mercoledì 21 dicembre 2016
Indagine su Valentin de Boulogne
Il mistero del pittore che non era Caravaggio
La storia di Valentin, il francese che seguì le orme di Merisi Mentre le mostre lo celebrano, ecco gli indizi sulla sua vita
FRANCESCA CAPPELLETTI Rep 20 12 2016
La vita misteriosa di Valentin de Boulogne si racconta più facilmente e la sua opera si comprende meglio partendo dalla fine, avvenuta nel 1632. La morte infatti è nota e i biografi ce la descrivono, anche come monito ad evitare i vizi comuni ai giovani artisti, con molti particolari. Reduce da una notte di eccessi nell’agosto torrido di Roma, in preda al bruciore del vino e del tabacco, il pittore decise di buttarsi nell’acqua gelida della fontana al Babuino: il rimedio non fece che accrescere una terribile febbre che lo uccise in pochi giorni. Il funerale del “pictor famosus”, come lo registra il libro dei morti della parrocchia di Santa Maria del Popolo, venne pagato dal cavalier Cassiano del Pozzo, antiquario, erudito, enciclopedico sognatore; senza il suo intervento non si sarebbe saputo come dare sepoltura all’artista. La sua scomparsa è quasi la fine
anagrafica del caravaggismo, se questo termine, usato in lungo e in largo, ha ancora qualche valore.
A dare nuova visibilità al misterioso personaggio è ora Valentin de Boulogne. Beyond Caravaggio la mostra ora a New York e poi a Parigi (Metropolitan Museum, fino al 16 gennaio; Louvre, 20 febbraio-22 maggio 2017, ne ha scritto Anna Ottani Cavina) dedicata alle opere delicate e selvagge del pittore francese, la cui attività nota si svolse esclusivamente a Roma nei primi decenni del Seicento. Andare oltre Caravaggio significa, per i curatori Keith Christiansen e Annick Lemoine, tracciare il contributo fondamentale che Valentin, interiorizzando la lezione di Caravaggio e dipingendo dal naturale, cioè dal modello in posa, diede al dibattito artistico dell’epoca e alla pittura francese dei secoli successivi, fino a Courbet e all’invenzione del realismo ottocentesco. Non è forse la linea caratterizzante della pittura francese, quella cartesiana e sorvegliata di Poussin e di Cézanne, avverte Jean Pierre Cuzin nel catalogo della mostra, ma comunque la ricerca che sta all’origine della compassione eroica nella Morte di Marat di David e della violenza romantica della Zattera della Medusa di Géricault.
Trasporre avvenimenti recenti e drammatici, facce conosciute e addirittura familiari, l’urgenza stessa delle vicende umane in un mondo di colori e di forme che ne usciva per forza rinnovato, nell’urto di un uso nuovo e rivoluzionario del dipingere dal vero è il fulcro dell’opera di Caravaggio. La pittura, da questa misurazione costante con la tradizione e con il modello, ne usciva rafforzata, diventava una attività intellettuale complessa, capace di creare nuove regole e di ambire a una conoscenza profonda della realtà. È questa l’essenza delle “pitture tocche con fierezza” di Valentin, popolate di personaggi scarmigliati e assorti, raffigurati in una solitudine senza consolazione sia quando si tratta di figure singole, come la Giuditta di Tolosa e il Sansone di Cleveland, o quando siano riuniti di notte nelle taverne, in poco allegre compagnie.
