domenica 4 dicembre 2016

Cassese: trasformazioni della statualità nella globalizzazione capitalistica. Intanto gli stessi che facevano la lezione di globalizzazione ora la fanno di populismo


Una sintesi da trovare tra crescita e democrazia
Corriere della Sera - 19 ore fa

Lo Stato a guardia delle convenzioni chiamate confiniSaggi. «Territori e potere» di Sabino Cassese per il Mulino.12.2016
Anche a una rapida disamina della storia degli organismi politici, si osserva che terra, popolo e sovranità non coincidono mai esattamente fra loro. Anzi altrettanto spesso non coincidono neanche con se stessi. Persino l’emergere della nazione, forse la dimensione che ha più cercato di presentarli come omogenei, non è veramente riuscita ad avere ragione dei numerosi scarti che hanno caratterizzato i costituenti del politico. Si potrebbe dire che lo stato è nato per compensare, stabilizzare (lo dice la parola stessa: sostantivo che deriva dal participio passato italiano di stare e essere) proprio le criticità fra territorio, popolazione e potere. In relazione a ciò, da un lato lo stato cerca di risolvere la crisi e dall’altro lato si alimenta di crisi.
Lo stato è il tentativo di rendere statico, controllabile, governabile ciò che è intrinsecamente instabile. Detto in altre termini, lo stato vive del politico cercando però di regolarlo, neutralizzarlo. Se per lungo tempo è sembrato che il tentativo di neutralizzazione ha funzionato, fino a far parere che stato e nazione coincidessero, ciò non toglie che al fondo le criticità e gli scarti siano rimasti. L’orizzonte globalizzato odierno più che produrre la crisi statale l’ha fatta riemergere quale elemento fondamentale che da sempre caratterizza gli stati – come limite, ma anche come risorsa.
È forse in quest’ottica teorica generale che va inquadrato il libro di Sabino Cassese, Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati? (il Mulino, pp. 130, euro 12) che esamina l’evoluzione recente di cui lo stato è oggetto passivo, ma significativamente anche soggetto attivo. Attraverso dati e situazioni di questi anni la ricognizione di Cassese tocca le ambivalenze dello stato – in particolare quelle che riguardano i confini e le giurisdizioni territoriali – evidenziando sia quando esse sono contraddittorie fino a risolversi nell’anomia governamentale dello stato di eccezione, sia quando esse sono dialettiche e mantengono vivo il rapporto tra il giuridico e il politico.
Uno fra i tanti esempi descritti da Cassese di ambivalenza che si risolve nella paradossale istituzionalizzazione dell’eccezione è l’operazione di arretramento del confine cartografico con il Messico che permette agli Stati Uniti di avere una zona interterritoriale nella quale non si applicano le norme di cittadinanza e quelle riservate a profughi e migranti come invece avviene sul territorio nazionale.
Le zone di criticità che lo stato crea e subisce non sono sempre soltanto il segno negativo dell’incapacità del potere di regolare sul territorio la propria sovranità. Quale esempio positivo di criticità – e questa è forse la parte più interessante del libro di Cassese – viene citato il caso apparentemente debole e precario dell’Unione Europea che letteralmente «vive di crisi». A tal proposito Cassese scrive: «Nonostante il rivivere dei nazionalismi e le reazioni dei partiti populisti contrari all’Unione, ambedue i fattori di crisi attuale dell’Unione non sono governabili dai singoli stati. Quindi, sono sia fattori di crisi dell’Unione, sia fattori di sviluppo dell’Unione, perché gli Stati sono costretti a cooperare sotto la sua egida. La formazione di movimenti nazionali populistici antieuropei, se fa emergere opposizioni popolari all’Unione, produce anche l’effetto di politicizzare la costruzione europea, da fenomeno prevalentemente amministrativo a fenomeno sostanzialmente politico».

IL REFERENDUM E LE FRATTURE NELLA SOCIETÀ 

PIERO IGNAZI Rep 4 12 2016
C’È UNA insidia sottile che si nasconde nella vittoria del Sì: è quella di approfondire le fratture che si sono già manifestate nella società italiana. Da molti anni il nostro Paese è attraversato da uno stato di disagio profondo che non dipende solo dalla crisi economica. Periodicamente questo disagio emerge, anzi esplode in forme impreviste. Nessuno vide l’irruzione della Lega all’inizio degli anni Novanta, eppure i segni del “malessere del Nord” c’erano già tutti, se si fosse prestata attenzione agli osservatori di quell’area ( in primis Ilvo Diamanti). Allora, la molla dell’insoddisfazione era scattata quando ceti che scoprivano il primo benessere grazie alla loro intraprendenza si vedevano ostacolati, se non taglieggiati, da uno Stato insensibile e rapace.
All’inizio di questo decennio è stata l’ondata grillina ad abbattersi sugli equilibri politici: un magma ribollente di rabbia, indignazione e frustrazione condiviso da almeno un quarto dell’elettorato che rifiutava radicalmente ogni offerta politica tradizionale, sia in termini di proposte che di personale politico. Sappiamo perché tanti giovani e tante persone di condizione sociale disagiata — o a rischio di impoverimento — si siano rivolti al M5S: non tanto per le sue proposte che sono o di nicchia sul
coté ecologista (le cinque stelle dell’energia verde, del trasporto collettivo, della rete, dei beni pubblici e del riciclaggio dei rifiuti), o imperscrutabili se non fantasmagoriche come il reddito universale di cittadinanza. Piuttosto, gli elettori sono stati attratti dal rifiuto in blocco, “a prescindere”, della classe politica.
E questo rifiuto permane. Non è stato disinnescato dalla novità incarnata da Matteo Renzi. Tutt’altro: semmai si amplia perché l’offensiva portata dal presidente del Consiglio sul referendum “contro la casta” sollecita ancora di più quei sentimenti anti-istituzionali che sono il terreno di coltura del grillismo. Il gioco di prestigio — spesso riuscito a Berlusconi, peraltro — di rappresentare, di incarnare fisicamente, il potere e allo stesso tempo di parlare contro il potere, non convince più. L’estraneità al sistema si è consolidata nell’adesione al M5S, e da lì non si muove.
La campagna referendaria ha approfondito la distanza tra chi si sente dentro il sistema e chi si sente ai margini o potenzialmente escluso. Il fatto che praticamente tutto l’establishment si sia schierato a sostegno del Sì — e Mario Monti ha avuto una battuta felice quando ha detto di non sentirsi più parte dell’establishment perché vota No — fa sentire sempre più irrilevanti coloro che vi si oppongono. Diffonde tra costoro un sentimento di “minorità”. Il referendum sta quindi attivando una sorta di conflitto sociale alto/basso di antica memoria. Questa divisione, che ricalca la geografia sociale del recente voto di Roma e Torino, con le periferie ai grillini e i bei quartieri al Pd, alimenta il discorso populista e sospinge verso l’alienazione politica. Alla linea di frattura sociale si aggiunge poi quella generazionale. I giovani sono schierati per il No, mentre le fasce d’età più mature e gli anziani per il Sì. Il sentimento di spossessamento del futuro che pervade l’universo giovanile non può che essere rafforzato dalla vittoria dei “vecchi”.
Sembra di tornare al passato, quando la stagione dei movimenti post-’68 proiettò nell’arena pubblica la contestazione di giovani e operai. In realtà, i giovani sono oggi di meno e le tute blu una rarità, ma l’insoddisfazione e la pulsione alla protesta ci sono ancora. Non per nulla nell’alternativa tra riforme e rivoluzione il divario tra le due opzioni è ridotto: 45 a 34 a favore delle riforme (dati Swg novembre 2016). Questo serbatoio di rifiuto e di rivolta, finora, si è incanalato in un ambito iperlegalitario come quello dei 5Stelle. Una vittoria del Sì potrebbe portare questa variegata e indistinta componente, che ha comunque nei giovani e nelle persone di ceto medio-basso il suo tratto identificativo, a considerarsi vieppiù marginale. Spetta all’intelligenza degli eventuali vincitori evitare che le frustrazioni sociali e generazionali non vengano esacerbate dal risultato del referendum.
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“La sinistra perde se ignora la minaccia del terrore jihadista” 
Il politologo francese analizza la sconfitta di Hollande: “Non ha gestito le paure”
PIETRO DEL RE Rrep 4 12 2016
