Lettere ed estasi, dossier aperto
Come ha ricordato Ludovico Gatto nel suo Le grandi donne del Medioevo, «la storiografia più recente ha bandito vieti stereotipi per affrontare la questione delle donne con più obiettività», riferendosi ai rilanci della questione femminile medievale proposti da Duby, Pernoud, Skinner, Perrot, Bertini, Lazzari e altri/e; ma nel campo della letteratura mediolatina sono fiorite iniziative spesso poco conosciute anche alla medievistica professionale, come l’archivio digitale Epistolae, curato alla Columbia University da Joan Ferrante fino al 2014, che raccoglie centinaia di lettere scritte nel Medioevo da o per donne.
Se nel 1984 Katharina M. Wilson ospitava nella sua antologia Medieval Women Writers 15 autrici, nel 2011 un progetto presentato da Patrizia Stoppacci ai programmi di finanziamento della Commissione Europea e ancora inedito ne individuava circa 150 nel solo ambito latino, in un panorama che ovviamente restava a dominanza maschile – ma non molto diversamente da quanto avveniva nell’Illuminismo e ancora nel primo Novecento e, in ampie regioni e culture del mondo, ancora oggi.
Il cliché ha lasciato emergere dall’oscuramento dei luoghi comuni solo gigantesse del firmamento culturale come Rosvita di Gandersheim (X sec.), Ildegarde di Bingen, Eloisa, la filosofa amante e corrispondente di Abelardo (XII), e in campo francese Christine de Pizan. Da pochi mesi si può contare sulla traduzione italiana del trattato ginecologico di Trotula, salernitana dell’XI secolo. Ma per tre o quattro nomi che varcano la barriera dei pregiudizi, quanti restano e resteranno ignorati per forza d’inerzia?
Una di quelle che non è stato possibile oscurare è Caterina Benincasa, nata a Siena probabilmente nel 1347, ventiquattresima di venticinque figli e morta proprio a trentatre anni, nel 1380, dopo una vita intensissima di sofferenze, battaglie civili, religiose e politiche, esperienze estreme e slanci ideali grandiosi nella loro ambizione quanto ingenui nella loro base analitica, priva di una comprensione chiara dei meccanismi economici e di potere che stavano dietro le posizioni di papi e sovrani e che non potevano essere modificati solo sulla spinta di principi morali. Testimone impaurita di visioni cristiche fin da bambina, a quindici anni aveva deciso di fare voto di castità dopo la morte per parto della sorella Bonaventura, nome tragicamente antifrastico.
Osteggiata dalla famiglia per la sua vocazione (come accadeva spesso, fa notare Gatto, sia alle donne che agli uomini) e trattata come una pazza, si creò nel mutismo asociale dell’adolescenza una «cella» interiore che restò sempre il suo rifugio, anche quando i genitori cambiarono strategia concedendole una stanza personale per la meditazione e portandola a curarsi alle terme che oggi si chiamano Bagni Vignone.
Per esercitare la sua religiosità itinerante in forme almeno apparentemente regolari aderì alla confraternita femminile dei domenicani (le cosiddette Mantellate), veste bianca e mantello nero, la via più leggera e autonoma possibile per impegnarsi in un ordine, che non comportava vita di comunità né particolari obblighi formali.
La sua anoressia radicale (si alimentava di acqua e di un impasto di «erba» che spesso vomitava), la sua insonnia, le sue visioni cruente (col cuore di Cristo estratto dal suo corpo e trapiantato nel proprio, bevendone il sangue), il sospetto che nascondesse le stigmate e il suo carisma di guaritrice del corpo ma soprattutto dell’anima (con consigli e colloqui ripetuti fino alla risoluzione del problema) le crearono una fama di santità che non si limitò alla consolazione di marginali della sua città ma, dopo una visione in cui Cristo la invitava ad andare «fra la gente», si applicò allo scenario politico: prima attaccando aspramente la conflittualità delle fazioni comunali senesi, poi criticando il degrado della Chiesa, con l’intento di placarne la rissosità e favorire il ritorno del papato a Roma, garanzia di una più libera «internazionalità», e infine incoraggiando l’organizzazione di una crociata contro i Turchi, che non si realizzerà mai.
Talvolta il suo intervento di ambasciatrice era richiesto, ma più spesso era guardato con sospetto dalle autorità signorili o comunali a causa della sua asprezza e della fedeltà alla Chiesa, che era corpo sociale ma anche entità politica.
Tutte queste relazioni e i loro retroscena sono descritti con chiarezza e rigore da André Vauchez, uno dei massimi esperti di agiografia medievale, in Caterina da Siena Una mistica trasgressiva (Laterza «i Robinson / Letture», tr. L. Falaschi, pp. 228,
Questo non significa che non potesse scrivere perché donna: significa che, nel Medioevo come in altre epoche antiche e moderne, la scrittura epistolare era un’attività professionale anche quando gli autori erano maschi, e la delega della sua esecuzione non conseguiva da analfabetismo.
