagio populista”?
«Be’, tanto per cominciare diciamo che in fatto di populismo, i cattivi maestri siamo stati noi europei...».
In che senso?
«Nel senso che diversi mesi fa, quando ho letto per la prima volta il programma di Trump, ho pensato che l’avesse copiato dai populisti nostrani. Nazionalismo, muri, anti-globalizzazione: al netto delle americanate e di una ovvia contestualizzazione, il programma di Trump era stato già scritto nel vecchio continente».
Il 4 dicembre si vota per le presidenziali in Austria e per il referendum in Italia: sarà un test per capire se il populismo tracima tra Alpi e Mediterraneo?
«Ma che vuole, il grande evento oramai si è consumato. Le altre sono realtà più piccole. Poi arriverà il 2017: Olanda, Francia, Germania...».
In Italia il populismo è arrivato prima: se ne andrà anche prima?
«Non è affatto detto. Anche in passato il populismo è arrivato prima in Italia che altrove, ma non ne è uscito prima...».
Il populismo si tampona, lottando contro le diseguaglianze: l’Europa sarà capace di cambiare “dottrina” prima delle elezioni tedesche del settembre 2017?
«No. Io me lo auguro ma oramai i tedeschi hanno una leadership assoluta in Europa, comandano su tutto e hanno congelato tutto per i prossimi dieci mesi».
Trump interferirà sulle elezioni francesi?
«No. Esiste un fair play che non sarà violato. Ma se a Parigi non si troverà un accordo su Juppé, è possibile che il prossimo presidente francese si chiami Le Pen».
Ma ora la nuova ondata di populismo all’ americana quali modelli potrebbe portare in Europa?
«In linea teorica qualche riflesso potrebbe non essere negativo. Quando Trump dice che gli europei dovranno contribuire più di prima a pagarsi le spese militari della Nato, questa potrebbe essere l’occasione per accelerare finalmente il progetto di un esercito europeo».
Ce la farà l’Europa?
«Purtroppo ne dubito molto».
Ci sono ricette che potrebbero trovare epigoni in Europa, come il taglio delle tasse ai più abbienti?
«Attenzione, perché se realizza una promessa come questa, rischia di perdere il sostegno di chi lo ha portato alla Casa Bianca: quel ceto medio ed operaio impaurito dalla perdita del potere di acquisto e del lavoro. Se taglia le tasse ai ricchi, dovrà pagare qualcun altro, a meno che Trump non punti sull’aumento del debito pubblico, ma anche lungo questa strada ci sono dei limiti».
L’abolizione della riforma sanitaria può trovare imitatori nelle nostre latitudini?
«Bisogna essere sinceri: purtroppo un arretramento del Welfare è già in atto in Europa e proprio per questo motivo non credo che Trump possa far scuola sulla sanità pubblica, che oramai è entrata nella mentalità europea. I tagli già fatti fanno paura e altri avrebbero l’effetto di angosciare la popolazione. No, su questo non credo Trump non sarà un esempio».
Trump ha vinto perché più convincente, ma anche a dispetto di tante comprovate bugie: oramai la verità fattuale è meno importante di quella emotiva?
«Il populismo è anche questo. Paradossalmente in società più informate di un tempo, l’emotività e la personalizzazione vincono sulla razionalità. Oramai si ragiona soltanto sulla fiducia o sfiducia sulle persone. E d’altra parte se c’è un persona eccessivamente razionale fino ad essere fredda, questa è la signora Clinton».
Dalla Russia alla Cina, alla Germania alla Francia, lei conosce personalmente quasi tutti i leader del mondo e per questo...
«...sì, ma non conosco Trump!».
La domanda è: cambierà qualcosa di strategico nei rapporti internazionali? Tramonterà l’era della globalizzazione?
