domenica 18 dicembre 2016
La tradizione occidentale del terrorismo suicida
Fabio Dei: Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio, Donzelli, pagine XVI-176, euro 18,00
Risvolto
«Pur essendo profondamente oltraggiati
dagli atti terroristici, dobbiamo cercare di collocarli nei contesti
politici, culturali e morali che danno loro significato. La condanna e
la comprensione non sono incompatibili».
Il «terrorista suicida» è una figura che sembra sfuggire a ogni
possibile comprensione. L’inquietudine che suscita dipende anche dal
fatto che alcune caratteristiche del suo comportamento non ci sono così
estranee, ma fanno parte di una nostra storia: il martirio volto alla
diffusione di ideali religiosi e politici è centrale nelle grandi
tradizioni religiose, così come in tutti i movimenti nazionalisti che
hanno plasmato l’Occidente moderno. Nelle forme di terrorismo
suicida contemporaneo questi tratti si manifestano però in modalità che
ci appaiono diverse e «distorte» – tanto più perturbanti, dunque, in
quanto fondono il familiare e il mostruoso. L’opinione pubblica
rappresenta il terrorista suicida per lo più in termini di devianza,
follia, fanatismo; un soggetto irrazionale, che è stato plagiato o
agisce sulla base di credenze religiose «primitive», quali l’attesa di
un premio in paradiso. Per quanto riguarda gli studiosi, alcuni tentano
di ricondurre queste scelte estreme a gravi disagi psicologici acuiti da
condizioni di vita particolarmente critiche; altri le collegano
a motivazioni esclusivamente razionali e tattiche. Si tratta però di
approcci del tutto insufficienti: il terrorismo suicida non può essere
compreso solo in riferimento a scelte strategiche politiche e militari, o
a disposizioni psicologiche individuali, o a situazioni di vita
drammatiche. Questi fattori hanno di certo un ruolo determinante, ma
perché un individuo decida di aderire a un’organizzazione terroristica e
di votarsi al martirio è necessaria una cornice culturale socialmente
condivisa e radicata, un contesto profondamente morale, con una
concezione socialmente plasmata del bene e del male, che attribuisca a
quel gesto un valore alto e condiviso. E un ruolo cruciale in questo
senso è giocato dalla religione: troppo spesso intesa in modo
caricaturale e «primordialista», agisce in realtà come un lessico
morale, nel quale si esprimono valori come la sacralità dei rapporti
familiari, la solidarietà comunitaria, la morale pubblica – il senso
dell’essere umani, in definitiva. Non si può dunque pretendere che le
violenze islamiche – e le pratiche di martirio in particolare –
divengano comprensibili solo se depurate da una «superficie» religiosa:
quest’ultima è una componente costitutiva del loro significato. Il che
non vuol dire che le religioni, e in specie l’Islam, siano in sé
violente o portino alla violenza. Vuol dire però che i protagonisti del
terrorismo suicida jihadista plasmano con forza la propria soggettività
nel linguaggio e nella pratica islamica: dobbiamo tenerne conto se
vogliamo comprendere, oltre che condannare.
Avvenire Alfonso Berardinelli venerdì 16 dicembre 2016
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