ROMA. François Fillon ha vinto le primarie della destra e diventerà probabilmente il prossimo presidente della Repubblica francese per aver gestito meglio di Alain Juppé e di Nicolas Sarkozy la paura nei confronti dei musulmani. Quanto a Hollande, una ragione della sua impopolarità da primato consiste nell’aver sempre minimizzato la matrice islamica del terrorismo jihadista. Lo dice il politologo ed esperto del mondo arabo Gilles Kepel, a Roma per partecipare al forum “Dialoghi Mediterranei”, organizzato dal ministero degli Esteri. «Fillon ha capito che la società francese è ancora profondamente traumatizzata dai 239 morti della jihad — tanti sono stati tra Charlie Hebdo e l’omicidio del prete in Normandia — e che il Paese si sente aggredito nella sua anima più profonda, in qualcosa che va al di là dell’idea stessa di laicità o di repubblica. Chi è stato più “conciliante” con l’Islam politico, ha perso», spiega Kepel, che dopo aver soggiornato a lungo in molti Paesi musulmani, nella sua Parigi è da sei mesi costretto a girare sotto scorta per aver ricevuto minacce di morte da parte di gruppi islamisti.
Nel suo recente saggio “La Fracture” (Gallimard), lei accusa il presidente Hollande di non aver parlato a lungo di terrorismo islamico. Ha pagato anche lui per aver rifiutato di riconoscere il nesso tra jihadismo e Islam?
«Ci sono quelli come Hollande che considerano il jihadismo una forma di terrorismo come un’altra. Dicono che se una volta c’erano l’Ira, la Rote Armee Fraktion e le Brigate rosse, adesso ci sono gli islamisti. E ci sono quelli come me che credono che vadano piuttosto letti i testi arabi per capire come si può passare da un’ideologia di rottura culturale, che quella dei salafiti, alla violenza nel nome della guerra santa. Tutto ciò senza sottovalutare l’impatto delle condizioni sociali nei quartieri più poveri e delle drammatiche conseguenze di una gioventù senza lavoro».
Quali sono le altre colpe di Hollande?
«È la prima volta che un presidente francese getta la spugna, che non si presenta per un secondo mandato. Oltre allo scacco personale mi sembra il naufragio della politica del partito socialista francese degli ultimi 35 anni, ossia dalla prima elezione di Mitterrand, con conseguenze devastanti per quelli che vorrebbero riprendere il testimone».
In che modo la componente musulmana della società francese potrà influire sulle presidenziali di maggio?
«In Francia, non si può più parlare di contrapposizione destra- sinistra. Questa è stata sostituita da linguaggi comunitari e populisti. Il risultato è una “balcanizzazione” del Paese, che rischia di sfociare in una guerra civile. C’è infatti una frattura sempre più profonda tra l’estrema destra secondo cui i nostri compatrioti musulmani non sono completamente francesi perché sospettati di essere terroristi e tra quei movimenti islamici che predicano la non integrazione nella società francese e la nascita di un’identità impermeabile a quella occidentale, considerata islamofoba. Ecco perché il thatcheriano Fillon riscuote tanto successo, non solo a destra. Sia detto per inciso, la figura della Thatcher è sempre stata usata dai politici francesi come uno spaventapasseri ».
Sono circa 200 i jihadisti francesi che hanno lasciato lo Stato islamico per tornare in patria. Che cosa fare di questi “ex combattenti”?
«La maggior parte di loro rientra in Francia odiandola ancora di più di quando la lasciarono. Vogliono soltanto distruggerla, perciò tutti quelli che tornano vengono incarcerati. Ma è ora necessario adattare il sistema penitenziario francese a questa nuova massa di prigionieri, perché negli ultimi 15 anni sono state proprio le prigioni il principale vivaio del jihadismo, con gli imam incarcerati che hanno fatto proselitismo presso i piccoli delinquenti musulmani. Lo Stato ha perciò deciso di costruire nuovi penitenziari e di assumere altri guardiani per mantenere i jihadisti più pericolosi in isolamento, a costi altissimi».
Recentemente i servizi francesi sono riusciti a decriptare il codice di un reclutatore di foreign fighters che dalla Siria assoldava giovani nelle banlieues francesi. Molti di questi sono stati arrestati. Come comportarsi con questi “apprendisti” jihadisti?
«Tutti quelli che sono stati in contatto con il reclutatore dello Stato islamico sono stati arrestati e sono in attesa di giudizio. Il problema è che cosa fare una volta che escono di prigione. Padre Jacques Hamel è stato sgozzato da un ragazzo di 19 anni che aveva appena trascorso un anno in carcere per aver cercato di raggiungere la Siria e che era stato appena liberato per buona condotta. Quando entrò in prigione, della Jihad sapeva ben poco, ma ne è uscito completamente islamizzato e con la volontà di uccidere. Da un lato bisognerà dunque aggravare le pene, dall’altro trovare la chiave psicologica per de-radicalizzare e reintegrare questa gente. Un tipo di approccio che è stato completamente trascurato nel quinquennio di Hollande». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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