Donald J. Trump Giornale
- Sab, 21/01/2017
Trump
è stato semplicemente Donald Trump. Diretto, chiaro, partigiano. Nessun
cambio di strategia e di tono: è stato un discorso ultra-autarchico
Giuseppe De Bellis Giornale
- Sab, 21/01/2017
Ecco l’uomo forte
American Psycho. I
democratici avevano vinto il biglietto della lotteria trovando un
candidato come Obama nel 2008 e hanno avuto una seconda possibilità con
Bernie Sanders nel 2016: le hanno sprecate entrambe. Il prezzo da pagare
sarà molto alto, in particolare per chi aveva creduto in loro: i
giovani, le minoranze, gli immigrati. Aspettiamoci il peggio
Fabrizio Tonello Manifesto 21.1.2017, 23:59
In un libro scritto esattamente vent’anni fa, Richard Rorty
descriveva le fratture che già allora attraversavano la società
americana e le loro conseguenze politiche con la precisione del filosofo
e la sicurezza del profeta: «Gli iscritti ai sindacati e i lavoratori
non organizzati e non qualificati si renderanno conto prima o poi che il
loro governo non sta nemmeno cercando di impedire ai salari di
sprofondare, né di ostacolare il trasferimento all’estero dei posti di
lavoro. Nello stesso momento, si renderanno conto che colletti bianchi
che vivono nei sobborghi residenziali – loro stessi terrorizzati dalla
possibilità di essere eliminati- non si lasceranno tassare per fornire
servizi sociali a qualcun altro. A quel punto, qualcosa si romperà.
L’elettorato che non vive nei sobborghi residenziali deciderà che il
sistema politico è fallito e comincerà a guardarsi intorno per trovare
un Uomo Forte da votare. Qualcuno disposto a promettere che, una volta
eletto, non saranno più i burocrati compiaciuti, gli avvocati
imbroglioni, gli strapagati venditori di titoli, o i professori
postmoderni a dettare legge. Una volta che l’Uomo Forte si insedierà,
nessuno può prevedere cosa accadrà».
Ieri alle 12, ora della costa orientale, Donald Trump è arrivato.
Eletto da una minoranza del Paese, sulla base di promesse impossibili,
di minacce truculente, di falsità evidenti. I lavoratori americani,
vittime di 40 anni di stagnazione dei salari, hanno deciso che nulla
potrebbe essere peggio della sorte che gli è stata riservata da Clinton,
Bush e Obama, e hanno deciso di tentare la sorte con l’outsider. Con il
palazzinaro che promette di deportare 11 milioni di immigrati non in
regola con i documenti e di costruire un muro alla frontiera con il
Messico. Oltre a tagliare le tasse dei milionari e togliere l’assistenza
sanitaria a 18 milioni di persone, naturalmente. Ora nessuno può dire
cosa accadrà, soprattutto con un personaggio ombroso e imprevedibile
come Trump, ma a Washington c’è di nuovo un presidente con una
maggioranza del suo stesso partito in Congresso, qualcosa che c’è stato
solo per otto anni degli ultimi 35 anni e ha contribuito non poco alla
sensazione di un «sistema politico fallito».
I repubblicani hanno tutto il potere in mano adesso e intendono
conservarlo a qualsiasi costo, insediando rapidamente un governo di
milionari e nominando uno dei loro come giudice alla Corte Suprema, dove
c’è un seggio vacante da ormai un anno.
Possono anche guardare con tranquillità alle elezioni di medio
termine del 2018 perché alla Camera la manipolazione delle
circoscrizioni garantisce loro la maggioranza pur prendendo
sostanzialmente meno voti dei democratici. Al Senato il caso vuole che
nel 2018 siano in scadenza almeno cinque senatori democratici di Stati
dove Trump ha stravinto. È quindi probabile che la ristretta maggioranza
repubblicana di oggi (52 seggi contro 48) tra due anni si allarghi
ulteriormente. Naturalmente, potrebbe accadere il contrario: una
presidenza Trump debole, vittima di molteplici scandali legati ai
conflitti di interessi, ai rapporti con Putin, alle violazioni etiche
dei suoi collaboratori e dei parlamentari repubblicani.
Un’amministrazione che non si salverebbe a colpi di tweet, indebolita
dalla feroce ostilità degli apparati di Washington, che non perdonano a
Trump gli insulti in campagna elettorale, né l’indifferenza del nuovo
presidente verso le loro tradizionali priorità geopolitiche da guerra
fredda.
Può essere, ma non c’è da sperarci. Per combattere un presidente
bonapartista occorre innanzi tutto un’opposizione determinata, un
partito e un leader che uniscano quella maggioranza di americani che non
volevano Trump presidente. Ed è questo che manca: mai come adesso il
partito democratico è apparso senza spina dorsale, senza idee, senza
carisma, uno spettro ben rappresentato dalle facce terree e segnate
della coppia Clinton, ieri. Non sarà l’elegante Obama a riaprire il
dialogo con i lavoratori manuali bianchi, visto che in otto anni di
presidenza non ha fatto nulla per migliorare la loro condizione, se non
varare una riforma sanitaria originariamente concepita dai repubblicani e
sperimentata in Massachusetts dal suo avversario del 2012, Mitt Romney.
Una riforma basata sull’idea di sussidiare l’acquisto di assicurazioni
sanitarie private: basterà quindi eliminare i sussidi, come il Congresso
ha già iniziato a fare, per rendere inevitabile il crollo dell’intero
edificio nel giro di poche settimane.
I democratici avevano vinto il biglietto della lotteria trovando un
candidato come Obama nel 2008 e hanno avuto una seconda possibilità con
Bernie Sanders nel 2016: le hanno sprecate entrambe. Il prezzo da pagare
sarà molto alto, in particolare per chi aveva creduto in loro: i
giovani, le minoranze, gli immigrati. Aspettiamoci il peggio.
Il gentismo del presidente Trump: «Assumete americani, comprate americano»
American Psycho. Cerimonia
di insediamento a Washington. Donald ha giurato e ha ribadito la sua
divisione tra «establishment» e «popolo». «Da questa giornata il potere
torna al popolo e ci saranno due regole da seguire: comprate americano
e assumete americano»
Simone Pieranni Manifesto 21.1.2017, 23:59
Si dice che abbia voluto scrivere da solo il suo discorso e
probabilmente è andata così. Dopo aver giurato sulla Bibbia, al termine
della consueta cerimonia di insediamento, a tratti una sfilata di moda,
Donald Trump ha effettuato il suo discorso di insediamento a Washington,
distillando in una decina di minuti tutto il suo pensiero. Un
«gentismo» – o «populismo» – teso a parlare soprattutto al suo
elettorato, a ribadire una divisione, netta e a tratti spettrale, tra
l’establishment, di cui pure Trump ha fatto parte e di cui ha colorato
la sua futura amministrazione, e il «popolo».
PRIMA DEL SUO DISCORSO una Washington tetra e
uggiosa (è iniziato a piovigginare proprio dopo le prime parole del neo
presidente) aveva assistito alla lunga cerimonia: spostamenti,
attenzione ai particolari (la cravatta rossa di Donald, «la sua
preferita» secondo i commentatori del Washington Post) il vestito blu di
Melania, il volto equivoco (imbronciato, direbbero i maligni) di
Michelle Obama, una Hillary Clinton che pareva ancora sotto shock per il
risultato dello scorso novembre, un Bill Clinton inspiegabilmente
allegro. Poi tutti sul palco, per ascoltare il nuove presidente.
NELLE PRIME VENTI PAROLE pronunciate da Trump, la
parola «people» è risuonata almeno tre volte, per diventare poi una
sorta di ritornello durante tutto il discorso. Riferimenti ai
lavoratori, alle famiglie, ai confini, ai sogni: Donald ha ricordato la
benedizione di dio, il destino e il sangue patriottico di ogni
americano, senza distinzioni, invocando la volontà di far tornare gli
Usa ai propri fasti, dopo «aver arricchito il mondo».
È SU QUESTO SENTIMENTO di rivincita sociale da parte
degli sconfitti della globalizzazione che Donald Trump ha voluto
segnare il punto di inizio della sua avventura presidenziale. Dopo aver
ringraziato Obama, ha effettuato un discorso poco conciliante, acceso
nei toni e alla ricerca della conferma del suo soggetto sociale
preferito: la middle class e i lavoratori impoveriti da questo
ciclo economico. Poco conta che poi i responsabili di questo fenomeno
siederanno nella stanza dei bottoni: a Trump interessa proseguire il suo
discorso propagandistico perché la sua presidenza sarà una campagna
elettorale permanente, un continuo ripetere slogan. «Non sarete mai più
ignorati la vostra voce, le vostre speranze, i vostri sogni,
confluiranno nel destino americano». Così, in un passaggio del suo
discorso inaugurale, Donald Trump si è rivolto direttamente a «ogni
americano».
«RIAVREMO INDIETRO il nostro lavoro, i nostri
confini, il nostro futuro» perché «da oggi il potere torna al popolo e
ci saranno due regole da seguire: comprate americano e assumete
americano». Non solo perché l’America – per quanto possa dispiacere a
Donald – non è da sola, bisogna pur ammetterlo, quindi «Cercheremo
l’amicizia con le altri nazioni del mondo, ma lo faremo con la
convinzione che è diritto di tutte le nazioni mettere i propri interessi
per primi – ha detto il nuovo presidente degli Stati uniti – Non
cercheremo di imporre il nostro sistema di vita su nessuno, ma piuttosto
lasceremo che brilli come un esempio da seguire per tutti».
NEL FRATTEMPO C’È L’ISIS, che in campagna elettorale
Donald Trump ha considerato più volte una creatura di Obama e Hillary
Clinton. Presenti i due, Donald ha glissato sulle origini del sedicente
stato islamico, per concentrarsi sul da farsi: «Sconfiggere l’Isis e i
gruppi di terrorismo islamico sarà la nostra priorità». Come? Semplice:
«Lavoreremo con i partner internazionali per tagliare i fondi ai gruppi
terroristici, e ci impegneremo in una cyberguerra per distruggere e
disabilitare la propaganda, nel perseguire una politica estera basata
sugli interessi americani, ricorreremo alla diplomazia. Il mondo deve
sapere che non andiamo all’estero in cerca di nemici». E poi la tirata
finale, come in uno show ben calibrato: «A tutti gli americani di tutte
le città, da oceano a oceano: non verrete più ignorati. le vostre voci,
le vostre speranze, i vostri sogni e le aspettative realizzeranno il
sogno americano e ci guideranno in questo percorso. Renderemo questo
paese prospero, sicuro, grande, grandioso. Dio benedica voi e gli Stati
uniti d’America».
Bikers, operai e immigrati alla conquista di Washington
Il magnate parla pochi minuti seminando entusiasmo nella piazza A qualche isolato di distanza la sfida dei no global: scontri e 95 arresti
Gianni Riotta Busiarda 21 1 2017
La prima inaugurazione di un presidente americano si tenne a New York, non Washington, nel 1789, organizzata per dimostrare ai cittadini che, lasciando la monarchia per la repubblica e Re Giorgio per George Washington, non avevano perduto nulla. Il presidente, allora come oggi, è un Re Democratico, e il cancelliere del tempo, Livingstone, gridò come a Buckingham Palace «Lunga Vita al Presidente!».
Ieri, con il giuramento di Donald Trump neo presidente repubblicano, il passato è tornato come un lampo, su una Washington dal cielo coperto ma non fredda. Trump, da vero monarca, ha parlato direttamente al suo popolo, proclamando che non si trattava di un «passaggio di poteri da un partito all’altro», ma del «ritorno del potere al popolo». Un messaggio populista, diranno gli analisti colti, ma il «popolo», venuto con 400 autobus, guidando, in treno, a sentire l’amato leader, applaude con gusto, fischiando il senatore democratico Schumer, incauto a citare gli emigranti. 63 milioni di americani hanno votato Trump e il vice Mike Pence, la loro scommessa ha vinto a sorpresa e Trump non li ha delusi.
Smentendo chi giurava su un discorso da statista moderato, Trump ha parlato pochi minuti, seminando entusiasmo nella piazza, e tra media, tv, blog conservatori. «America First!», ha gridato due volte, e «America First!» non è slogan arrabbiato della nuova destra Alt-Right del neo consigliere Bannon, è l’ancestrale grido di guerra della destra protezionista, che proponeva negli Anni 30 di isolarsi dal mondo. «Comprare americano, assumere americani», lo slogan di Trump presidente suona come musica per Alexi Dogson e la sua ragazza, venuti dal Tennessee. Sognano di aprire un negozio, parlano di industrie chiuse, parlottano con Mandy Connally, uno dei bikers con le rombanti Harley Davidson, «saremo il tuo muro di carne contro gli anarchici», gridano a Trump. Quando parte qualche fischio, un vecchio biker si inchina e mostra le terga ai contestatori. Gli scontri violenti degli anarchici, una decina di isolati dal palco, negozi devastati, feriti, 95 arresti, la polizia a sparare granate a «concussione», cementano solo il favore della base trumpista contro «quelli là, tutti pagati dal finanziere Soros». I duri vengono insultati, «Avete perso, Hillary ha perso», ma non hanno certo votato, sono estremisti no global. Se le danno con qualche biker e la polizia, ignari che la loro ricetta anti mercato e Trump non sono poi così diverse.
Un’intera famiglia asiatica è venuta ad applaudire Trump, sono i Hwang, mamma, papà e bimbo con bandierina «Trump aiuta chi è legale, taglia regole e tasse, restituisce il potere alla brava gente». Se il cronista obietta, «potere popolare» con un presidente figlio di un milionario, che vive a Fifth Avenue e ha un’amministrazione targata dalla finanziaria Goldman Sachs, ecco il miracolo del populismo.
Alexi, i Wang, il biker che parla col sedere, Mandy, tutti i trumpisti con cui ieri ho bevuto il caffè e scherzato su bandiere Make America Great Again cucite in Messico e Indonesia, ignorano realtà, obiezioni, numeri. Affascinati dal grido rauco di Trump, gli si affidano contro un’economia che non cresce abbastanza, robot in fabbrica, Paesi poveri che diventano ricchi. Re Trump è la macchina del tempo, li riporterà al 1945, quando, padrona del mondo, l’America produceva il 50% del Pil globale.
Trump è stato bravissimo a convocare una cerimonia in cui l’odiato mondo dei Vip di Obama&Hillary, cantanti, attori, la aborrita Hollywood, sono cancellati. Ai balli di ieri notte, nella sfilata, in piazza, passavano band sconosciute, ballavano le modeste Rockettes del Radio City Music Hall, suonavano bande rurali, dalla Olivet Nazarene University di Bourbonnais, Illinois, alle Mid Americans Cowgirls Rodeo Drill Team di New Buffalo, Michigan, o la Rural Tractor Brigade. Niente Harvard University, Meryl Streep, Bruce Springsteen, meglio cow girls, Harley Davidson, rodeo.
Bill Kristol, repubblicano direttore del foglio conservatore Standard, lamenta che dal discorso di Trump manchino le parole «libertà, uguaglianza, costituzione…» ma i trumpisti dei 400 bus se ne infischiano, felici che l’America non parli più di diritti a Cina e Russia, meglio il negozio sotto casa per Alexi. Che «assumere americani» possa non essere una buona idea, un terzo delle aziende di Silicon Valley - Apple compresa - sono fondate da famiglie di emigranti, che la forza dell’America sia globale, non locale, non li preoccupa. La vogliono «prima» anche a costo di restare sola. Con straordinaria sagacia Trump ha venduto loro questo sogno. Tornate a casa le Mid Americans Cowgirls Rodeo Drill Team, si tratta di vedere se davvero, e come, carbone e catene di montaggio possono tornare a funzionare nell’era digitale. Perché si affascina da Re, ma si governa da Presidente.
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Trump: “Da oggi il potere tornaagli americani”
Il presidente giura a mezzogiorno e delinea la sua visione in 16 minuti: riporteremo lavoro e sogni, vinceremo come mai prima
Paolo Mastrolilli Busiarda
«L’America tornerà a vincere come mai prima», e da questo successo nascerà «un nuovo orgoglio nazionale, che curerà le nostre divisioni». È la scommessa su cui Donald Trump ha giocato la sua presidenza, durante l’Inauguration di ieri.
Nessun passo indietro rispetto ai toni duri della campagna elettorale, nessuna concessione agli avversari, piuttosto la convinzione che la sua ricetta «rifarà grande l’America», e questo convincerà anche chi ieri protestava nelle strade di Washington a unirsi dietro la sua leadership.
Sotto una pioggerella che secondo il reverendo Franklin Graham era «il segno della benedizione di Dio», Trump ha cominciato il discorso di appena 16 minuti ringraziando gli Obama. E questa è stata l’ultima mano tesa, tanto agli avversari quanto ai compagni del Partito repubblicano, a parte il ringraziamento a Hillary Clinton per essere venuta, fatto però solo durante il brindisi del successivo pranzo ufficiale. Il nuovo Presidente, infatti, è andato subito all’attacco dell’establishment, che lo ha avversato fino all’ultimo: «La cerimonia di oggi ha un significato speciale, perché non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra, ma lo stiamo restituendo da Washington a voi, il popolo». Quindi, ha affondato il colpo, accusando in pratica i quattro ex Presidenti e tutti i politici presenti sul palco di aver tradito lo spirito della democrazia americana: «Troppo a lungo un piccolo gruppo nella nostra capitale ha raccolto i frutti del governo, mentre la gente ha sopportato i costi. I politici hanno prosperato, ma i posti di lavoro sono andati via e la fabbriche hanno chiuso. L’establishment ha protetto se stesso, ma non i cittadini del nostro Paese. Tutto ciò cambia, qui e ora. I dimenticati non saranno più ignorati».