«Questa lettera, e un’altra ch’io vi mandai – confessa al suo consigliere spirituale e poi biografo Raimondo da Capua – ho scritte di mia mano in su l’Isola della Rocca, con molti sospiri e abbondanzia di lagrime… considerando la Providenzia … la quale … ha proveduto con darmi l’attitudine dello scrivere, acciocché discendendo dall’altezza, avessi un poco con chi sfogare il cuore, perché non scoppiasse». Addirittura ci sono testimonianze di suoi cancellieri che scrivevano contemporaneamente tre lettere diverse sotto dettatura simultanea, alternata a estasi improvvise, dell’instancabile Caterina. Si rivolse a papi, signori, re e prelati, comandanti militari e governanti locali, non sempre si sa con quale accoglienza – e qualche volta irruppe nelle loro assemblee, sempre ascoltata con rispetto e diffidenza, per far sentire il suo richiamo: ma qualunque fosse la reazione del destinatario, le copie che lei ne conservava avevano una circolazione secondaria che creava comunità di ascolto e propagazione efficaci quanto un sistema radio a consolidarne l’autorità magisteriale.
L’edizione di queste lettere, patrimonio prezioso e precoce della prosa nazionale, come dell’altra sua opera Dialogo della divina Provvidenza, è uno dei problemi insoluti della filologia italiana. L’Istituto di Studi Italiani per il Medioevo ha in corso da tempo un grande progetto di edizione critica, basato sui 55 manoscritti noti più altri 10 scoperti di recente, con individuazione di quelli risalenti alla mano di uno dei segretari di Caterina, Neri di Landoccio Pagliaresi. Ma si tratta di un’operazione scoraggiante e complessa anche per la difficoltà di concordare un metodo per operare scelte testuali in una lingua che era in formazione e non aveva ancora raggiunto uno standard grafico riconosciuto.
Grazie anche a queste lettere Caterina fu oggetto, da viva e dopo la morte, di un culto lento a crescere ma vivissimo, che ebbe i suoi punti di più strutturata irradiazione nelle biografie scritte e diffuse dal potente ordine domenicano, nelle traduzioni delle agiografie e del Dialogo in altre lingue vernacolari, nella canonizzazione del 1461 seguita da una serie di iniziative artistiche e monumentali, finché Pio IX ne fece la patrona secondaria di Roma, Tommaseo ne ripubblicò le lettere presentandola come uno dei grandi geni della lingua italiana, Mussolini la proclamò patrona d’Italia, Paolo VI dottore della Chiesa e poi Giovanni Paolo II patrona d’Europa insieme a santa Brigida di Svezia.
Di questa carriera travolgente quanto inattesa fa parte la realizzazione della cosiddetta Cappella della Testa, nella chiesa di San Domenico a Siena, allestita fra 1466 e 1475 per onorare la reliquia del capo di Caterina. Gli elementi di questa cappella creano un complesso simbolico di difficile decifrazione che diventa ora finalmente comprensibile grazie al volumetto di Gioachino Chiarini Il calice e lo specchio (Nerbini, pp. 143 con 63 tavole illustrate, euro 30,00).
I due punti su cui Chiarini getta una luce definitiva sono i personaggi nel sottarco del Sodoma, a lungo interpretati come profeti biblici o Padri della Chiesa e oggi decriptati come Aristotele e Platone, entrambi già raffigurati sulla facciata del duomo senese e pochi anni dopo, come si sa, nella Scuola di Atene di Raffaello, al cui fianco il Sodoma compare nello stesso dipinto. L’altro punto è la proliferazione, sia in questo affresco che nella figurazione pavimentale, di simboli della cultura alchemica, conosciuti dalla traduzione latina del Corpus Hermeticum dovuta a Marsilio Ficino (1473) e da opere ermetiche umanistiche, e già attestati nel Duomo. Il pavimento rappresenta una figura umana – ispirata al Torso Belvedere – in mezzo ad animali sullo sfondo di una foresta di alberi da frutto (a grappoli di tre) in asse con sole e luna, figura nella quale Berenson aveva riconosciuto Orfeo e invece Chiarini individua l’essere umano primigenio, adamitico, di sessualità ancora indefinita, che impugna uno specchio simbolo dell’anima, con accanto un cratere, immagine del fonte battesimale e del calice della passione.
Le quattro fiere vanno lette come i quattro gradi dell’opera alchemica (nero, bianco, giallo e rosso) e il pellicano, uccello che si ferisce per nutrire i piccoli, come Cristo. La cappella della Testa diventa così fusione sincretica e armonica, nelle intenzioni, di culture e sottoculture classiche, bibliche ed esoteriche con cui l’umanesimo reinterpreta e forse tradisce il drammatico sogno medievale di Caterina e la sfuggente esperienza della sua fragile radicalità.
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