«Sì, Trump contribuirà ad accentuare il tramonto, che però è già in atto della globalizzazione: l’epoca dei grandi accordi commerciali era già finita e andiamo incontro ad accordi particolari, settoriali. Quanto ai rapporti strategici, ci sarà un iniziale dialogo con la Russia, sul quale Trump ha troppo insistito per smentirsi,ma bisognerà vedere se si comporranno interessi contrastanti. Una cosa è certa: Ucraina e Siria vivono e vivranno soltanto se c’è un accordo tra Russia e Stati Uniti».
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“È il grido di disperazione del maschio bianco Ma il futuro è segnato” Il politologo David B. Cohen analizza le ragioni della sconfitta di HillaryFRANCESCA DE BENEDETTI Rep
«UN grido disperato, un misto di rabbia e di rimpianto, l’ultimo rantolo dell’uomo bianco». Ecco il fattore X che ha consegnato nelle mani di Donald Trump le chiavi della Casa Bianca. Almeno così crede David B. Cohen, politologo dell’università di Akron, nell’Ohio dei lavori perduti finito anch’esso in mano repubblicana. Chi crede che la nostalgia sia una categoria dell’anima si ricreda, dice lui: questa è la politica oggi, in Usa come in Europa. Il futuro, però, ci riserva tutt’altro.
Perché la vittoria di Trump è figlia di rancore e rimpianti?
«The Donald ha conquistato una chiara maggioranza fra i maschi bianchi non laureati. In questo gruppo prevalgono gli arrabbiati e i preoccupati».
Preoccupati per cosa?
«La nostra società è sempre più multiculturale, le minoranze etniche - afroamericani, latinos crescono con molta più rapidità dei bianchi. Questa diversità li spaventa. Poi c’è la globalizzazione, che ha stremato la classe media e ha reso disoccupati molti operai. Le due cose si intrecciano: il bianco si convince che siano neri o latinos a portargli via il lavoro. Vuol tornare a un’“America grande” che non tornerà più».
Anche con Romney candidato, il “maschio bianco” votò repubblicano. Ma vinse Obama.
«Stavolta non solo Trump ha tenuto in pugno i bianchi arrabbiati, ma Clinton ha avuto risultati sotto le aspettative tra le minoranze. Le dirò di più: il fatto che gli americani abbiano convissuto con un presidente afroamericano, cioè Obama, ha alimentato l’astio di una fetta di società».
Dai Tea Party alle milizie, fino a Trump presidente: questo “grido dell’uomo bianco” è di una violenza inedita?
«Sì, la rabbia è montata, la political correctness è stata calpestata, Trump ha cavalcato queste tendenze usando un linguaggio violento e riportando alla ribalta gruppi come il Ku Klux Klan. Risultato? Abbiamo eletto il primo presidente nella storia statunitense moderna ad aver attaccato così apertamente le minoranze. Ora si rischiano spaccature e conflitti gravi».
Brexit e l’ascesa dei partiti xenofobi suggeriscono che l’eco di quell’ultimo grido sia arrivata anche in Europa. È così?
«Sì, chiaro. Le tendenze di voto sono molto simili: basti vedere chi ha votato per Leave, e chi per Trump. Il maschio bianco, perlopiù anziano, che ha paura di globalizzazione e migrazioni, sceglie Exit e The Donald».
Lei parla del rimpianto del maschio bianco, ma dice anche che questo suo grido è l’ultimo. Perché quel mondo non tornerà più?
«La compresenza di etnie e culture, così come la globalizzazione economica, sono strade senza ritorno. Anzi, si affermeranno sempre più. Ma i più giovani sono avvezzi a tutto questo, e non rimpiangeranno le fabbriche perché immagineranno lavori diversi. Basta con il rancore: arriverà un altro futuro, e sarà giovane». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

DEMOLIREMO LE BARRIERE TIMOTHY GARTON ASH Rep 11 11 2016
ORMAI la sfida è aperta: siamo di fronte alla globalizzazione dell’antiglobalizzazione, a un fronte popolare di populisti, a un’Internazionale di nazionalisti. “Oggi gli Stati Uniti, domani la Francia”, twitta Jean-Marie Le Pen. Sarà dura sconfiggerli in patria e all’estero, e forse ormai dobbiamo guardare alla Germania invece che all’America come al “leader del mondo libero”. Ma li sconfiggeremo.
