venerdì 16 dicembre 2016

L'Olocausto liberale: L'eredità del genocidio dei nativi americani dopo la nascita degli Stati Uniti secondo Louise Erdich

Risultati immagini per Louise Erdrich“Vi racconto com’è davvero vivere e morire nelle riserve” 

Parla Louise Erdrich, grande scrittrice nativa americana

ANTONIO MONDA Rep 16 12 2016
NEW YORK Con “LaRose”, Louise Erdrich conferma di essere una delle voci più alte e appassionanti della letteratura contemporanea: la più sottovalutata delle grandi scrittrici americane. Il romanzo, pubblicato in Italia presso Feltrinelli, conclude la trilogia iniziata con “Il giorno dei colombi” e “La casa tonda”, libro con cui vinse il National
Book Award: l’ambientazione è ancora una volta nel Nord Dakota, all’interno della riserva degli Ojibwe. L’autrice, per metà indiana d’America, anche in quest’ultimo romanzo conferma di saper essere nello stesso tempo locale ed universale, e comunque orgogliosa della propria cultura d’origine «che può ancora insegnarci tanto, a cominciare dall’amore per la natura e dalla consapevolezza che i soldi non sono tutto». Valori importanti, raccontati con una scrittura che ha entusiasmato anche Philip Roth: «Come Faulkner — ha dichiarato — Erdrich è uno dei grandi autori americani regionali, e come lui testimonia la conoscenza buia del proprio luogo di origine: oggi dobbiamo considerarla tra i più grandi scrittori americani in assoluto».
Il nuovo libro parte da un episodio tragico: durante una battuta di caccia, un uomo chiamato Landreaux uccide per errore un bambino, e, travolto dai sensi di colpa, decide insieme alla moglie di seguire l’antica tradizione Ojibwe, consegnando in riparazione il proprio figlio LaRose ai genitori che hanno subito la terribile perdita. Si tratta solo dell’inizio di una serie di vicende che ci riportano indietro nel tempo, dove veniamo a conoscere un’antenata di LaRose, che porta il suo stesso nome, vittima di stupro. In un mondo segnato da tradizioni ancestrali, violenza, tradimento, alcolismo e aneliti di perdono e redenzione. «La scrittura ha una dimensione ed una necessità morale» racconta la scrittrice dall’interno della Birbach Books, la libreria che ha fondato a Minneapolis: «La compiutezza estetica, indispensabile affinché l’arte sia autentica, deve coincidere con una comprensione, o almeno un’intuizione sul senso ultimo di chi siamo e perché siamo al mondo: l’armonia raggiunta è il riflesso del mistero dell’esistenza, ed è quindi in sé etica».
Come nasce la storia che racconta?
«È inventata, ma basata su episodi autentici: è vera ad esempio la tradizione del bambino offerto per alleviare un dolore. Per me si tratta di qualcosa che ho considerato con naturalezza, ma in Occidente è una tradizione che viene recepita con sconcerto. Mia madre ha conosciuto un uomo che da piccolo ha vissuto questa esperienza, e le ha raccontato di essere orgoglioso di aver contribuito a lenire un dolore. Si sentiva di aver fatto qualcosa di eroico, e ricordava con amore entrambe le due famiglie».
Cosa si può imparare oggi dalla cultura e dalle tradizioni dei nativi d’America? Recentemente i Sioux del Nord Dakota, ad esempio, hanno vinto una battaglia contro le trivellazioni petrolifere.
«La cultura nativa è caratterizzata dal rispetto per la natura: non siamo proprietari di nulla, e il nostro è solo un passaggio in un mondo che non rispettiamo. I miei antenati dicevano che non è la terra ad appartenere all’uomo, ma l’uomo alla terra. Esiste qualcosa di molto più grande, che non è mio, e comprende anche quello che io creo. Oggi molti nativi d’America sono in prima linea nel combattere la costruzione di oleodotti che sventrano la terra e ciò mi fa tornare in mente una frase celebre: “Solo dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà inquinato, solo dopo che l’ultimo pesce sarà pescato, voi vi accorgerete che il denaro non può essere mangiato”. Lo disse Thathanka Lyothake, che i bianchi chiamavano Toro Seduto».
Ritiene che quello che hanno subito gli indiani d’America sia un genocidio?
«Certo, come altro si può definirlo? Si tratta di genocidio, perché nato da una scelta governativa. La politica ha deciso di sterminare le tribù indiane per impossessarsi dei loro terreni. Ha utilizzato ogni mezzo, anche mediatico: una battaglia in cui prevalevano i bianchi era definita grande vittoria, una in cui prevalevano i nativi d’America un massacro. Solo in un secondo momento si è cominciato ad educare, ma non per intenti benefici: unicamente per assimilare.
Frank Baum, autore del “Mago di Oz”, scrisse: “La nostra unica salvezza dipende
dal totale sterminio degli indiani”.
«È una frase agghiacciante, che riflette lo spirito del tempo: persino uno scrittore della qualità di Baum diffondeva simili sconcezze. Oggi mi è difficile valutare con serenità la sua arte, anche se so che bisogna sempre storicizzare: è uno dei tragici paradossi della natura umana».
Solo nel ’78 il Congresso ha garantito per legge la libertà di culto ai nativi.
«Fino a quello stesso anno i figli dei nativi americani erano sottratti alle loro famiglie e mandati forzatamente in collegio affinché si assimilassero. Soltanto allora ci fu un cambiamento netto, e si cominciò a garantire dignità a tutti livelli, e considerare le 500 nazioni dei nativi d’America un’entità legale».
Che importanza ha avuto essere Ojibwe nel suo lavoro di scrittrice?
«Un’importanza fondamentale: sono cittadina di due nazioni, e ciò influenza ogni atto della mia vita. Quello che scrivo non è altro che la rappresentazione del mondo che conosco ».
Lei per metà è anche tedesca.
«Anche nella cultura tedesca è molto presente la celebrazione della natura. L’ho imparata da mio padre novantunenne».
In che misura la scrittura deve riflettere la propria identità?
«Lo deve fare sempre, altrimenti si rischia di non essere sinceri: nel mio caso però la mia identità è doppia, all’interno di quel melting pot unico che è l’America. Mio nonno emigrò qui dopo aver combattuto la Prima guerra mondiale per la Germania, mentre mio padre combattè la Seconda guerra mondiale per l’America contro i tedeschi».
Alce Nero, un grande capo indiano, disse: “Non è come nasci, ma è come muori che rivela a quale popolo appartieni”.
«Niente di più vero, e questo deve far riflettere sul significato della morte, un pensiero che rifiutiamo, pur sapendo che prima o poi moriremo tutti. La frase di Alce Nero è un invito alla dignità e alla necessità di rimanere davvero vivi fino alla fine».
©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: