James Joyce: Lettere e saggi, il Saggiatore, pp. 1101, euro 75,00, a cura di Enrico Terrinoni
Risvolto
James Joyce è considerato uno dei giganti della letteratura di ogni tempo. E l’Ulisse è ritenuto un’opera-mondo, uno di quei capolavori che nessuno può ignorare. Ma quanto vale per Ulisse e per Finnegans Wake
– testi che trasformano gli elementi caotici dell’esistenza in arte –
si scopre essere vero anche quando si avvicinano quegli scritti di
Joyce, come le lettere, apparentemente non destinati a esser ricevuti da
altri che dai loro diretti destinatari: quasi per una mistica
alchemica, la vita si trasmuta in arte, e l’arte di Joyce fuoriesce
dalla letteratura.
Le Lettere, che compongono la prima parte di questo volume,
coprono l’intero arco della vita di Joyce – dalla paralisi di Dublino
alla fuga in Italia con Nora, dall’esilio volontario a Trieste e Roma
alla maturità trascorsa tra Parigi e Zurigo, dalla lotta intransigente
con l’editore Grant Richards per la soffertissima pubblicazione di Gente di Dublino
al riconoscimento internazionale grazie all’impegno di Ezra Pound – e
si presentano come sua ideale autobiografia; al contrario, i Saggi
– che si tratti di un vibrante pezzo sul provincialismo nazionalista
irlandese, di una stroncatura degli ultimi romanzi pubblicati al di là o
al di qua della Manica, del testo di una conferenza su William Blake o
di un frammento sulla Poetica di Aristotele – ci consentono di
incontrare il Joyce giornalista, il Joyce politico, il Joyce critico
letterario: in una parola, il Joyce pubblico.
Curata da Enrico Terrinoni, Lettere e saggi è un’opera
monumentale, che consente una prospettiva assolutamente inedita sulla
vicenda umana e intellettuale di James Joyce: non solo, infatti, queste
scritture custodiscono al proprio interno i semi da cui scaturiranno i
grandi capolavori in prosa – autentico spartiacque nella storia della
letteratura –, ma al tempo stesso introducono il lettore al laboratorio
in cui Joyce, da vero artigiano della parola, non smise mai di dare
forma alla materia prima della sua arte: la sua vita intima di uomo; la
vita dell’Omero del Novecento, un autore la cui grandezza né la moda né
il logorio del tempo potranno mai scalfire.
Gioie e tribolazioni di un geniale mercante di gerundi
James Joyce. Cinquant’anni dopo il Meridiano di Melchiori, ora le «Lettere e i Saggi» usciti dal Saggiatore, con molte novità, rendono disponibili per prima volta tutti gliscritti non-fiction di Joyce, e una buona metà delle lettere in commercio: a cura di EnricoTerrinoni
John McCourt Alias Manifesto 8.1.2017, 17:45
«Stiamo ancora imparando a essere i contemporanei di Joyce», scrisse il grande biografo americano Richard Ellmann, nell’introduzione alla sua monumentale biografia pubblicata nel lontano 1959. Quella di Ellmann è un’affermazione a tutti gli effetti valida ancora oggi: infatti gli studiosi di Joyce continuano a sfornare saggi, traduzioni, edizioni critiche (e non), nonché inedite interpretazioni di e su quanto scritto e prodotto dal romanziere più complesso del ventesimo secolo (solo William Shakespeare ha saputo sollecitare e ispirare più attenzione e passione critica di Joyce). L’Italia, paese importantissimo per Joyce sotto molti punti di vista (diceva, fra l’altro, di amare Dante quanto la Bibbia e fu anche molto influenzato dal giovane D’Annunzio), continua a giocare un ruolo rilevante nella cosidetta Joyce industry dell’era della globalizzazione.
Recentemente, in occasione del centenario della pubblicazione del più importante bildungsroman del periodo del Modernismo, Un ritratto dell’artista da giovane (celebrato in Italia, fra l’altro, dalla bella traduzione di Franca Cavagnoli, recensita nella pagina accanto) è uscita una nuova edizione di tutti gli scritti «non-fiction» del grande irlandese: James Joyce Lettere e saggi (il Saggiatore, pp. 1101, euro 75,00), a cura di Enrico Terrinoni, già noto per la sua ricca e divertente traduzione dell’Ulisse, pubblicata nel 2012 da Newton Compton, e attualmente impegnato in un’impresa ancora più ambiziosa, la traduzione – assieme a Fabio Pedone – di Finnegans Wake (per Mondadori).
