domenica 18 dicembre 2016
Papa Ciccio ha 80 anni. I sinceri auguri di Antonio Socc'mel
La Repubblica Dio
Corriere della Sera
THE OLD POPE E GLI 80 ANNI
ALBERTO MELLONI Rep
GLI ottant’anni di vita non sono un traguardo banale. Nemmeno per Francesco, che li compie domani. “ The Old Pope” è uomo che aspetta l’alba pregando i Salmi, sostituiti nella secolarità occidentale da sudori ginnici, app meditative e diete antiossidanti. Sente dunque su questa soglia la poetica inesorabilità del Salmo 90: «La nostra vita arriva a settant’anni: ottanta se ci avanzano le forze. Quasi tutti sono affanno, fatica: passano in fretta e noi ci dileguiamo».
Ottant’anni è la vita che si fa gravame sfiancante: ingravescere, diceva il latino. Non più un fragile ego giovanile affamato di conferme. Non più la vita adulta che la tragedia deruba senza chiedere permesso. Non più il tedio di chi ha preso come amante il demone meridiano o la nevrosi di chi ha scelto Mammona. Ma un peso che può consegnare l’ultima fatuità; oppure aprire alla «sapienza del cuore» che consiste in un solo precetto «contare i propri giorni», sapendo che possono essere prorogati solo nella incurabile solennità dell’ingravescere.
Quel verbo, usato da Paolo VI quando il 21 novembre 1970 tolse l’elettorato ai cardinali con più di ottant’anni e ripreso da Ratzinger nel 2013 nella sua rinunzia al trono di Pietro, vale ora per Francesco. E gli ottant’anni sono l’età in cui i due ultimi generali della compagnia di Gesù, alla quale il pontefice appartiene, hanno dato le dimissioni, lasciando una carica alla quale erano stati eletti a vita, sono anche i suoi.
Dunque davanti a un pontefice ottantenne e ingravescentem, qualcuno si fa due conti. I prelati dell’affollata Confraternita di Santa Carrierina affilano gli sguardi in cerca d’un passo appena più stanco o un d’un viso appena più gonfio. Pur sapendo che il Vaticano non può diventare un pensionato per ex Papi, i conservatori prudenti sperano che Bergoglio diventi appena possibile il secondo vescovo emerito di Roma, prima che sorella anagrafe li trascini fuori dal prossimo conclave. E chi è ormai stufo di fingersi obbediente, calcola che i “4-5 anni” che Bergoglio pronosticava come sua durata sono agli sgoccioli.
Nulla di tutto ciò è inedito, ma nulla promette bene per la Chiesa. Anche senza che ritorni il disordine sistemico e la violenza istituzionale della fine del papato di Ratzinger, le banderillas dei cardinali più vecchi e dei giornalisti più giovani fanno capire bene che il “conflitto” che il Papa ha evocato come cura alla maldicenza e all’ipocrisia è ancora tale: conflitto puro, in bilico fra corrida e comunione. Nulla di ciò è singolare, ma non promette niente per il mondo di Aleppo, dove almeno un leader che dia voce alle vittime non sarebbe inutile.
Eppure capire Francesco sembra sempre più difficile per sempre più persone. “ The Old Pope” non è un uomo “moderno”, che punti a sedurre gli atei e irritare i bigotti, anche se entrambe le cose gli riescono bene. È un cristiano che porta in sé molte pagine della storia: l’anti-giansenismo dei gesuiti del Seicento. La profezia della Chiesa latino americana che ha riconosciuto la voce del Cristo povero nel grido dei poveri cristi. La parola di San Paolo che sentiva le doglie del creato dove gli altri vedevano un’etica verde che mira alla salute e non alla salvezza. Etica della salute. Il che non è nuovo: come è fin ovvio dire che porta in sé la sua storia.
Ma ciò che lo connota è che alla “sua” storia dà un significato teologico, da sempre e anche oggi. Nel “credo” che scrisse per se stesso il 13 dicembre 1969, giorno della sua ordinazione presbiterale, professava la sua fede trinitaria, ma aggiungeva di credere «nella meschinità della mia anima, che cerca di risucchiare senza dare»; di credere nella «pazienza di Dio, accogliente, buona come una notte estiva»; di attendere il «volto meraviglioso che non so come sia, dal quale continuamente fuggo, ma che voglio conoscere ed amare». E aggiungeva: «Credo alla mia storia».
Quella storia che oggi arriva ad una ricapitolazione solenne e drammatica nel momento in cui essa ne ha fatto, dopo un conclave fallito, un Papa che vuol fare della «forma del santo evangelo » qualcosa che può arrivare al cuore della «forma della Santa chiesa romana». Ed è in questo e solo per questo un riformatore.
Per questo ha nemici così rumorosi e vistosi: che il Papa non piaccia a qualcuno che mormora o che scrive o che pensa è fisiologico e perfino sano; che alcuni cardinali lo attacchino e pochi lo difendano no. Perché in fondo un po’ di paternalismo che perdona chi chiama peccato la vita del peccatore non darebbe noia a nessuno. Chi crede che la riforma della Chiesa consista nel bastonare la curia o portare democrazia là dove invece serve la sinodalità, potrebbe sopportare Francesco. Invece lui, scettico verso le leve giuridiche della riforma porta la “sua storia” di cristiano sul proscenio e le dà un significato “missionario”. Chi ha nostalgia della Chiesa fustigatrice ha ottimi motivi per esserne furibondo: perché le norme poi si smontano, e se va male si interpretano. Ma la vita cristiana no.
Se passa non c’è niente da fare. Diventa una forza invisibile e nel tempo di orrore, di sangue, di barbarie che ci siamo costruiti sarebbe anche una forza “storica”. Invece se quella vita non germoglia, resta puro spettacolo: e “ the Old Pope” rimane solo davanti ad uno sterminato pubblico inerte. L’ottantenne che ha la sapienza del cuore non si allarmerà: conta i giorni e questo gli basta. Per il pubblico distratto da molte cose è più difficile sentire che la soglia che il Papa passa è una soglia del mondo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“Io che insegnando al Papa letteratura e greco antico ho visto crescere un leader”
Il racconto di Juan Carlos Scannone, il teologo che ebbe Bergoglio come allievo, alla vigilia degli 80 anni di Francesco
PAOLO RODARI Rep 16 12 2016
CITTÀ DEL VATICANO. «Era ed è in grado di fare cose diverse nello stesso tempo e di farle bene. Più volte egli stesso ha raccontato di quella volta in cui dovette scrivere una lettera a un amico vescovo mentre stava mettendo i panni in lavatrice poco prima di dedicarsi con tutta la sua mente alla direzione spirituale». Il sacerdote gesuita Juan Carlos Scannone, forse il teologo argentino più conosciuto all’estero, è stato uno dei professori di Francesco. Nel 1957 insegnava greco e letteratura al seminario di Villa Devoto, dove Bergoglio mosse i suoi primi passi verso il sacerdozio. Il più grande esponente in vita della “teologia del popolo”, Scannone ricorda la sua amicizia col Papa in occasione degli 80 anni di quest’ultimo, domani.
Quando vi siete conosciuti?
«Conobbi Bergoglio quando era seminarista diocesano e io – tra i miei studi di filosofia e teologia – gli insegnai greco classico e letteratura nel seminario minore dell’arcidiocesi di Buenos Aires. Ma gli anni più importanti sono stati quelli in cui abbiamo vissuto assieme nella stessa comunità come sacerdoti gesuiti. Fu il mio rettore e provinciale. Aveva l’abitudine di leggere e difendere i miei scritti a chi gli chiedeva conto. Ho collaborato con lui per l’organizzazione del primo Congresso internazionale teologico che ebbe luogo in America Latina su L’evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo. Quella doppia problematica era sempre nel suo cuore».
Nel suo libro “Il Papa del popolo” pubblicato dalla Lev, ha ricordato di quando fece quattrocento chilometri per andare a incontrare un prete malato...
«Si parlò molto, soprattutto fra i giovani preti, di questo episodio. Quando era vescovo ausiliare di Buenos Aires, gli venne detto che un sacerdote del vicariato episcopale era malato e ricoverato da solo in un ospedale di Mar del Plata. Così partì per stare con lui prima che venisse trasportato a Buenos Aires».
Come era visto dai gesuiti in Argentina?
«Come per ogni persona di forte personalità, ha suscitato in alcuni una grande ammirazione ma in altri anche un certo rifiuto. Accadde anche quando era superiore. Egli stesso ha riconosciuto che a volte era stato un po’ autoritario. Non solo è un grande merito averlo riconosciuto, ma penso che ciò lo abbia aiutato a crescere nella virtù e nelle doti di governo».