Parole di un leader populista, che servivano insieme a spiegare la sua sorprendente vittoria di novembre, e ringraziare gli elettori della classe media e bassa che l’hanno resa possibile. «Abbiamo creato un movimento senza precedenti, basato su questo principio: una nazione esiste per servire i suoi cittadini».
Trump ha dipinto un quadro quasi apocalittico dell’America: «Madri e bambini ridotti in povertà nelle nostre città, fabbriche chiuse, scuole che non insegnano, criminalità e droga che uccidono. Ma questa carneficina - ha promesso - finisce qui e ora».
Il Presidente, poi, ha allargato lo sguardo al mondo: «Per troppo tempo abbiamo arricchito le industrie straniere a spese di quelle americane, abbiamo aiutato le forze armate degli altri e ridotto le nostre, difeso i confini degli altri e rifiutato di proteggere i nostri. Oggi emaniamo un nuovo decreto, che verrà ascoltato in ogni città, capitale straniera, centro di potere. Da oggi in poi, una nuova visione governerà la nostra terra. Da oggi in poi sarà America First». L’America prima di tutto, uno slogan isolazionista, che secondo i suoi critici rivela l’intenzione di abdicare alle responsabilità internazionali della superpotenza, che si considera leader del mondo libero: «Ogni decisone verrà basata sull’interesse dei lavoratori e le famiglie americane. Non imporremo il nostro modello, lo lasceremo brillare come esempio per tutti. Proteggeremo i confini dal saccheggio che gli altri Paesi fanno dei nostri prodotti: rubano le nostre compagnie, distruggono i nostri posti di lavoro. La protezione porterà prosperità e forza. Riporteremo lavoro e sogni». Trump non è sceso nei dettagli di come realizzerà questi obiettivi, ma ha puntato molto sulla ricostruzione delle infrastrutture nazionali: «Seguiremo due semplici regole: compra e assumi americano».
Sul piano delle relazioni internazionali «cercheremo amicizia e buona volontà con le nazioni del mondo, sapendo che ognuno ha il diritto di mettere i propri interessi al primo posto. Rinforzeremo vecchie alleanze e ne formeremo nuove, uniremo il mondo civilizzato contro il terrorismo islamico radicale, che sradicheremo completamente dalla faccia della Terra». Terrorismo islamico, il termine che Obama si rifiutava di usare, per evitare il conflitto tra le civiltà profetizzato da Samuel Huntington. Trump ha concluso i suoi 16 minuti per cambiare il mondo, invitando gli americani a «pensare in grande, a non accettare più i politici che parlano solo e non combinano nulla». Nascerà il «nuovo orgoglio nazionale», riunificherà un Paese molto diviso: «Rifaremo l’America forte, ricca, orgogliosa, sicura. E sì, insieme rifaremo grande l’America».
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Kaplan: “Inevitabile l’accordo con la Russia per sconfiggere l’Isis”
L’analista Usa prudente sulle prime possibili mosse “Un errore abbandonare la Ue, ha i nostri valori”
Paolo Mastrolilli Busiarda
L’accordo con la Russia sulla Siria è inevitabile. Tutto il resto non si farà, o non andrebbe fatto. È il giudizio dello studioso Robert Kaplan, sulla politica estera di Trump.
Perché scommette sull’intesa con la Siria?
«Il ruolo di Mosca è un fatto compiuto, e cacciare Assad è un’illusione. Bisognerà lavorare insieme per eliminare l’Isis».
E la ripresa generale delle relazioni con la Russia?
«Ci sarà un’intesa, ma il Cremlino non la rispetterà. Continuerà a usare mezzi sovversivi, per destabilizzare le democrazie baltiche, l’Ucraina, e altri paesi dell’Europa orientale».
Come risponderà l’amministrazione Trump?
«Obama aveva ritirato due brigate dall’Europa, ma poi il capo del Pentagono Carter ha riportato i nostri militari nel Continente. Bisogna continuare a farlo, perché Mosca ascolta solo la forza».
La Nato è obsoleta?
«Assolutamente no. Svolge una funzione essenziale per la sicurezza dell’Europa e gli interessi americani».
E l’Unione Europea verrà abbandonata?
«Sarebbe un grave errore. La Ue ha bisogno di riforme, ma è molto più che commerci e moneta unica. Promuove valori e visione del mondo uguali ai nostri, ci conviene difenderla».
Cambierà la politica di «una Cina»?
«Ha consentito a Taiwan di prosperare, a noi di aver un rapporto civile con Pechino. Va conservata, anche perché in quella zona dovremo affrontare l’intrattabile problema di Pyongyang».
Trump ha detto che l’Onu è un club di gente che vuole divertirsi.
«L’America usa l’Onu a suo favore da decenni, se non ci fosse dovremmo crearlo. I risultati concreti sono pochi, ma questo è colpa della complessità geopolitca, non dell’organizzazione».
Sulla Libia ci sarà l’accordo con Putin e Haftar?
«Dobbiamo sfruttare ogni intesa possibile per stabilizzare il Paese, ma abbandonare il governo Sarraj sarebbe sbagliato».
Trump vuole spostare l’ambasciata in Israele a Gerusalemme.
«Mossa irresponsabile. Andrà fatta, ma come completamento di un’intesa complessiva, che ancora non esiste».