Il volume delle lettere e dei saggi di Joyce ci fornisce un’utilissima e ampissima versione della sua biografia, narrata in prima persona attraverso missive che coprono tutto l’arco della sua vita spesso frustrata, difficile, tormentata, vissuta in decine di case diverse fra Dublino, Pola, Trieste, Roma, Zurigo, Parigi, e Londra. Le prime lettere segnalano l’ambizione del giovane scrittore e la centralità che Henrik Ibsen ebbe nella sua concezione del ruolo dell’artista: il diciottenne Joyce volle subito identificarsi con un gigante della letteratura europea e distanziarsi dagli scrittori suoi contemporanei, quelli della Rinascita Irlandese capitanata da W.B. Yeats. Non a caso, il primo articolo pubblicato da Joyce fu una recensione dell’opera di Ibsen Quando noi morti ci destiamo sulla prestigiosa «Fortnightly Review».
Ibsen lesse l’articolo (anch’esso pubblicato in questo volume) e inviò una lettera di ringraziamento al giovane Joyce, che rispose commosso: «Illustre Maestro. Le scrivo per inviarLe il mio augurio in occasione del Suo settantatreesimo compleanno e per unire la mia voce ai cori di auguri che Le giungono da tutto il mondo… Difficilmente potrò esprimere la commozione che mi ha causato il Suo messaggio. Sono giovane, molto giovane, e forse il racconto di certi scherzi giocati dai nervi La farà sorridere. Ma sono sicuro che se riandrà nella Sua vita al tempo in cui era un laureando all’università come lo sono io, e se penserà a quel che avrebbe significato per Lei aver meritato una parola da chi era tanto importante per Lei quanto Lei lo è per me, capirà quanto ho provato».
L’ultima lettera della raccolta – e probabilmente l’ultima lettera scritto da Joyce – è per il fratello Stanislaus, colui che aveva fatto così tanto per sostenere lo scrittore intellettualmente, moralmente, e economicamente prima a Dublino, poi, per dieci lunghi anni cruciali a Trieste, quando si alternava fra vari lavori e vocazioni. Joyce non fu solo uno scrittore, infatti, ma anche un «mercante di gerundi», come disse di lui Italo Svevo. Insegnò alla Berlitz School, fu imprenditore cinematografico, cantante lirico (aveva una bellissima voce tenorile), e giornalista (in primis, per Il Piccolo della Sera). Questa lettera al fratello dimostra un lato di Joyce forse troppo spesso trascurato dai critici: quello di un uomo che pur essendo certamente preso da se stesso e dalla sua arte era anche capace di gesti di generosità.
Come cittadino britannico in Italia, Stannie, troppo spesso maltrattato dal grande fratello, era stato costretto a lasciare Trieste in seguito all’entrata in guerra dell’Italia e Joyce gli forniva una lista di persone che avrebbero potuto aiutarlo. La lettera è datata 4 gennaio 1941 e Joyce morì a causa di un’ulcera duodenale perforata una settimana più tardi, il 13, da solo in un ospedale a Zurigo.
Ora, una lettura delle tante lettere tradotte in questo volume conferma quanto il materiale che si trova nelle opere nasca propria dalla sua vita privata, domestica, familiare e dalla comunità Dublinese dove era cresciuto.