Nella Russia di Vladimir Putin vige un regime molto simile al fascismo.
LA TURCHIA di Recep Tayyip Erdogan sta rapidamente superando il confine tra democrazia illiberale e fascismo, mentre l’Ungheria di Viktor Orbán è già una democrazia illiberale. In Polonia, Francia, Olanda, Gran Bretagna e ora negli Stati Uniti, dobbiamo difendere il confine tra democrazia liberale e illiberale. In Gran Bretagna significa difendere l’indipendenza della magistratura, la sovranità del Parlamento e l’imparzialità della Bbc. Negli Usa vedremo al banco di prova uno dei sistemi liberali e democratici di divisione dei poteri più forti e antichi. Anche se i repubblicani hanno la maggioranza al Congresso e il presidente Donald Trump procederà a nomine politiche di fondamentale importanza alla Corte Suprema, non per questo potrà fare tutto ciò che vuole.
In tutti questi populismi nazionalisti si individua chiaramente l’ideologia secondo la quale la volontà espressa direttamente dalla “gente” trionfa su ogni altra fonte di autorità. E il leader populista — o la leader, nel caso di Marine Le Pen — si presenta come unica voce della gente. Lo slogan di Trump “Io sono la vostra voce” è un classico esempio di populismo, come del resto la prima pagina del
Daily Mail, che bolla come “nemici del popolo” i tre giudici britannici che hanno sentenziato che il Parlamento deve esprimersi sulla Brexit. E lo è la frase del primo ministro turco che in risposta all’accusa mossa dall’Ue alla Turchia di aver superato i limiti con la brutale repressione della libertà dei media ha detto: «I limiti li decide la gente».
Ma attenzione, “la gente” —
Volk sarebbe forse il termine più adatto — è in realtà solo una parte della popolazione. Il giochetto lo ha svelato Trump con una battuta in un comizio: «Quello che conta è unire la gente, perché gli altri non contano ». E per altri non intendeva i curdi, i musulmani, gli ebrei, i profughi, gli immigrati, i neri, le élite, gli esperti, gli omosessuali, i Sinti e i Rom, i cosmopoliti, i metropolitani i giudici gay eurofili. Per Nigel Farage dell’Ukip la Brexit è la vittoria della gente comune, per bene, della gente vera — quindi il 48% degli elettori che ha votato al referendum non è gente comune, né per bene, né vera.
Cosa ci insegna la storia a proposito di questi fenomeni che si verificano a ondate più o meno in contemporanea in molti luoghi diversi, in varie forme nazionali e regionali, ma ciò nonostante presentano caratteri comuni? Il populismo nazionalista oggi, il liberismo globalizzato (o neoliberismo) negli anni Novanta, il fascismo e il comunismo negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, l’imperialismo nell’Ottocento. Forse possiamo trarne due lezioni: che in genere ci vuol tempo perché questi fenomeni si creino e tornare indietro (se c’è la volontà di annullarli) richiede coraggio, determinazione, coerenza, bisogna creare un nuovo linguaggio politico e dare nuove risposte politiche a problemi reali.
Ne è un ottimo esempio l’evoluzione del connubio tra economia di mercato e stato sociale caratteristico dell’Europa occidentale dopo il 1945. Questo modello, che infine vinse le ondate del comunismo e del fascismo, ebbe bisogno del genio intellettuale di John Maynard Keynes, della competenza politica di un William Beveridge e dell’abilità di un Clement Attlee. Nelle versioni adottate altrove il ruolo è attribuibile ad altri personaggi. Ma per dar vita a un nuovo modello ci vuole tempo.