L’accordo nucleare con l’Iran va cancellato?
«No, mantenuto com’è. Risolve un problema per una decina di anni, rimettere le sanzioni sarebbe impossibile, perché gli europei non ci seguirebbero. Possiamo essere duri con l’Iran su altri temi, come il programma missilistico».
Trump ha minacciato di revocare l’apertura a Cuba.
«Errore, è l’unica possibilità di cambiarla».
L’impressione generale è che Trump voglia ristabilire i rapporti di forza fra gli stati, al posto delle regole multilaterali.
«É una politica che si poteva fare prima della II Guerra Mondiale, quando per andare dagli Usa all’Europa ci volevano cinque giorni di navigazione. Ora non è più realistica».
Questo vale anche per la globalizzazione?
«É in corso una reazione populista, ma si tratta solo di una pausa, non la fine del fenomeno. La globalizzazione continuerà».
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WASHINGTON LA SVOLTA di quel 20 gennaio 2017, quando l’America rinunciò a essere la “luminosa città sulla collina” di Kennedy e Reagan per diventare la fortezza del “Nazionaltrumpismo”, si mostrò con lui e da lui: nell’uomo che interpreta e incarna nel viso, nei gesti, nella mimica, nella capigliatura, prima che nelle parole, la diversità inquietante di questa nuova America.
Si era aperta con un gesto gentile quanto sorprendente quella giornata, più da cena tra famiglie borghesi che da cambio dei sommi poteri, con un pacco regalo nella leggendaria scatola azzurra di Tiffany portato da Melania Trump a Michelle sulla soglia della Casa Bianca. Pacco che la First Lady uscente ha maneggiato con imbarazzo, palleggiandolo da un fianco all’altro senza sapere che farne, prima di scaricarlo a un Marine di servizio. Era stato un piccolo balletto gentile, a colori opposti, la Trump nell’azzurro dei Democratici, la Obama nel rosso dei Repubblicani, increspato dallo sguardo ingrugnito del marito Donald, chiuso in un’espressione corrucciata che avrebbe portato con sé fin sulla terrazza del Campidoglio, per il giuramento e il ruvido discorso di insediamento.
Da attore qual è, da abilissimo imbonitore che ha fatto dell’immagine e del “brand” la base della propria ricchezza e ora del successo politico, la scelta della maschera non è mai casuale né spontanea. Trump l’aveva indossata stringendo la mano a un Obama che al contrario di lui sorrideva con l’aria sollevata di chi finalmente torna libero dalla sontuosa gabbia politica, l’aveva fatta scendere dalle portiere della “Bestia”, la Cadillac corazzata e armata costata 1,5 milioni di dollari in “optional” alla General Motors, l’aveva portata nelle viscere del Campidoglio, per i solenni e funerei corridori e sottopassaggi che lo avevano condotto, su e giù per scale e scalette, fino alla balconata all’aperto, ma riscaldata da stufette mimetizzate, per l’incoronazione e la prima omelia.
Donald Trump, che esibisce una fittizia, popolaresca spontaneità giovanlista negli spruzzi incontinenti di tweet, non improvvisa niente, calcola il profitto e le perdite che ogni gesto può generare. Per segnalare la propria diversità, il suo “non essere” Washington nel tempo in cui impazza la moda del “non essere”, aveva violato una delle leggi ferree d’abbigliamento, che impongono a ogni politico, dal sindaco di un paese dell’Illinois al presidente: la giacca perennemente abbottonata. L’ha tenuta rigorsamente sbottonata, come il cappotto, esibendo la interminabile cravattona rossa sulla pancetta che ha, essendo sovrappeso e allergico all’esercizio fisico, nonostante il lavoro di sarti costosi e sapienti, aperta nella promenade dalla “Bestia” al discorso per la folla, numerosa, ma ben lontana da quel record obamiano di un milione e 800 mila persone che aveva garantito di polverizzare. Era un’ostentazione subliminale di trasgressività, come ostentata era la sua improvvisa conversione mistica, con ben tre religiosi, cattolici e protestanti, a offrire letture sacre e due Bibbie per giurare, quella di Abraham Lincoln e quella regalatagli dalla madre da ragazzo, come se una sola non contenesse abbastanza Verbo per dare garanzie. Il tutto accompagnato dall’inno preferito, “America The Beautiful” intonato dal coro dei Mormoni. Una devozione posticcia, come gli elaborati richiami e il colore contro natura della chioma, in un uomo che ha scaricato più mogli e amanti che creditori imbrogliati, ma utile al romanzo della Diversità. Da quel 20 gennaio 2017, forse per quattro anni come pensano gli ottimisti od otto come sospettano i realisti, il mondo cominciò a conoscere meglio l’ars imbonitoria che sta al fondamento del Nazionaltrumpismo, in dettagli come il suo dondolare il capo per stare a tempo degli inni ufficiali sulla terrazza, mentre la schiera di dignitari, tre ex presidenti (Carter, miracolosamente ripreso da un tumore metastatico al cervello, W Bush sempre allegro e svagato, Clinton con l’espressione di chi avesse appena masticato un limone, Obama con l’aria di chi già pensa alla vacanza in Florida), quattro ex First Lady (tra le quali Hillary impie- trita nel bianco dell’ennesima sconfitta) mantenevano la compostezza ufficiale dell’establishment politico. Anche nel pranzo nel salone della Camera, accanto alla moglie Melania eternamente scolpita dai bisturi nella sua bellezza, Trump aveva mantenuto il grugno imbronciato, ascoltando una delle sue future, grandi nemiche parlamentari, Nancy Pelosi. Si era sciolto soltanto per chiedere un applauso per la sua rivale sconfitta, Hillary — che aveva accettato di partecipare stoicamente al banchetto — lodando quella avversaria che per mesi aveva chiesto ai supporter di «sbattere in galera».