Cinquant’anni dopo l’edizione delle lettere uscita nel 1966 per i tipi della Mondadori e curata dal grande Giorgio Melchiori, il volume del Saggiatore – frutto di un bel lavoro di squadra – mescola alcuni brevi inediti (in italiano) di saggistica, originariamente scritti in inglese da Joyce, con le lettere già scelte da Melchiori, riviste e ammodernate, gli scritti italiani (principalmente i nove articoli sull’Irlanda per Il Piccolo della Sera di Trieste e le conferenze tenute all’Università popolare di Trieste), tutti gli scritti inglesi, anche questi per la gran parte già pubblicati in italiano nel Meridiano – come ad esempio «Il giorno della plebaglia» (1901) e «Il nuovo dramma di Ibsen» (1900) – ma anche tutte le recensioni vergate a Parigi nel 1903 e finora inedite in Italia. Le eccellenti traduzioni dei saggi sono tutte nuove, a cura di Sara Sullam, la giovane studiosa che ha anche tradotto le epistole originariamente scritte in francese e tedesco. Per le lettere, invece, i curatori hanno per lo più mantenuto le versioni originali di Giorgio e Giovanni Melchiori e di Renato Oliva, riviste tuttavia con cura dalla triestina Francesca Scarpato.
I blocchi di lettere, che nell’edizione Melchiori erano dodici, ora sono soltanto cinque – una scelta sicuramente più razionale – e si presentano con nuove introduzioni, tranne per la sezione del periodo parigino, per cui è stato deciso di mantenere il testo di Melchiori (è altresì vero che quello trascorso nella capitale francese rimane il periodo meno revisionato dai critici e biografi joyciani, ancheperché copre gli anni della lunga e sofferta stesura di Finnegans Wake): le nuove introduzioni ai vari blocchi delle lettere sono opera di Enrico Terrinoni, Franca Ruggieri e Francesca Scarpato.
Nel complesso il volume può essere considerato un utile updating, che provvede a una importante serie di correzioni, alla necessaria modernizzazione e a un valido ampliamento rispetto al volume curato da Melchiori, il che nulla toglie allo straordinario lavoro del curatore e della sua squadra. Terrinoni ha ritenuto opportuno sostituire le introduzioni ai blocchi di lettere firmate da Melchiori con nuovi testi che offrono letture molto più aggiornate; e ha scelto di mantenere le tante note dello studioso romano ai testi delle lettere stesse, aggiungendone tuttavia quasi trecento di sue e fornendo al lettore dati e elementi che era impossibile conoscere negli anni sessanta. I testi dei saggi inglesi e degli scritti italiani sono stati tutti annotati ex novo da Sara Sullam, che ha a sua volta curato centinaia di utilissime note, facendo spesso riferimento alle edizioni già uscite in inglese e francese e curate, rispettivamente, da Kevin Barry e da Jacques Aubert.
L’imponente tomo curato da Terrinoni costituisce senza dubbio uno strumento utilissimo per i critici e i lettori di Joyce in Italia: per la prima volta, infatti, mette a disposizione tutti gli scritti non letterari di Joyce, nonché una buona metà delle sue lettere attualmente in commercio. È un peccato, tuttavia, che l’editore non abbia voluto (o potuto) acquistare i diritti delle lettere integralmente pubblicate in inglese da Faber, bensì solo quelli di ciò che già era stato pubblicate da Mondadori: dunque, anche questa edizione, in realtà, non può che essere provvisoria e transitoria, tanto più che anche in lingua inglese solo la metà delle lettere scritte da Joyce (che sono più di tremila) sono state pubblicate, pur essendo già al lavoro una squadra di curatori per la Oxford University Press, che nei prossimi dieci anni dovrà curare una nuova edizione dell’epistolario in cinque volumi (Complete Letters).
Dunque, è un ritratto ricco a tutto tondo di Joyce uomo e scrittore non letterario quello che emerge un’attenta lettura delle oltre mille pagine di cui si compone il volume, anche se le lettere, così come i saggi, sono in gran parte di argomento letterario (e spesso leggiamo delle difficoltà che Joyce incontrò nel trovare editori per le sue opere). Continuano a mancare in italiano le cosiddette dirty letters, ovvero le epistole intime scritte a Nora e viceversa, ciò che rende il ritratto di Joyce compagno e marito in qualche modo parziale.
