giovedì 22 dicembre 2016
Il figlio di Buffalo Bill
Risvolto
Amerigo è cresciuto in una nostrana Macondo abitata da braccianti,
boscaioli e personaggi fiabeschi. È un ribelle, e dicono sia figlio di
Buffalo Bill. Forse è destinato a compiere grandi imprese, forse è solo
incapace di salvarsi.
San Sebastiano in Alpe, paese dell'Appennino romagnolo, 1906. Amerigo ha
nove anni e sua madre l'ha chiamato cosí perché l'ha concepito in
America. Quando il Wild West Show fa tappa a Ravenna, lei decide
di portare il figlio a conoscere suo padre. Buffalo Bill però non
accetta di incontrarlo e questo rifiuto spinge il già inquieto Amerigo a
schierarsi per sempre «dalla parte degli indiani». Con Mariano e
Rachele si dipinge il viso, e scorrazzando per i boschi sogna di fare la
rivoluzione. Ma la Storia divide le strade di questi amici
inseparabili, travolti dalle burrasche del Novecento: le lotte di
classe, il fascismo, le guerre mondiali. Con grande potenza evocativa, Stirpe selvaggia
mette in scena un protagonista struggente come un eroe romantico,
eppure modernissimo. Diviso, come ognuno di noi, tra l'affermazione di
sé e la rinuncia, tra la solitudine e il bisogno d'amore.
«Quando scorrazzavano nei boschi e sui dirupi
che costituivano il loro universo selvaggio,
lanciavano le stesse grida di furore e di guerra
che avevano sentito durante il Wild West Show.
Grida che, non addomesticate e costrette
sotto il tendone di un circo, squillavano libere
e vere.
- Come gli indiani? - chiedeva Amerigo quando
stavano per buttarsi in qualche scorribanda
o avventura.
- Come gli indiani! - confermava Mariano,
e col fango, l'erba, la ruggine delle pietre
o il sugo di qualche bacca si dipingevano
le guance e la fronte, un'unzione che aveva
il valore di un sacramento barbaro e profano».
Intervista a Eraldo Baldini che in “Stirpe selvaggia” immagina la storia di un bambino che si diceva fosse figlio del leggendario cacciatore
RAFFAELLA DE SANTIS Rep 21/12/2016
Quando nel 1906 arriva a Ravenna, Buffalo Bill non è solo l’eroe mitico che si dice abbia ucciso quattromila bisonti ma è il capo carovana di un circo che forse è il primo esempio di spettacolo globale del periodo. La gente per andare a vederlo fa chilometri a piedi. Lui, l’uomo che aveva portato lo scalpo di un guerriero cheyenne al generale Custer e che parlava con Toro Seduto, diventa un’attrazione da tendone e, nonostante i sessant’anni suonati, un Don Giovanni. Eraldo Baldini da bambino ne scopre l’esistenza leggendo fumetti e soprattutto grazie ai racconti del nonno, che a Ravenna c’era stato e di storie su di lui ne conosceva
tante e le raccontava trasformando le foreste casentinesi dell’Appeninno tosco- romagnolo nel nostro far west casalingo. Si capisce che a Baldini, romanziere affabulatore ma anche antropologo e saggista, studioso di folklore e tradizioni popolari, un personaggio così doveva per forza piacere, perché Buffalo è la storia delle storie, la sostanza stessa di ogni narrazione orale, il mito proteiforme che attraversa i tempi cambiando di bocca in bocca e rinascendo ogni volta nuovo. Il suo ultimo romanzo, Stirpe selvaggia (Einaudi Stile Libero) parte da qui, dalla storia di un bambino romagnolo che viene chiamato Amerigo perché in paese si dice sia il figlio di Buffalo Bill. La sua vita incrocia la grande storia, il fascismo, le due guerre mondiali, fino alla Resistenza, con appiccicato addosso il soprannome di Bill.
Buffalo Bill è stato protagonista di libri, canzoni e film. Il romanzo però ha radici locali, qual è la genesi?