Il presidente che promette di rappresentare «i dimenticati», di far comperare soltanto prodotti americani, di alzare muri materiali e muraglie doganali, di salvare l’America disastrata da Obama «lo stupido » come lui lo definì, e di rifarla «orgogliosa, potente, grande», deve parlare a gesti, coi pollici alzati in segno di approvazione, con l’indice della destra puntato verso l’alto sopra le dita rattrappite nelle mani piccole per un omone di 183 centimetri, deve fingersi serio, sospettando di non essere preso sul serio. Cosa che il mondo dovrà imparare a fare in fretta, ora che Donald Trump e il suo movimento neo nazionalista portano accanto la valigetta coi codici nucleari e nel taschino della giacca, sbottonata o meno, il “biscotto”, il tesserino identificativo con i numeri per autorizzare il lancio. Se un giorno, tra un tweet e l’altro, decidesse di polverizzare un pezzo di mondo che non lo adula abbastanza. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Scontri nelle strade “Questo non è il nostro Paese” ANNA LOMBARDI Rep
DALLA NOSTRA INVIATA WASHINGTON. Elicotteri e sirene accolgono i manifestanti che scendono dai pullman arrivati da mezza America. A Union Station il popolo di Trump, i cappelli rossi e blu sulla testa col nome del nuovo presidente ben in vista, si mischia a chi è arrivato fin qui armato di striscioni e Pussy hat – i berretti fatti a maglia diventati il simbolo della marcia delle donne – e non è solo scambio di occhiatacce. Fuori la stazione ci si fronteggia, i primi sventolando la bandiera americana, gli altri ripescando un vecchio inno: We Shall Overcame.
Le tensioni qui a Washington sono iniziate al mattino: quando almeno 500 manifestanti hanno cercato di impedire ai fan di Trump di accedere all’insediamento. La polizia ha spruzzato spray al pepe e per risposta vetrine di Starbucks, McDonald’s e Bank of America, considerati i peggiori simboli del capitalismo, sono andate distrutte. Novanta persone sono state arrestate.
Chi scende dai pullman e si trova ad attraversare la città assediata di questo sa poco e nulla: a Manhattan il bus aveva acceso i motori alle 9 e 30 in punto, proprio mentre gli Obama ricevevano i Trump alla Casa Bianca per il tradizionale tè e fuori dal Mall di Washington iniziavano gli scontri. Appuntamento sulla 34esima strada, proprio affianco a quel Javis Center dove la notte delle elezioni s’infranse il sogno presidenziale di Hillary Clinton. È da qui che sono partiti i pullman che nelle ultime ore hanno portato centinaia di newyorchesi all’attesissima Women’s March di Washington, la grande marcia delle donne che si annuncia già come la più imponente protesta mai organizzata in occasione di un insediamento presidenziale. Lo stato di New York è quello da cui ne sono partiti di più: 412. Ma, con i terni sold out da settimane, ne sono arrivati almeno 1200 da tutta l’America, mille in più dei 200 giunti ieri nella capitale carichi di supporter presidenziali.
«Stanotte non ho dormito» racconta Patricia Lakin, 72 anni, autrice di libri per bambine che col marito Lee occupa i posti 20 e 21. «Il pensiero di entrare nell’era Trump mi sconvolge. Ne abbiamo viste tante in America, ma Trump, così reazionario e materialista, è peggio degli altri. Solo Nixon mi ha fatto altrettanta paura». Eileen Thompson, 19 anni è qui con le compagne di scuola: «Trump ha fatto rialzare la testa a razzisti e misogini, credono che ora gli è tutto permesso». Ruth Goldberg, 46 anni, viaggia con il marito Aaron e il figlioletto di sei anni: «Sanità, immigrazione, ambiente: sono tante le cose che ci preoccupano. Quella di Trump non è certo l’America in cui sognavamo di far crescere nostro figlio».
Non ci sono schermi televisivi sul bus. E quando l’autista, un’afroamericana di nome Nadine, chiede se a qualcuno interessa ascoltare l’evento via radio la risposta è no. Ma quando alle 12 Trump arriva sul palco e ci si è appena lasciati Baltimora alle spalle, la cronaca via Twitter è sulla bocca di tutti. «Ha giurato: benvenuti nell’era Trump» grida un ragazzo seduto in fondo, accolto da un coro di “booo”. Intanto però, sempre via Twitter arrivano notizie degli scontri. Si alza un mormorio di disapprovazione. «E importante che la Women’s March sia pacifica» dice Laila Greenwald, stringendo la mano alla figlia dodicenne.
Sì, perché alla marcia di Washington sono attese almeno 400mila persone. Si parte alle 10 su Independence Avenue, subito dopo una serie di interventi che vedranno sul palco, fra gli altri, l’icona femminista Gloria Steinem e l’attivista Angela Davis. «Stiamo attenti ai provocatori » dice Patty Lakin. «È dai tempi del Vietnam che contestiamo. Questa gente qui c’è sempre stata: e mai per fare gli interessi del movimento». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Spettro protezionista ma le élite sperano nella “deregulation”FERDINANDO GIUGLIANO Rep
DAL NOSTRO INVIATO DAVOS Con i suoi istinti isolazionisti e protezionisti, il neo-presidente degli Usa Donald Trump è molto lontano dall’élite globalista che frequenta il World Economic Forum di Davos. Tuttavia, diversi tra gli habitué del congresso più esclusivo del pianeta sembrano pronti a dare un’inaspettata apertura di credito a The Donald, se non altro per quanto riguarda le sue proposte di taglio delle tasse e deregulation del settore finanziario.