Ricco e suggestivo è il profilo dell’artista e dell’importanza che le lettere rivestirono nella sua vita e nelle sue opere offerto dalla introduzione di Terrinoni, che si sofferma in particolare sulla comicità di Joyce e della sua scrittura (tratto che aveva già colto e marcato nella sua bella traduzione dell’Ulisse) descrivendo puntualmente il rapporto di odio-amore che Joyce aveva con l’Irlanda (anche se l’affermazione che il dublinese non volle mai il passaporto irlandese perché «gran parte dell’isola» era «ancora sotto il giogo inglese» sembra un po’ azzardata, visto che Joyce preferì tenersi il passaporto inglese in primo luogo perché il tipo di stato-nazione che l’Irlanda stava diventando non gli piaceva affatto), mentre trova anche lo spazio per indagare in modo originale e incisivo il ruolo di Joyce critico letterario.
Qualche lacuna il volume la esibisce nell’illustrare il ruolo che Trieste ricoprì nella vita e nelle opere di Joyce: perché dedicare solo una pagina dell’introduzione ai due movimentati anni fra Pola e Trieste (1904-6), e dieci pagine (anche se significative, originali e interessanti a firma Franca Ruggieri) all’infelice soggiorno romano? Perché inserire un cautelativo «forse» nella frase «Trieste, che fu per Joyce quanto a importanza seconda forse soltanto a Dublino», quando il fatto che nessun altra città, con l’ovvia eccezione di Dublino, giocò un ruolo così determinante nella vicenda biografica e artistica di Joyce è ampiamente assodato e documentato?
Le divertenti lettere a Svevo, un po’ in italiano ma anche nel dialetto triestino, testimoniano non solo l’affetto che lega queste due grandi figure del Modernismo ma anche il genuino attaccamento di Joyce per la città che chiamò «la mia seconda patria» e «la nostra bella Trieste» nonostante le difficoltà che dovette affrontare durante gli anni triestini.
Qualche dubbio suscitano anche alcune scelte editoriali. Sarebbe stato più opportuno, forse, disporre i saggi in ordine cronologico, e – anziché iniziare con quelli italiani del 1907 – cominciare con i primi scritti in inglese, risalenti al 1897 («Mai fidarsi della apparenze»). Così, il lettore non avrebbe trovato le bozze di una conferenza vergata in italiano, ma mai pronunciata a Trieste, sul poeta irlandese più stimato da Joyce, James Clarence Mangan, cento pagine prima di leggere la versione originale della conferenza stessa, tenuta a Dublino nel 1902.
La mancanza di una vera introduzione ai saggi è davvero inspiegabile e non del tutto rimediata dalla bella «Nota della traduttrice (dei saggi). Ritratto del saggista da giovane» che li segue. L’introduzione complessiva al volume intero a firma Terrinoni è vivace e meditata e costituisce un gran bel saggio di apertura, ma altrettanto utile sarebbe stato, per aiutare il lettore a orientarsi e comprendere, una pagina o due di spiega sulla logica (e magari anche i limiti editoriali) che ha dato forma a questa specifica edizione di scritti joyciani.
James Joyce. Lettere e saggi, infatti, rimane un volume un po’ ibrido, per lo più basato su traduzioni che hanno cinquant’anni di vita: certamente rinfrescate e ammodernate in alcune parti (tuttavia i cambiamenti non sono segnalati) e con un misto di annotazioni già edite e di altre nuove e aggiuntive.
E sebbene il volume corregga molti errori e sviste – il che è sempre un gande merito delle nuove edizioni – ne introduce di altri e di nuovi (come «Sidney Parade» per «Sydney Parade», o «il carcere di Clerkemvell» per «il carcere di Clerkenwell». Non è chiaro se si tratti di errori dello stesso Joyce o della traduttrice: un semplice (sic) avrebbe risolto il dubbio e eliminato il problema).
Sebbene, dunque, il volume abbia il grande pregio di porre rimedio a un vuoto editoriale che andava colmato, sarebbe stato forse più soddisfacente e più sensato dare direttamente vita a una versione in italiano del tutto nuova dei preziosi documenti che compongono la raccolta, anziché mescolare materiali già pubblicati con testi inediti: si sarebbero potuti così confrontare due modi diversi di avvicinarsi a Joyce e ai suoi scritti, proprio come è successo con l’Ulisse ritradotto in italiano da Terrinoni nel 2012, che ora si può fruttuosamente confrontare con quello storico di De Angelis e con quello ancora più recente a firma Gianni Celati.