Proteggeva la gente minacciata dal regime? Come faceva?
«Ha fatto ricorso a diversi mezzi per salvarla. So che fece più volte da tramite fra le autorità militari e i cappellani, e nel caso dei padri gesuiti Yorio e Jalics, che erano “scomparsi”, si adoperò per sapere quali armi avessero detenuto e dove e, poi, per il loro rilascio. Me lo rivelò lui stesso, data la mia amicizia e collaborazione intellettuale con Yorio. Dopo che venne eletto Papa, i sacerdoti hanno testimoniato che il loro vescovo, monsignor Enrique Angelelli, li aveva mandati a stare dai gesuiti quando Bergoglio era superiore, per proteggerli. E ancora, ci sono state persone che, essendo discendenti di italiani o di altra nazionalità dove vige lo ius sanguinis, venivano salvate attraverso i rispettivi consolati. O casi di persone innocenti che avrebbero potuto essere giustiziate per aver visto i torturatori in viso».
Francesco sta cercando di riformare la Chiesa. Secondo lei fin dove riuscirà a spingersi?
«Spesso dice che è meglio iniziare i processi in tempo piuttosto che occupare spazi di potere. Penso che stia iniziando una serie di processi di riforma che non controlla, ma che incoraggia, con la fede e la speranza che sono di Dio. Ha già compiuto passi che sono storicamente irreversibili».
È vero che Bergoglio è stato un leader fin da giovane?
«Credo che sia un leader nato, nel senso di una leadership evangelica, perché ha l’autorità di chi vive ciò che predica, lo spirito e criteri di discernimento per governare e guidare, il coraggio e la parresía e nello stesso tempo la prudenza di agire, il fiuto politico - che usa come pastore - di trasmettere la gioia del Vangelo ». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Gli 80 anni rivoluzionari di Francesco
Enzo Bianchi Busiarda 17 12 2016
«La nostra vita è di settant’anni, ottanta se ci sono le forze...», dice il salmo 90 che papa Francesco prega sovente nella liturgia delle ore e forse anche nella preghiera personale, con più insistenza perché ormai a questa tappa è giunto.
Lo constatiamo ogni giorno: Francesco è un uomo ancora forte, in buona salute, e per lui il popolo di Dio prega affinché possa ancora rendere evangelico il potere che è connesso al suo essere vescovo di Roma e pontefice.
In spirito di attenzione e di ascolto del suo magistero possiamo abbozzare una lettura di ciò che è mutato nella chiesa cattolica in questi tre anni e mezzo e delle attese che hanno trovato in papa Francesco motivo di accendersi.
Innanzitutto vorrei sottolineare il clima nuovo in cui questa lettura è possibile. Il cammino che ha preceduto e accompagnato i due sinodi dei vescovi, così come i ripetuti inviti di papa Francesco hanno reso più franca e trasparente la dialettica all’interno della chiesa: la vivacità di un’opinione pubblica nello spazio ecclesiale è tornata a essere non solo possibile ma anche auspicabile, come nella stagione inaugurata dall’annuncio del concilio Vaticano II e proseguita per tutto il suo svolgimento.
Anche l’eccessiva sovraesposizione dei movimenti ecclesiali, che avevano quasi monopolizzato la vena carismatica mai assente dalla storia, è stata ricondotta nell’alveo di una chiesa più ordinata, in una comunione più visibile e rappacificata, così che i movimenti possono ora offrire la loro testimonianza senza che ci sia il sospetto di un desiderio di occupare spazi o gestire potere. La chiesa è più che mai «popolo di Dio», espressione cara a papa Francesco, non solo per la sua matrice conciliare, ma perché capace di indicare la qualità «popolare», non elitaria della comunità cristiana.