Questo cauto ottimismo è però bilanciato dal timore che il
tycoon possa avviare politiche protezioniste che finiscano per avviare una guerra commerciale mondiale. Le altre paure riguardano il rischio di un conflitto con la Cina, e l’eventualità che Trump scelga di limitare l’indipendenza della Federal Reserve. “Negli Usa, l’ottimismo è in crescita, soprattutto fra le piccole imprese,” ha detto Larry Fink, amministratore di Blackrock, la più grande società d’investimento del mondo. “C’è incertezza per come Trump pagherà per le politiche espansive che promette, e spero che quello che dice sul commercio non venga attuato”.
Tra i banchieri che per una settimana hanno affollato la località sciistica svizzera, la speranza è che la nuova amministrazione Usa inverta il processo di regolamentazione finanziaria avviato dopo la crisi. “Gli americani hanno spinto più degli europei per rafforzare patrimonialmente le banche nel consesso di Basilea,” dice un amministratore bancario di un colosso bancario. “Se il governo Usa prende posizioni più accomodanti, gli effetti si vedranno ovunque”.
La convinzione di alcuni tra i partecipanti a Davos è che alla fine gli istinti più estremi di Trump saranno frenati dagli altri componenti dell’amministrazione, a partire dal segretario al Tesoro designato, Steven Mnuchin. Tuttavia, il rischio che siano gli istinti protezionisti di Trump a prevalere rimane. Christine Lagarde, direttore operativo del Fmi, ha detto ieri che un’eventuale combinazione di stimolo fiscale e barriere commerciali avrebbe un effetto negativo per l’economia Usa. “Il ‘cigno nero’ è una corsa al ribasso sul fronte del commercio, delle tasse e della finanza,” ha aggiunto.
L’altro rischio che gli economisti riuniti a Davos vedono per l’economia Usa riguarda i rapporti con la Federal Reserve. Un eventuale stimolo fiscale in un’economia vicina alla piena occupazione potrebbe generare inflazione, ed è per questo che Janet Yellen, chair della US Federal Reserve, questa settimana si è detta pronta a intervenire per evitare che la crescita si “surriscaldi”.
Tuttavia, se Trump dovesse compromettere l’indipendenza della Fed, per esempio scegliendo nei prossimi anni dei banchieri centrali più restii ad alzare i tassi, l’inflazione rischierebbe di esplodere. “L’economia andrà bene per un paio d’anni,” ha detto Willem Buiter, capo economista di Citi. “Poi ci sarà un surriscaldamento e a quel punto dovranno per forza intervenire i mercati oppure la Fed stessa”.
L’ultima preoccupazione riguarda i rapporti con la Cina. Fink ha detto che sarebbe imprudente per la nuova amministrazione Usa “irritare i principali creditori, come Cina o Giappone”, soprattutto in un periodo di politica di bilancio espansiva. Un giudizio ancora più severo è arrivato dal finanziere George Soros, che in un’intervista pubblica a Bloomberg TV giovedì, non ha esitato a definire Trump “un truffatore”, avvertendo che la Cina potrebbe vendicarsi se Trump la definisse una “manipolatrice di valute”. “Non penso che i mercati andranno bene. Per ora, stanno ancora celebrando. Ma quando la realtà arriverà, prevarrà,” ha aggiunto.
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Souvenir e concerti i russi festeggiano il “nuovo amico” ROSALBA CASTELLETTI Rep
DALLA NOSTRA CORRISPONDENTE MOSCA. Sul cartellone pubblicitario digitale davanti al negozio Armija Rossii, Armata rossa, subito dopo l’insegna decorata con l’iconica stella rossa appare il volto di Donald Trump. Per celebrare l’insediamento del 45esimo presidente degli Stati Uniti, a tutti i cittadini americani la boutique ufficiale dell’esercito russo oggi offre uno sconto del 10 percento su mimetiche, felpe e souvenir. Una trovata pubblicitaria, certo, ma anche “un tentativo di riscaldare i rapporti tra Stati Uniti e Russia”, ci spiega Ekaterina Korotkova, consigliere della direzione generale di Voentorg, l’azienda del ministero della Difesa proprietaria del negozio. La vetrina si trova al numero 18 di Novinskij boulevard, proprio di fronte all’ambasciata americana a Mosca, dove solo tre giorni fa era comparso lo striscione: “Al diavolo Barack”.
Se l’era Obama si chiude tra strali reciproci tra Washington e Mosca, l’inizio del primo mandato di Trump viene guardato con ottimismo dalla Federazione. Tutto il Paese pullula di iniziative per festeggiare l’arrivo alla Casa Bianca del tycoon newyorchese. “Trumpmania” l’ha chiamata l’ex deputato Gennadij Gudkov. Imprese intitolano i loro prodotti a The Donald (il quotidiano Moskovskij Komsomolets ne ha scovate “centinaia”), i talk show lo celebrano e i nazionalisti salutano “il nuovo ordine mondiale” mostrando il trittico Trump-Putin- Le Pen. Giovedì, in un jazz club sulla Vecchia Arbat, nel cuore di Mosca, si è tenuto un “pre-inauguration party” animato dal cantautore russo-americano Willi Tokarev che per l’occasione ha intonato la sua nuova canzone “Trumplissimo America”. Se Katrin e Polina, le due ragazze alla reception, prendono le distanze, “Trump è stata solo una scusa per fare baldoria”, Aleksej Spirenkov, artista e scultore moscovita, trabocca di sincero entusiasmo quando parla della sua nuova creazione: una linea di caramelle con le fattezze del neo-leader, già ribattezzate “choopa- Trump”. “Perché una caramella? Perché per ora tutto ciò che dice Donald Trump sembra dolce”.
I primi a sperare che la nuova amministrazione “addolcisca” le relazioni tra Russia e Stati Uniti, revocando le sanzioni imposte dopo l’annessione della Crimea, liberando i capitali congelati e incoraggiando gli statunitensi a cercare profitti nel vasto mercato russo, sono gli industriali. “Trump mi ispira, è un imprenditore che mette il guadagno prima di tutto” , ha detto Andrej Kuzjaev, a capo di Er Telecom.