Ma chi era Valentin? Ancora una volta come Caravaggio, per noi il pittore nasce a Roma; non si conoscono opere precedenti a quanto imparò e dipinse nella città del papa. I suoi compagni degli anni Venti del Seicento, che avevano praticato la pittura dal naturale e avevano elaborato un repertorio di motivi tratti dalle opere di Caravaggio, come Nicolas Tournier e Nicolas Régnier, probabili allievi di Bartolomeo Manfredi, Simon Vouet, diventato principe dell’Accademia di san Luca nel 1624, cercavano altre strade o abbandonavano la città e anche i caravaggisti di Utrecht, già dai primi anni Venti, avevano lasciato la scena romana. Negli ultimi, commoventi e vigorosi tributi che alcuni collezionisti amici di Caravaggio avevano allestito nei loro palazzi, Valentin era ben rappresentato: una sua grande Fuga in Egitto, ora perduta, si poteva vedere probabilmente già nel 1626 nel salone di ingresso del palazzo di Vincenzo Giustiniani, accanto alle opere di altri artisti stranieri che nel palazzo del marchese avevano trovato spesso anche ospitalità. Negli stessi anni Asdrubale Mattei, il più giovane dei fratelli che nel 1601 avevano ospitato nel loro palazzo Caravaggio e gli avevano commissionato i capolavori a mezze figure dell’inizio del secolo, come la Cattura di Cristo oggi a Dublino, aveva fatto costruire una galleria dove porre le opere più significative della sua raccolta, il proprio definitivo e sintetico ritratto. L’Ultima cena di Valentin, un catalogo di vecchi pellegrini e di più giovani compagni di serate, stava ben a rappresentare gli esiti della pittura dal naturale negli anni Venti. La fine del decennio si ricostruisce poi grazie al filo della committenza Barberini: il francese riceve la prestigiosa commissione per San Pietro, il
Martirio dei Santi Processo e Martiniano, e esegue, per Francesco Barberini, uno dei quadri più ambiziosi e singolari di tutta la sua carriera, l’Allegoria
dell’Italia. Pagato nell’agosto del 1628 e citato in un inventario del 1629, l’Allegoria oggi a Roma, a villa Lante al Gianicolo, è un dipinto che rispetta tutte le regole delle complesse macchine celebrative destinate a un cardinal nipote e all’esaltazione del suo ruolo politico, ma immettendovi i personaggi “dal naturale ritratti”. Il fiume Tevere, sulla sinistra, esemplato nella posa sui modelli antichi, che certo non sfuggivano a Valentin, è uno dei suoi modelli preferiti, il vecchio con la lunga barba bianca riconoscibile nelle Quattro età dell’uomo di Londra,
nel San Matteo di Versailles e che qui presta all’allegoria del fiume antico le sue lunghe gambe ossute e il petto villoso. Allo stesso modo la figura dell’Italia, con la corona turrita e la posa di Minerva trionfante è una fanciulla anch’essa in posa, con il naso pronunciato e il volto polposo della giovinezza. Se questo è il trionfo estremo del naturalismo caravaggesco, in grado di sorreggere e anzi rafforzare, riempire di “fierezza” persino l’allegoria, è più difficile trovare punti fermi per i decenni precedenti.
Le zingare, i giocatori, i concerti nelle taverne si scalano probabilmente già dal 1613-1614 in poi, anni in cui, insieme a Simon Vouet, qualche biografo dice anche prima, Valentin dovrebbe essere arrivato a Roma. Una conferma documentaria è stata recuperata da Patrizia Cavazzini, che nel 1614 lo trova già a Roma, citato in un atto giudiziario in cui un suo connazionale si riconcilia con lui dopo un’aggressione. Era quindi già inserito e già partecipe di quella vita segnata da eccessi, risse, scontri, rivalità violente, che spesso lo tenevano lontano dagli altri francesi e lo spingevano, secondo Sandrart, alle amicizie con i pittori del Nord. Una conferma di questa sua inclinazione è la presenza all’interno della Bent, la lega dei pittori stranieri a Roma a partire dagli anni Venti: ognuno, all’interno di questa informale e sotterranea società di giovani artisti, assumeva un soprannome e quello di Valentin, tramandato dalle fonti fino a noi, era Amador – l’Innamorato. Se della vita e delle attitudini questi dati ci dicono qualcosa, nulla si sa con certezza della datazione e della destinazione delle sue opere. La mostra propone una cronologia, dal precoce San Giovanni Battista con i baffi, in cui è davvero probabile individuare un ritratto, forse un autoritratto, ai Bari di Dresda, in cui l’isolamento del giovane avvolto dall’inganno è ancora più marcata che nel modello caravaggesco, alle composizioni via via più complesse, come le taverne malinconiche, abitate da personaggi persi nei propri pensieri, da bambini ai quali è sfuggito l’uccellino dalla gabbietta vuota, da soldati stanchi, con l’armatura che non serve più se non a splendere nella luce notturna delle candele.
Sappiamo poco di lui prima del decennio barberiniano perché ci mise probabilmente molto a farsi conoscere e anche riconoscere come quel grande pittore “dal naturale” che ci appare oggi. Un protagonista poco alla moda, un eccellente colorista, un interprete sottile e malinconico della contraddittorietà e dell’inconsistenza delle passioni umane, dal gioco, alla guerra, al potere, alle sofferenze e agli incanti di quell’amore che gli era valso, da parte dei suoi amici artisti, il suo soprannome.
L’autrice insegna Storia dell’arte moderna all’Università di Ferrara. Ha pubblicato
Caravaggio – Un ritratto somigliante ( Electa) ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento