La forma-racconto sembrerebbe la più lontana e anzi la più
refrattaria alla scrittura di Paolo Volponi o almeno a quanto di essa
rimane nel senso comune dei lettori: tanto è veloce, imbastita e sempre
bidimensionale la linearità del racconto (anche quando si voglia non
esplicitamente narrativo) quanto è invece satura, tutta sbalzi e
asperità tattili, profilate in terza dimensione, una pagina che fu detta
in ogni senso massimalista, come sanno i lettori specialmente di Corporale (’74) e Le mosche del capitale
(’89), i due apici, e in effetti due romanzi-romanzi, della produzione
di Volponi. Che non perviene al romanzo direttamente dal racconto e cioè
alla maniera tradizionale dei novecenteschi (si pensi a Tozzi, a
Fenoglio, allo stesso Gadda) ma ci arriva per via endogena, muovendo da
un immaginario epico-lirico che si è strutturato ab origine senza
assoggettarsi alle dominanti della sua generazione, prima l’ermetismo e
poi il neorealismo: così un poeta laterale e terrigeno (più che altro
all’inizio un incisore a sbalzo, un prosecutore di Luigi Bartolini)
passa in pochi anni, con la mediazione decisiva di Pier Paolo Pasolini e
del gruppo di «Officina», da Le porte dell’Appennino (’60), che ne
accoglie l’intero antefatto poetico, all’esordio deflagrante nel romanzo
che è Memoriale (’62).
Che la forma-racconto fosse innanzitutto per Volponi una prova, un
esito ancora parziale o comunque qualcosa di potenzialmente ascrivibile a
un romanzo già in gestazione ne è adesso testimonianza l’uscita dei Racconti
(Einaudi, pp. XVIII+115, € 17.50) nell’ottima cura del suo maggiore
specialista, Emanuele Zinato, un volume che si affianca alla riproposta
integrale nei «Tascabili» Einaudi dello scrittore urbinate grazie a un
editor di particolare sensibilità quale Mauro Bersani. Insieme a tre
tranches giovanili degli anni quaranta, di recente rinvenute da Caterina
Volponi fra le carte del padre e ora collocate in appendice, quelli
pubblicati sono nove racconti editi per lo più in riviste, cartelle
d’arte o volumi collettanei databili fra il 1965 e l’’85 e dunque nel
baricentro della sua produzione.
Inevitabilmente diseguali nelle dimensioni e nel passo (si va da
«Annibale Rama», ’65, storia di un Don Chisciotte di provincia alle
prese con la neonata civiltà delle macchine ed è quasi una partenogenesi
da La macchina mondiale, fino a «Una suora», ‘84, in cui riesplode
l’animalità selvaggia e salvifica che ha appena abitato la favola di
bestie parlanti Il pianeta irritabile, ’78) lo stile vi si mantiene
sempre ad alta temperatura come segnala da un lato il frammento del 1982
«Tordo balordo hai voluto morire», ancora sul tema della animalità
reietta/indomabile, e dall’altro lo stupendo «Accingersi all’impresa»
(’68), storia di un antiquario che reagisce al proprio fallimento
sentimentale e professionale alimentando il fuoco di un’utopia che lo
mette sulle tracce dei «rami» originali del Canaletto (quelli a suo
tempo utilizzati dal leggendario incisore Brustolon), dieci pagine dove
sfavilla tutta quanta la forza visionaria della scrittura di Volponi,
fra bitumi caravaggeschi e smalti preziosi à la Federico Barocci,
maestro urbinate da lui prediletto, e dove la sagacia dell’incallito e
vizioso collezionista che fu in vita sua lo scrittore urbinate concede
l’onore delle armi allo stile smagliante di Roberto Longhi, da lui non
meno prediletto.
Ma forse l’addendo più prezioso è il racconto intitolato «Iride», il
cui destino si annuncia in questo incipit folgorante: «Le ragazze sole
non si arrendono se hanno una coscienza politica». C’è Milano nei pieni
anni ottanta, al culmine del cosiddetto riflusso, e l’interno domestico
di una giovane sindacalista di estrazione operaia, una che non ha
bisogno di proclamarlo ma sa che non ha mollato, che non si è arresa
alle ipoteche di un benessere illusorio e fugace né, tanto meno, è
passata dall’altra parte.
«Iride» è il ritratto di una giovane donna consapevole di sé e del
proprio destino, viva nel corpo e nella mente, perfettamente
indipendente pure se mai è venuta meno al legame sociale che le dà
coscienza del suo esistere come della sua funzione di militante di base.
Potrebbe sembrare, «Iride», un perfetto cameo ed è invece, alla tipica
maniera volponiana, un pannello intermedio che tale è rimasto. Scritto
alla metà degli anni ottanta, nel pieno della redazione di Le mosche del capitale,
avrebbe dovuto confluire nel romanzo della sconfitta proletaria che
Volponi aveva concepito in parallelo con quello, direttamente
autobiografico, della resa manageriale agli spiriti animali del
capitalismo ormai globalizzato: come è noto, i due romanzi, quello del
manager-poeta Bruto Saraccini e quello dell’operaio meridionale Tecraso,
vennero riuniti e per così dire incrociati nelle Mosche da cui infine
le pagine di «Iride», pari a molte altre, esularono.
Scrive, al riguardo, Zinato: «Il lettore assume il punto di vista e i
ricettori corporei di Iride Grimonti, una giovane operaia autodidatta
che si identifica con Gramsci Tecraso, licenziato, finisce ingiustamente
in carcere: Iride legge, discute, pensa in un mondo dominato dalla
estetizzazione diffusa e dalla mercificazione dei corpi: lo sfondo è
quello dei primi anni Ottanta, in cui le tredicenni ‘Non sognano tanto
di scopare quanto di apparire e di ballare sexi come le stelle della
tv’. Il romanzo della sconfitta operaia di cui il racconto «Iride» è una
importante porzione, si poneva dunque il compito di misurare, nelle
forme dell’invenzione narrativa, i prezzi pagati per far sì che, nel
Paese con il Partito comunista più forte dell’Occidente e con la più
forte combattività sociale, si fosse potuti passare repentinamente dalla
critica del capitalismo alla più supina, euforica accettazione delle
sue regole e delle sue compatibilità».
Scritto in poche pagine, dense e tese, il romanzo di Iride può dirsi già
virtualmente compiuto e Iride, a sua volta, può risultare di scorcio
uno dei grandi personaggi volponiani, segnata anche lei dallo stigma che
sempre ne fa dei Don Chisciotte al cospetto di un mondo ostile e armato
fino ai denti. Pari a tutti costoro, la mitezza di Iride cova infatti
un risentimento antico, una rabbia tellurica, mentre la sua normalità
non può che essere la stessa delle creature ferite una volta per sempre
nel corpo e nello spirito, vale a dire la normalità implacabile degli
esseri non-riconciliati.
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