Ma, dentro il Cremlino, l’euforia iniziale per l’elezione di un ammiratore di Putin alla Casa Bianca ha ceduto il passo alla prudenza. Le accuse di cyberattacchi e di legami sospetti sembrano aver spinto i ministri nominati da Trump verso posizioni più dure nei confronti di Mosca: nel corso delle audizioni al Senato Steve Mnuchin, nominato segretario del Tesoro, si è detto pronto a rafforzare le sanzioni “al 100 percento”, mentre James Mattis chiamato alla Difesa ha indicato la Russia come “principale minaccia”. “I vertici moscoviti ora capiscono che riallacciare i rapporti non sarà facile e che ulteriori scandali peggioreranno le possibilità”, commenta il politologo Aleksej Chesnakov.
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CHI È DIO NELL’AMERICA DI TRUMP ALBERTO MELLONI Rep
QUAL È il Dio di Trump? È un Dio così americano che risulta indecifrabile dall’Europa? È un Dio — o meglio unTele-Dio — costruito sul “prosperity Gospel”, quello che insegna che il “financial blessing” è prova di grazia e che chi dona alla chiesa diventa più ricco, e dunque asimmetrico rispetto alla tradizione delle grandi chiese? O è il Dio del vangelo, presente nella carne di quel Lazzaro — citato negli auguri del Papa a Trump — la cui miseria giudicherà chi è stato sordo alla privazione del povero?
Il discorso inaugurale del presidente ha in gran parte risposto a queste domande. Ed era prevedibile che fosse così: da sempre il momento di assunzione dell’ufficio di presidente degli Stati Uniti è carico di segni religiosi cristiani — dalla Bibbia su cui si consuma il giuramento, alla benedizione pronunciata da un’autorità religiosa. E dunque obbliga il presidente ad un definitivo posizionarsi sul problema spirituale.
Tuttavia, nemmeno parlando di Dio, Trump è rimasto nel solco di un cerimoniale che ha sempre supplicato “God bless America”, ma che stavolta più che chiedere sembrava ordinare al Padreterno di adeguarsi alla nuova ideologia della “America first”.
Il Dio di Trump appariva in controluce già nella preghiera di Paula White, prima donna a pronunciare la benedizione di rito. Capo di una megachiesa pentecostale, da quindici anni direttrice spirituale di Trump, la pastora White era stata protagonista nel 2015 della “unzione” di Trump candidato fatta insieme a Kenneth e Gloria Copeland, a David Jeremiah e Jan Crouch: gesto che ci può far per ora sorridere, nomi che da noi dicono poco. Ma che rappresentano bene l’ala marciante “evangelical” che sta cambiando la fisionomia di quello che un tempo si chiamava protestantesimo.
La pastora, nella società pluralista per eccellenza, ha spiegato nei minimi dettagli a Dio cosa deve fare per il presidente, il vice “e le loro famiglie” e per il Paese. Definita ora eretica ora una ciarlatana antitrinitaria dal protestantesimo “mainstream” e da importanti settori del cattolicesimo, Paula White ha citato il libro dei Proverbi e la retorica dell’America come dono di Dio (agli americani): su cui s’è innestato il cuore “religioso” del discorso di ieri e il palesarsi del Dio di Trump.
Il Dio di Trump, dopo quello caldo e predicatorio di Obama, è stato presentato come il garante di un privilegio americano, di un diritto al comando ottenuto torcendo il salmo 133. «Com’è buono, com’è soave che i fratelli abitino insieme», dice quel breve poema che consola una piccola minoranza di pii israeliti, e che è stato usato anche dai cristiani dentro una visione universalista della fraternità umana.
Trump, invece, ha corretto il testo salmico e ha spiegato che «la Bibbia» insegna quanto «sia buono e soave» (e fin qui è il salmo) «quando il popolo di Dio vive insieme in unità». Fra la coabitazione fraterna e l’autoproclamazione di sé come popolo di Dio ci passa una forzatura banale. Trump ha rivendicato all’America il compito di “popolo eletto”, portatore di una specie di teologia della singolarità globale. L’eccezionalismo americano, un tempo usato per giustificare il dovere di difendere le libertà nel mondo, Trump l’ha usato per difendersi dal mondo della libertà.
Il popolo americano inteso come “il” popolo di Dio non è una entità politica ma una comunità mistica di destino. E — ha detto il presidente — ha due protettori: il primo è la forza, dell’esercito e della polizia; l’altro è proprio Dio, detto per secondo, perché più funzionale ad una unità che non passa dalle istituzioni, ma dai simboli e dal popolo.
Accanto a questa torsione Trump ha introdotto un Dio del Sangue, che quando viene invocato viene sempre esaudito. Il presidente ha esaltato la mistica del Sangue dei patrioti — sempre rosso, nella prosa trumpiana — e da lì ha derivato una distinzione all’interno della creazione stessa.
In uno dei passaggi finali, infatti, ha detto che l’unità del nuovo «popolo eletto» è dovuta al fatto che i bambini di Detroit o del Nebraska hanno sopra di sé lo stesso cielo notturno, sognano col cuore gli stessi sogni e hanno ricevuto il «respiro vitale» dallo stesso «creatore onnipotente»: il che è concettualmente irricevibile dall’antropologia biblica. Perché quel cielo notturno, quei sogni e quel respiro non sono diversi per i bambini del mondo rispetto ai bambini americani.
Ma è evidente che nella foga elettoralistica c’è già una politica “religiosa”. E in queste torsioni teologiche c’è una prima durissima risposta a Francesco che ieri richiamando la «famiglia umana», i «ricchi valori spirituali ed etici» della storia americana, la dignità dell’uomo e del povero Lazzaro aveva voluto marcare una distanza anche teologica: “prosperity Gospel” contro “cattolicesimo del vangelo”: siamo ai primi minuti di un duello che sarà duro.
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