lunedì 14 novembre 2016

Un romanzo sulla guerra del Vietnam

Il simpatizzante
Viet Thanh Nguyen: Il simpatizzante, Neri Pozza, pp. 511, € 18

Risvolto
È il mese di aprile del 1975 a Saigon. Il mese nel quale la guerra che va avanti da tempo immemorabile ha cominciato ormai a perdere i pezzi. In una villa dalle mura ricoperte di cocci di vetro e di filo spinato arrugginito, il generale capo della Polizia Nazionale del Vietnam del Sud, colto da improvvisa insonnia, vaga tra le stanze con la faccia di un pallore verdognolo. Il fronte settentrionale ha ceduto dinanzi all’avanzata dei Vietcong, gli aerei americani decollano giorno e notte con a bordo donne, bambini e orfani, e l’ordine ufficiale di evacuazione tarda a venire soltanto per evitare la rivolta in città.

A bordo di un C-130, con un volo coperto, il Generale si appresta a raggiungere gli Stati Uniti con la famiglia e parte dei suoi uomini. Ufficiale magro dal portamento impeccabile, il Generale crede in Dio, nella moglie, nei figli, nei francesi, negli americani e… nell’assoluta fedeltà del suo uomo di fiducia, il solo tra i suoi sottoposti ad abitare a casa sua: il Capitano. Non sa che il Capitano è, in realtà, una spia, un dormiente, un uomo con due facce che fotografa in gran segreto ogni rapporto e dispaccio e li invia a Man, suo addestratore tra le fila Vietcong.

Figlio illegittimo di una vietnamita e di un prete cattolico francese, il Capitano ha studiato in un piccolo college della California meridionale, spedito da quelle parti da Man con una borsa di studio e il compito di apprendere la «mentalità degli Stati Uniti», un paese che, ai suoi occhi, si rivela subito cosí scioccamente narcisista da definire tutto «super» (i supermercati, le superstrade, Superman, il Super Bowl ecc.). Animato da un’autentica fede nel comunismo, rientrato in patria, ha sostenuto con tale rigore la sua parte di agente doppogiochista da risultare insospettabile agli occhi di tutti, anche a quelli di Bon, l’amico di lunga data che è entrato a far parte del famigerato «Phoenix Program» della CIA.
In una Saigon in preda alla confusione, al caos e al terrore, il Capitano, il Generale e un nutrito gruppo di fuggiaschi scappano sotto la tempesta di fuoco dei Vietcong, tra una pioggia di razzi e granate che lasciano sulla pista dell’aeroporto della città i corpi inerti di moglie e figlio di Bon.
Una volta a Los Angeles, nella città del futile mondo del cinema, gli orrori della guerra sembrano lontani. Ma un dilemma atroce attende il Capitano: seguire «le cose che contano», come l’ideologia e il credo politico, oppure lasciare prevalere le «illusioni della giovinezza», salvando la vita a Bon, l’amico con cui ha sigillato un patto di sangue durante l’adolescenza?
Romanzo che offre il ritratto impareggiabile di un «uomo con due menti diverse», di un «rivoluzionario» che dinanzi al terribile esito dei suoi ideali non cessa per questo di «scrutare l’oscurità con pensieri scandalosi, speranze eccessive e sogni proibiti», Il simpatizzante ha riscosso, al suo apparire negli Stati Uniti, l’entusiasmo di critica e pubblico, vincendo il Premio Pulitzer 2016 per la narrativa e figurando come «libro dell’anno» sul New York Times e i maggiori organi di stampa internazionali.

