martedì 1 novembre 2016
L'Italian Theory "capisce cos'è il potere" ma si vergogna di dire che vota Sì
Nella foto, l'ex comunista Italian Theory con lo stalker seriale di Angela Merkel, il teutomane ex comunista Ordoliberismo.
Gli allievi di Machiavelli che capirono che cos’è il potere
La riscoperta di Guglielmo Ferrero e degli altri filosofi italiani realisti: luci e ombre di un pensiero forte
ROBERTO ESPOSITO Rep 1 11 2016
Circa un secolo fa, il 29 agosto del 1914, nella classifica tra i dodici libri più diffusi negli Stati Uniti, pubblicata dalla rivista “The Bookman”, spiccava “Ancient Rome and Modern America” del filosofo politico italiano Guglielmo Ferrero. In una fase in cui il pensiero italiano raccoglie un interesse crescente, colpisce il successo precoce di un autore oggi poco noto anche in Italia. Come ricorda Laura Ciglioni in un saggio sulla fortuna americana di Ferrero (compreso in “Aspetti del realismo politico italiano”, a cura di Lorella Cedroni, edito da Aracne), non si trattò di un evento isolato. Pochi anni prima Ferrero era stato invitato dal Presidente Theodore Roosevelt alla Casa Bianca per una serie di
conferenze al Lowell Institute di Boston, alla Columbia e all’Università d Chicago, mentre i suoi scritti erano tradotti e recensiti.
Del resto in un libro con lo stesso titolo ( Ancient Rome and Modern America, Wiley-Blackwell) Margaret Malamud ha raccontato come personaggi, eventi, immagini dell’antica Roma abbiano giocato un ruolo fondamentale nel modo con cui gli americani hanno costruito la propria identità. Si è trattato di qualcosa di più che una semplice moda culturale. Le virtù civiche e i costumi della middle class, come anche i parchi giochi di Coney Island, sono stati spesso modellati sulla falsa riga della Roma repubblicana e imperiale, mentre rappresentazioni come Ben- Hur e Gli ultimi giorni di Pompei lasciavano un segno profondo nella mentalità americana. Ciò vale a spiegare in parte il successo di un’opera di Ferrero, pure poco persuasiva sotto il profilo storico-filologico, apparsa nel 1906 in cinque volumi, come Grandezza e decadenza di Roma e ora finalmente ripubblicata da Castelvecchi. Essa forniva una sorta di grande exemplum epocale di cui il nascente imperialismo americano poteva riprodurre le conquiste. Ma queste circostanze rendono ancora più singolare il cono d’ombra in cui è caduta l’opera di Ferrero, e in generale il filone culturale del realismo politico italiano, prima di questa recentissima riscoperta. Basta prendere tra le mani quello che è forse il suo testo più brillante, pubblicato nel 1942 in America col titolo francese Le pouvoir, edito cinque anni dopo in Italia ( Potere, adesso da SugarCo, a cura di Luciano Pellicani). Al suo centro il rapporto circolare tra paura e potere, legati da un rapporto reciproco di causa ed effetto, espresso dall’autore con parole che parlano all’attualità: «L’uomo vive al centro di un sistema di terrori, in parte naturali, in parte creati da lui stesso, veri e fittizi; questi ultimi più terribili dei veri. Il Potere è la manifestazione suprema della paura che l’uomo fa a se stesso, malgrado gli sforzi per liberarsene. È questo forse il segreto più profondo e oscuro della storia».
Si pensi a quel potere letale costituito dalle armi. Essendo l’unico essere vivente capace di fabbricarle, l’uomo dovrebbe essere sicuro della propria forza, possedendo il più dissuasivo dei mezzi di difesa. Ma l’arma è anche mezzo di offesa. Così, quante più sono le armi in circolazione, tanto più gli uomini hanno paura, cercando di procurarsi altre armi per dominarla. E lo Stato, istituito dagli uomini per difenderli dalla paura della morte violenta, non può perseguire il suo scopo che facendo a sua volta paura — ai suoi cittadini come anche agli altri Stati.
Un circuito infernale — si tenga presente l’anno di pubblicazione di Potere, in piena guerra mondiale — che è difficile spezzare. Difficile, ma non impossibile, se ci si affida ai «geni invisibili della città», come Ferrero definisce i principi di legittimità, sempre diversi, che consentono, volta a volta, di governare la dialettica paura-potere. Creando un ordine destinato, prima o poi, a essere anch’esso rovesciato in un continuo susseguirsi di stabilità e conflitto. È il principio del realismo politico che in Italia si trasmette dal pensiero di Machiavelli a un gruppo di autori che vanno da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, a Giuseppe Rensi. Per tutti, pur con diversa intonazione, la democrazia richiede un tasso non indifferente di autorità. Pur estranei al fascismo o decisamente antifascisti, essi vanno alla ricerca di elementi costanti, di carattere antropologico, nelle dinamiche politiche. Il primo dei quali è appunto la lotta per il potere, che richiede istituzioni capaci di garantirne la distribuzione in maniera equilibrata tra le élite dominanti, destinate per forza di cose a governare la maggioranza dei cittadini. A differenza di Mosca e Rensi — autore di un libro che accentua il ruolo dell’autorità ( Autorità e libertà, del1926, adesso riedito da Bibliopolis) — Ferrero condiziona il potere a un consenso che viene dal basso.
Ma, nel complesso, l’intera scuola del realismo politico italiano resta legata a una prospettiva conservatrice, fortemente ostile a ogni filosofia del progresso. Come spesso capita, tuttavia, proprio questa concezione ferreamente radicata nei fatti, del tutto priva di slanci utopici, coglie elementi di realtà che l’analista politico non può trascurare. A riprova della vitalità di tale linea di pensiero, diversi dei suoi presupposti epistemologici ritornano nella scuola realistica del secondo Novecento. In particolare in due autori cui la Rivista di Politica, diretta da Alessandro Campi, dedica una sezione del fascicolo 1/2015. Si tratta dell’americano, di origini tedesche Reinhold Niebuhr e del tedesco, emigrato in America, Hans J. Morgenthau. Per entrambi la scienza politica accademica, fondata su presupposti scientisti e razionalisti (Ferrero ad esempio fu molto influenzato dal positivismo meccanico di Cesare Lombroso, ci cui sposò la figlia), non è in grado di dar conto della drammaticità della storia e dell’ambiguità della natura umana.
Solamente se la politica si emancipa da tali pretese di scientificità, per accostarsi a ciò che già Machiavelli definiva arte, potrà afferrare qualcosa della contingenza e dell’imprevedibilità dell’azione umana. Ciò non ha nulla a che vedere con un arido cinismo. È anzi la condizione di un agire eticamente orientato all’unico bene possibile in politica — il minor male. Per comprendere come gli organismi politici si comportano nell’arena internazionale, «sotto un cielo vuoto, dal quale anche gli dei sono fuggiti” », come si esprime Morgenthau (in Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, il Mulino), bisogna superare le illusioni, assumendo il lato tragico del Politico. Contro l’idea della perfettibilità del genere umano, si deve riconoscere l’inevitabile realtà degli interessi che dominano la vita politica. Solo conoscendoli per quello che sono, si potrà cercare di orientarli, e talora anche di fronteggiarli, in direzione di un interesse superiore.
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2 commenti:
Perdonate l'ignoranza, ma chi è l'uomo a sinistra dell'italian theorist Roberto Esposito?
E' Angelo Bolaffi, l'amante italiano segreto Angela Merkel, che però non lo sa, lei, che lui la ama.
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