Dobbiamo quindi prepararci a una lunga battaglia, che avrà forse addirittura carattere generazionale. Non siamo ancora in un “mondo post-liberale”, ma potremmo arrivarci. Le forze alla base del fronte popolare del populismo sono potenti, i partiti tradizionali spesso deboli, e questi fenomeni non si annullano da un giorno all’altro. Tanto per cominciare dobbiamo difendere il pluralismo in patria. Bisogna poi comprendere le cause economiche, sociali e culturali del voto populista. Non solo la sinistra, ma i progressisti, i conservatori moderati e i vari opinion leader devono trovare un nuovo linguaggio per arrivare sia a livello emotivo che concreto a quella ampia fetta di elettorato populista non irrimediabilmente xenofoba, razzista e misogina. (Evitare di definirli un «cesto di miserabili » è già un buon punto di partenza). Ovviamente le parole non basteranno da sole. Quali sono le politiche giuste? Davvero sono gli accordi commerciali e l’immigrazione a far calare l’occupazione o è colpa soprattutto della tecnologia? In quest’ultimo caso cosa si può fare?
All’estero la sfida principale sta nell’impedire che vengano erosi gli elementi esistenti dell’ordine liberale internazionale — i sudati accordi sul cambiamento climatico, ad esempio, e gli attuali accordi di libero scambio. A livello teorico il presidente cinese Xi Jinping potrebbe vedere di buon occhio il mondo di Trump, fatto di Stati sovrani, forti, aggressivi, nazionalisti, ma in pratica entrambi i leader devono ammettere che il ritorno al nazionalismo economico degli anni Trenta (Trump in campagna elettorale ha promesso dazi del 45% sulle importazioni cinesi) avrebbe conseguenze disastrose per tutti. L’unico pregio dell’Internazionale di nazionalisti è di essere in fondo una contraddizione in termini.
Dobbiamo anche sperare che a improntare la politica estera ed economica della nuova amministrazione siano americani seri e preparati, per quanto Trump sia disgustoso sotto il profilo morale. È ora di tapparsi il naso e mettere in pratica “l’etica di responsabilità” teorizzata da Max Weber. In ogni caso sarà una presidenza smargiassa, inaffidabile e imprevedibile.
Sulle altre grandi democrazie del mondo graverà quindi una responsabilità maggiore: mi riferisco alle molteplici democrazie nazionali in Europa, ma anche a Canada, Australia, Giappone e India. Se in Europa consideriamo vitale che gli Stati baltici siano protetti da ogni possibile aggressione da parte della Russia di Putin, dobbiamo adoperarci a questo fine attraverso la Nato e l’Ue. Non possiamo contare su Trump, che elogia Putin. Se noi europei reputiamo importante mantener viva e indipendente la democrazia ucraina dobbiamo fare da soli. Visto che la Gran Bretagna si è autoesclusa, in conseguenza della sua versione di populismo nazionalista, una responsabilità particolare grava sugli elettori francesi e tedeschi. Se alla fine del prossimo anno avremo Alain Juppé come presidente francese e Angela Merkel rieletta cancelliera, l’Europa riuscirà ancora a fare la sua parte.
La reazione di Merkel all’elezione di Trump è stata finora di gran lunga la più degna. «La Germania e l’America», ha dichiarato, «sono unite da valori di democrazia, libertà e rispetto della legge e della dignità umana, indipendentemente dalle origini, dal colore della pelle, dalla religione, dal genere, dall’orientamento sessuale o dalle opinioni politiche. Offro al prossimo presidente degli Stati Uniti Donald Trump stretta collaborazione sulla base di questi valori». Magnifico, e tra l’altro è un risultato a lungo termine del 9 novembre 1989. In genere al presidente degli Stati Uniti ci si riferisce come al “leader del mondo libero” e di rado senza ironia. Sono tentato di dire che questo appellativo oggi lo merita Angela Merkel.
Traduzione di Emilia Benghi
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