La diva di Omero ormai canta solo il Vietnam 

Il simpatizzantedi Viet Thanh Nguyen ci rivela che quella guerra degli Anni 70 è stata l’ultima in cui l’Occidente abbia, almeno in parte, creduto 
Antonio Scurati  Busiarda 14 11 2016
La battaglia che proprio in questo momento si sta combattendo a Mosul non avrà, probabilmente, il suo Omero. È una battaglia, continuiamo a ripeterci, decisiva per la nostra sorte, eppure non troverà un cantore capace di farla penetrare, attraverso una narrazione epica, nella coscienza storica dell’Occidente sottraendola alle fosse comuni dell’oblio cronachistico. E non avrà il suo Omero nemmeno la battaglia per Raqqa, che si annuncia imminente, così come non lo hanno avuto le battaglie per Baghdad della Prima e della Seconda guerra del Golfo o quelle della guerra d’Afghanistan. Il racconto di questi conflitti si esaurisce quasi interamente nell’effimero mediatico, accendendosi brevemente in schiume di superficie sulla cresta dell’onda giornalistica per tornare presto silente senza quasi lasciare traccia. Salvo poi predisporci al prossimo tuffo nello scannatoio su grande scala, senza costrutto e senza direzione. Senza destino.
Le ragioni di questa cronachizzazione della guerra - e della complementare cronicizzazione - sono molte. Influisce sicuramente il sequestro dei fronti di guerra, ma non va dimenticato che le guerre del Golfo hanno registrato una copertura mediatica senza precedenti e proprio quella sovraesposizione ha dato luogo a una paradossale proporzionalità inversa tra massa d’informazioni e narrazioni memorabili. A rendere refrattaria la coscienza storica dell’Occidente nei confronti delle sue guerre attuali è, più probabilmente, la mancanza di un profondo coinvolgimento esistenziale e ideologico del nostro popolo. Sono guerre «aliene» perché combattute da eserciti professionali e in assenza di autentiche motivazioni ideali. Due volte «lontane», sia dalla base esperienziale sia dai tumulti della coscienza civile, restano sospese in un limbo d’irrealtà, tra la veglia e il sogno, tra il vero e il finto, impigliate in una sorta di primitiva mente bicamerale che non sa riconoscere i pensieri come propri e li attribuisce a voci di maligne divinità mediatiche.
L’ultima «nostra» guerra che si è dimostrata capace di fecondare l’immaginario artistico alimentando una grande letteratura e, soprattutto, grande cinema, è stata la guerra del Vietnam. Non è, perciò, un caso che a distanza di quarant’anni dalla sua conclusione la grande letteratura di guerra dell’Occidente americano attinga la propria materia narrativa ancora a quell’ormai remoto conflitto. Lo testimonia il romanzo Il simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, premio Pulitzer 2016, accolto negli Stati Uniti da un coro unanime di straordinario entusiasmo critico (Neri Pozza, pp. 511, € 18).
Il protagonista, spia totale