«Nelle mie terre circolavano tante storie. Si diceva che Buffalo Bill avesse messo incinta una giovane cameriera e che poi per risarcirla le avesse inviato una cassettina di legno piena di dollari, con i quali lei aveva potuto acquistare un podere».
Cosa la colpiva in questa vicenda?
«Il motivo narrativo mi incuriosiva. Mi sono chiesto: come può vivere un bambino romagnolo che crede di essere il figlio di Buffalo Bill? Quali aspettative ha? Il mio protagonista, Amerigo, vive perennemente in bilico tra senso di responsabilità e voglia di fuga, legami e libertà».
E infatti come un novello Thoreau si ritira a vivere nei boschi. Che valore ha per lei la solitudine?
«È un tratto del mio carattere. Sono schivo, amo il silenzio. Ho sempre vissuto in campagna, la città non fa per me. Oggi abito in una grande casa in affitto a Porto Fuori, a un chilome- tro e mezzo dal mare, non faccio vita sociale. Il mio sogno è fuggire lontano da tutto come fa il protagonista del mio romanzo. Lui vive come un selvaggio tra le foreste, in un borgo immaginario simile a quello da cui venivano i miei nonni materni».
Lei non fa vita sociale, ma dove va a pescare le sue storie?
«Sono nato nel 1952 in un paesino di campagna, San Pancrazio, una frazione di Russi in provincia di Ravenna. In quegli anni esisteva un mondo ancora impregnato di tradizioni e superstizioni, è lì che attingo. Quel mondo arcaico mi ha sempre affascinato, ma poi ha iniziato a sgretolarsi a partire dagli anni Sessanta, con il boom economico».
Non rischia di vedere il passato in modo troppo elegiaco?
«So che la natura è madre ma anche matrigna e non ho rimpianti per i tempi andati. Erano belli ma anche durissimi. Sono cresciuto in una casa vecchissima senza riscaldamenti, nelle camere da letto si formava il ghiaccio. Vivevamo con i nonni paterni. Mio nonno era un commerciante di bestiame, ma io ho sempre detto a tutti che era un cow boy. Sapeva cavalcare e aveva conosciuto Buffalo Bill» Dunque è suo nonno ad avergliene parlato.
«È la persona a cui ho voluto più bene nella mia vita. Era tornato dalla guerra con una gamba più corta per via dell’esplosione di alcune granate. Un giorno mi raccontò che tanti anni prima era andato a piedi da San Pancrazio a Ravenna per vedere lo spettacolo di Buffalo Bill».
Il romanzo è pieno personaggi al limite del surreale. Ci sono donne giganti e omini minuscoli, sfregiati, folletti, fattucchiere. Sembra un realismo magico di marca padana.
«Nelle comunità rurali queste bizzarrie erano accettate con naturalezza. Mi è stata appiccicata addosso l’etichetta di autore gotico rurale, ma stavolta volevo scrivere un libro diverso, con un respiro più ampio, dove prevalesse il tratto magico, ineliminabile dalla nostra cultura popolare. Peccato che gli scrittori italiani vi attingano poco».
Vengono in mente i racconti più selvaggi di Landolfi, quelli raccolti nella “Pietra lunare”… «O i primi libri di Giuseppe Pederiali. In realtà le storie che ho amato di più sono americane, I pascoli del cielo di John Steinbeck e alcune di Stephen King, tra cui Shining, Pet Sematary e quella da cui è tratto il film Stand By Me. S’intitola The Body e credo sia uno dei pezzi letterari più belli del Novecento».
Anche lì il protagonista è un bambino.
«Mi piace vedere il mondo con gli occhi dei bambini, perché riescono a realizzare quella che Coleridge chiamava la “sospensione dell’incredulità”, sanno affidarsi senza riserve all’immaginazione».
E le saghe di moda oggi, Twilight o Harry Potter, le piacciono?
«Il loro successo conferma che i giovani sono ancora attratti dai racconti magici, ma sarebbe bello riscoprissero le narrazioni locali, quelle tramandate dai nostri nonni. Non vedo il bisogno di andare a scomodare i vampiri».
Il nome del protagonista è Amerigo. E la sua vita incrocia la storia del fascismo e della guerra fino alla Resistenza
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