Grazie anche a questo diverso approccio, è più facile cogliere uno dei tratti salienti di questo pontificato: il nuovo slancio conferito all’ecumenismo. Pareva stagnante, al punto che alcuni avevano parlato di «inverno ecumenico», ma papa Francesco, con gesti inattesi e audaci, più ancora che con parole, ha ridestato quel desiderio di unità che aveva accompagnato il tempo del post-concilio nella chiesa cattolica e, parallelamente, nella altre chiese. Si pensi al viaggio per incontrare la chiesa valdese a Torino, una chiesa sempre rimasta nel cono d’ombra dell’ecumenismo cattolico; alla «testardaggine» profetica ed efficace nel voler incontrare come fratello il patriarca di Mosca Kirill, raggiungendolo a Cuba; al viaggio a Lund per dire ai protestanti che Lutero, se è vero che ha prodotto una rottura con la chiesa cattolica, era tuttavia animato dalla passione per una chiesa più evangelica. Speriamo che ora non si usi più la parola «protestantizzazione» per designare negativamente ogni riforma che la chiesa cattolica intraprende. Nessun papa dopo Paolo VI ha osato quanto Francesco nell’andare incontro all’altro fratello cristiano, anche a costo di umiliare la propria persona purché il ministero petrino sia svolto come presidenza nella carità.
E, a riprova che la ricerca dell’unità visibile dei cristiani non contrasta affatto con la missione e l’annuncio del vangelo, il magistero di papa Francesco su alcuni aspetti decisivi della presenza cristiana nella società odierna - la custodia del creato, la pace, e le migrazioni - ha trovato condivisione e solidarietà anche da parte delle altre chiese. Si pensi alla visita all’isola di Lesbo, simbolo della tragedia dei migranti, assieme al patriarca ecumenico Bartholomeos e all’arcivescovo di Atene, ai ripetuti appelli contro il traffico di armi e di esseri umani, all’incessante mediazione nelle situazioni di conflitto - dalla Siria alla Colombia - alla denuncia della «terza guerra mondiale a puntate» o ancora alle risolute prese di posizione per la custodia del creato: sempre papa Francesco si è mosso e ha potuto parlare come latore di un messaggio di umanità rivolto a tutti, quella buona notizia evangelica che va al di là di ogni divisione confessionale e costruisce ponti anziché muri. Non a caso, proprio sulle tematiche dell’ecologia abbiamo assistito a una novità assoluta: un’enciclica papale che cita e valorizza il pensiero di un patriarca ecumenico e che viene presentata in Vaticano anche da un vescovo e teologo ortodosso.
Infine tutta la chiesa - sovente tentata di esercitare il ministero della condanna, tentata dall’intransigenza - è stata invitata, con l’anno della misericordia a suggello di due sinodi dei vescovi, a essere inclusiva e mai esclusiva, ad andare incontro a chi è nel peccato annunciandogli il perdono di Dio e affermando che oltre la legge c’è la misericordia. Fin dall’inizio del pontificato avevo scritto su queste colonne che avremmo avuto un papa della misericordia: così è stato ed è. Ed è significativo che proprio su questo atteggiamento si verifichino non solo critiche ma opposizioni dure da parte di quelli che il papa chiama «persone religiose ma rigide», «giuste ma insensibili», uomini della legge che spesso non sanno neppure riconoscere in se stessi ciò che rimproverano agli altri. La misericordia, sotto il pontificato di Francesco, non è solo tema di vita spirituale personale, ma è stile, prassi nei ecclesiale confronti di chi ha bisogno della misericordia di Dio, della chiesa, dei fratelli.
Ora, quali attese nutre il popolo di Dio ascoltando le parole di Francesco? Sono attese di riforma della chiesa «in capite et in membris». Sappiamo però che si parla di riforma della chiesa da almeno otto secoli e che la chiesa dovrebbe essere sempre in dinamica di riforma: ecclesia semper reformanda. Papa Francesco, è animato da questa intenzione e lo dichiara sovente, ma dovremmo essere consapevoli che più la chiesa si riforma secondo il primato del vangelo e più scatena le forze avverse che si rivolteranno contro di essa. Più vita secondo il vangelo significa più cristiani perseguitati nel mondo, più credenti osteggiati dagli stessi fratelli di fede, nella chiesa stessa. C’è un’ingenuità che temo possa portare solo a riforme, se non mondane, di semplice maquillage. Anche la stessa riforma della curia avverrà solo se il papa riuscirà a farla con la curia e la curia con il papa, perché altrimenti non sarà possibile operare mutamenti efficaci in una realtà così complessa e strutturata. Molti vescovi e semplici fedeli mi confidano: speriamo che il papa riformi poche cose essenziali, ma tali che non si possa più tornare indietro dopo di lui: è questo l’augurio per il suo ottantesimo compleanno.
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