Il simpatizzante è un romanzo magistrale, l’opera di un maestro della scuola del sospetto. Il suo protagonista - e voce narrante - è un doppiogiochista che gioca due giochi entrambi sporchi, una spia totale, un agente in sonno e in veglia, l’uomo di fiducia di un generale a capo della polizia segreta dell’esercito sud-vietnamita che però fotografa in segreto ogni dispaccio segreto e lo invia ai Vietcong di cui da ragazzo ha abbracciato la causa rivoluzionaria, un uomo con due facce, entrambe sordide, eppure candido nella sua integrale disperazione. Il Capitano è, infatti, un individuo scisso non per degenerazione, ma per un difetto d’origine. Figlio illegittimo di una contadina vietnamita e di un prete cattolico, meticcio per destino, viene istruito nelle università statunitensi alla cui cultura lo legherà sempre un insuperabile doppio legame di amore-odio, e sarà condannato dal fato anche a lacerarsi nella sfera dei sentimenti privati dovendo scegliere, senza poterlo fare, tra i due amici d’infanzia, Man e Bon, il primo addestratore dei Vietcong e il secondo addestrato dalla Cia. 
Questa sanguinosa mascherata universale non autorizza, però, a sperare in nessuno smascheramento. Nella parte centrale del romanzo, il Capitano, esiliato in California al seguito del suo generale ma costantemente al servizio dei comunisti che hanno trionfato in Vietnam, si trova a far da consulente per Hollywood, la fabbrica di storie americane, nella consapevolezza che gli spettatori di tutto il mondo le avrebbero continuate ad adorare «almeno fino al giorno in cui non fossero stati bombardati da quegli stessi aerei che avevano visto sul grande schermo». 
Un io scisso
Ma attenzione: nella prospettiva di Nguyen e del suo simpatizzante non ha senso contrapporre alla finzione hollywoodiana una realtà demistificante, all’imperialismo americano la rivoluzione comunista, alle torture della Cia quelle dei Vietcong. Tutto è narrato in un clima da dopo-bomba, dopo la resa di ogni incantamento, come dall’ultimo esemplare di una specie da troppo tempo in via di estinzione. Il colonialismo occidentale si è inabissato nel suo cuore di tenebra ma il post-colonialismo non ha fatto di meglio. L’io scisso del Capitano, e del suo autore - figlio di profughi vietnamiti dopo la caduta di Saigon -, non è lacerato tra due fedi, e tra due disinganni, è immerso nello struggente tono tragicomico, nello scetticismo universale, la speciale condanna di chi deve condurre un’esistenza postuma, venendo dopo la fine. La versione di Hollywood resterà, perciò, quella definitiva. 
In virtù di questo, Il simpatizzante non è l’ennesima contro-narrazione da Oriente sulla guerra del Vietnam degli Anni 70, ma la voce narrante di questo nostro attuale Occidente che non trova più ragioni per cantare le guerre che ancora ci restano da combattere. Quella voce ci suggerisce che il Vietnam è stata l’ultima guerra in cui l’Occidente abbia, almeno in parte, davvero creduto. L’ultima che abbia «vissuto». L’ultima combattuta in prima persona da un esercito di leva. L’ultima che abbia causato un disincanto autentico e profondo. L’ultima occasione in cui l’Occidente avanzò con convinzione una pretesa egemonica sul resto del mondo. L’ultimo ricordo di gioventù di un Occidente oggi senile. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

“Non fidatevi di Coppola il vero Vietnam lo racconto io” Che cosa resta di Saigon? Lo svela Viet Thanh Nguyen in un romanzo da PulitzerANTONIO MONDA Rep 30 11 2016
NEW YORK Il romanzo più potente, originale e folgorante dell’anno si intitola “Il simpatizzante” ed è il debutto nella narrativa di Viet Thanh Nguyen, docente di lingua inglese della University of Southern California. Il libro, che ha vinto il premio Pulitzer 2016 (ora tradotto per Neri Pozza da Luca Briasco, pagg. 512, euro 18) alterna il dolore a un sorriso pieno di amarezza, mentre i generi si fondo–
no ripetutamente: dal romanzo di guerra alla spy story, dalla riflessione sul potere a quella sulle distorsioni dei media. Accolto dalla stampa anglosassone senza alcun timore di esagerare con gli aggettivi (“magistrale”, New York Times; “straordinario”, Washington Post; “eccellente”, Guardian), Il simpatizzante conquista il lettore sin dalle prime righe, dove l’io narrante si presenta con queste parole: «Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce. E un uomo con due menti diverse, anche se questo probabilmente non stupirà nessuno». Il protagonista è un vietnamita trasferitosi in America dopo la caduta di Saigon: un doppiogiochista al servizio del regime comunista, che assisterà con i propri occhi ad atrocità di ogni genere e tradirà anche le persone più care. L’influenza di Graham Greene è evidente: ma, se Nguyen eredita dallo scrittore inglese l’approccio sinceramente umanista, l’evoluzione narrativa si colora di toni satirici che sarebbero piaciuti a George Orwell. Tra i tanti motivi per cui Il simpatizzante è un romanzo da non perdere c’è il racconto, inedito in occidente, della caduta di Saigon raccontata da un vietnamita: Nguyen si è trasferito in California quando aveva quattro anni. La forza rievocativa di quelle pagine fa da contraltare a uno sguardo estremamente lucido sulla società statunitense e a un viaggio all’interno del cinema, che racconta come Hollywood abbia interpretato in maniera parziale la tragedia di quella guerra. «Non discuto che alcuni film sul Vietnam abbiano degli indubbi pregi artistici» racconta l’autore nel suo ufficio universitario, dove ha appena finito di controllare i compiti di metà semestre, «ma lo sguardo è perennemente limitato fino alla distorsione dei fatti: basti pensare che gli attori che interpretano i miei conterranei non sono vietnamiti. Il loro punto di vista non è mai preso in considerazione e sono solo comparse senza voce, limitate a due ruoli: vittime o torturatori. Si rischia spesso il razzismo, per questo tra i film sul Vietnam preferisco lo sperimentale In the year of the pig di Emile De Antonio (documentario del 1968)».
Lei fa un ritratto spietato di un regista, soprannominato “l’Autore”, che sembra Francis Ford Coppola alle prese con “Apocalypse Now.”
«Mi è difficile negarlo, anche se il film che racconto fonde un po’ tutte le pellicole dell’epoca. Nel romanzo il regista è un genio, anche se ha i suoi difetti».
Perché ha voluto scrivere oggi un libro sul Vietnam?
«Perché sentivo molta rabbia e volevo scrivere qualcosa che offrisse uno sguardo diverso su temi trattati unilateralmente: ho provato sulla mia pelle cosa significasse essere vietnamita in America».
Che importanza hanno avuto Orwell e Greene?
«Fondamentali: per prepararmi ho riletto 1984 e ho approfondito
Greene, del quale conoscevo solo Un americano tranquillo, un libro che mi aveva
sconvolto».
È mai tornato in Vietnam?
«Spesso dal 2002 al 2012, ma ora non so se sarà facile: il libro è stato censurato già nella versione inglese».
Lei ha scritto: «tutte le guerre sono combattute due volte: la prima volta sul campo di battaglia, poi nella memoria ».
«Le guerre continuano oltre il campo di battaglia e il secondo conflitto è cruciale per comprendere il significato intimo della guerra».
Il protagonista è figlio di un prete cattolico e una ragazza vietnamita: odia il primo e ama la seconda.
«Questo contrasto racconta il mio dilemma rispetto ai rapporti umani e alla fede. Sono figlio di due cattolici osservanti. Io credo di essere ateo, ma sottolineo credo perché come dice il detto “una volta che sei cattolico lo sei sempre”. L’iconografia e l’immaginario cattolico sono dentro di me. Insomma, mi chiedo costantemente se Dio esiste e se i comportamenti di chi lo rappresenta siano legittimi, santi o ipocriti».
Il suo protagonista è una spia, un traditore e un assassino, eppure si ha la sensazione che lei tifi per lui.
«Vede quanto è stato importante Graham Greene? Un personaggio che commette qualcosa di brutto non diventa disumano, ma più profondamente umano».
Perché ha scelto la satira per raccontare una tragedia?
«Proprio perché si tratta di una storia molto drammatica: sentivo la necessità di alleviare qualcosa di terribile, come anche l’ipocrisia che si nasconde dietro ogni ideologia. E il mio narratore mi spingeva nella stessa direzione».
Lei cita Nietzsche: «Guardiamoci dal fare visi tetri davanti al termine tortura: proprio in questo caso ci sono ragioni in abbondanza per compensare e mitigare il termine – e c’è anche un po’ da ridere».
«Esistono eventi di dolore e tragedia assoluta, quasi sacri nel loro orrore: ho sentito la necessità di un riso catartico e assurdo ».
Ma nelle scene di tortura è inevitabile pensare a Cristo.
«Non credevo fosse così evidente ».
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