Silenzio, esilio, astuzia, queste le armi per ricreare la vita dalla vita
Classici. Ritradotto da Franca Cavagnoli a cent'anni dalla prima uscita, "Un ritratto dell'artista da giovane", per Feltrinelli
Viola Pepetti Manifesto Alias 8.1.2017, 17:53
Joyce sarebbe meno Joyce senza
A Portrait of the Artist as a Young Man?
Senza quella lunga meditazione su se stesso, dalla infanzia di Baby
Tuckuu al grande progetto futuro e, nel lungo arco di tempo, con le
ritrovate identità, fragili e provvisorie, e le strategie di
sopravvivenza: come atteggiarsi e fronteggiare il fuori mentre si
contiene il maremoto interiore? Come giocare con quel giogo del
linguaggio, l’inglese, lingua necessaria ma non sua. Se Shakespeare non
avesse rischiato l’imponderabile confessandosi nei Sonetti, lo ameremmo
di meno? Certamente, sì.
Ma Il ritratto dell’artista da giovane, promesso dal titolo, compare
come fermo immagine solo nell’ultimo paragrafo dell’ultima pagina.
«Benvenuta, o Vita! Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà
dell’esperienza e a forgiare nella fucina della mia anima la coscienza
increata della mia razza» – così nella traduzione di Luciana Bianciardi,
(Bur, introduzione di Tim Parks, pp. 292, €.10,00).
Molto vicina è la più recente traduzione di Franca Cavagnoli: Un ritratto dell’artista da giovane
(Feltrinelli, pp. 280, € 9,50) che cura anche una ricca introduzione,
biografia, bibliografia e un interessante commento alle sue scelte di
traduzione. Nel passo appena citato, l’unica differenza sta nella
versione di «forge», che Cavagnoli rende con «foggiare», e per
giustificare la sua scelta risale ad altre occorrenze del medesimo
termine, facendo di questa pratica un metodo assai utile nel caso di
scrittori come Joyce, che nelle proprie pagine trascorrono senza
soluzione di continuità dall’invisibile mondo mentale alla concretezza
del reale.
Ai suoi traduttori Joyce lascia poco margine di scelta. Le sue frasi,
tenute sotto stretto controllo, giocano simultaneamente in diversi
campi di senso: arricchiscono i lettori del testo originale, ma
inchiodano i traduttori a una scelta spesso dubbiosa. Un ritratto
dell’artista da giovane si conclude con la preghiera del figlio, Icaro,
in procinto di prendere il volo, al padre Dedalo, il sapiente artefice.
«Vecchio padre, vecchio artefice, accorri ora e sempre in mio soccorso».
Forse un’allusione a Pound – da Eliot appellato «il miglior fabbro» –
che aveva aiutato, e molto, la crescita del Ritratto.
Da un saggio autobiografico del 1904, A Portrait of the Artist, ebbe
origine la prima stesura di Stephen Hero, autobiografia ordinata
cronologicamente che si fermò al venticinquesimo capitolo dei
sessantatré progettati, uscito postumo solo nel 1944. Quell’ingenuo
canovaccio, che già fissava ben alto il nome dell’eroe Stephen Dedalus,
nella successiva elaborazione in cinque capitoli fu sottoposto a una
sofisticata cura che lo trasformò nel sofferto Bildungsroman di un
artista nuovo, provocatorio, luciferino.
Scriveva all’amico Cranly: «Non voglio servire quello in cui non credo
più, sia che si chiami famiglia, patria o chiesa; voglio tentare di
esprimermi nella vita e nell’arte liberamente e completamente per quanto
potrò, usando in mia difesa le sole armi che mi permetto di usare –
silenzio, esilio, astuzia».
Non possiamo dimenticare che in Stephen Hero Joyce ha formulato criteri
estetici poi usati e abusati dagli scrittori moderni: epifania come
improvvisa manifestazione spirituale che si lascia cogliere nella
volgarità di un gesto o di un detto o nel ritorno di un ricordo; estasi
estetica nascente dalla quidditas di san Tommaso, la cosa in sé luminosa
e conclusa come l’apparizione della ragazza in mezzo all’acqua, che,
immobile, volta verso il mare, offre allo sguardo incantato di Stephen
il corpo seminudo. «L’immagine di lei gli era entrata nell’anima per
sempre e nessuna parola aveva rotto il sacro silenzio della sua estasi.
Gli occhi di lei l’avevano chiamato e a quel richiamo la sua anima aveva
fatto un balzo. Vivere, errare, cadere, trionfare, ricreare la vita
dalla vita!»
Ezra Pound, entusiasta dopo la lettura del primo capitolo, promosse
la pubblicazione del Ritratto in «The Egoist», a puntate, dal 1914 al
1915, e successivamente nel dicembre 1916 per intero presso la casa
editrice americana B.W. Huesch. Scrisse che niente era stato omesso nel
Ritratto, «niente di così sordido che lui non sapesse trattare con
metallica esattezza». Quel realismo – dai contemporanei accusato di
oscenità –, incentivato dai personaggi che parlavano in prima persona
con la propria voce, era doppiato dal richiamo simbolico delle onde,
delle lacrime, dell’umidità che testimoniavano di un paesaggio interiore
in continuo travaglio, di un viaggio per acqua verso una meta ancora
incerta.
Conversando con Virginia Woolf, Eliot dichiarò che l’Ulisse «si fondava
su Walter Pater con una pennellata di Newman», intuizione tanto più
giusta se riferita al Ritratto. Difficile per un giovane artista
sfuggire al contagio dell’estetismo di Pater. E sul prosatore preferito
da Stephen, ecco quanto lui stesso dice: «Chi è Dedalus lo scrittore più
grande?» «Newman, credo». «Il cardinal Newman?» domandò Bolan. «Sì,
rispose Stephen.»
Più volte nel Ritratto, Stephen si riferisce alla «claustrale prosa
dalle venature argentee di John Henry Newman, che fu protagonista
dell’Oxford Movement e promosse la conversione al cattolicesimo di molti
giovani intellettuali, tra cui il poeta G.M. Hopkins, già allievo e
amico di Pater. Nominato rettore dell’università cattolica di Dublino
nel 1854, riorganizzata come University College nel 1883 sotto la guida
dei gesuiti, Newman ne fissò le alte finalità in un aureo libretto An
Idea of University. Joyce vi entrò nel 1898, con una borsa di studio.
Era già stato pubblicato nel 1848 il romanzo di formazione di Newman,
Loss and gain, primo esempio di «University novel», in cui è raccontata
la lotta spirituale di un giovane intellettuale che abbandona la Chiesa
anglicana per farsi cattolico. Nel difficile passo il protagonista tiene
ansiosamente la doppia contabilità di dare/avere, guadagni/ perdite,
come farà Stephen.
«L’università! Dunque era passato oltre la sfida delle sentinelle a
guardia della sua fanciullezza, che avevano cercato di tenerlo fra loro,
di assoggettarlo e costringerlo a servire ai loro fini. Dopo la
soddisfazione, l’orgoglio lo sollevò simile a lunghe onde lente. Il fine
che era nato per servire, e ancora non vedeva, lo aveva portato a
fuggire lungo un cammino ascoso …» Nell’attesa della rivelazione, il
futuro lo investe con furia selvaggia, animale. Correvano all’impazzata
nella sua mente «piedi di lepri e di conigli, piedi di cervi e cerve e
antilopi, finché non li sentì più e ricordò solo la fiera cadenza di
Newman: I loro piedi erano come piedi di cervi e sotto di loro le
braccia eterne».
La sofferenza che componeva musica con le parole SCAFFALE. «Pomes Penyeach», una raccolta poetica di di James Joyce. Affiorano le ombre di un passato mai dimenticato, le morti, gli amori, la figlia malata Enrico Terrinoni Manifesto 27.7.2017, 0:05
Che Joyce non sia passato alla storia come poeta è un dato di fatto, eppure la sua prima opera in volume, pubblicata ben sette anni prima di Dubliners, fu proprio una raccolta di poesie, Chamber Music. Già dal titolo ammiccava alla condizione della musica, che – come nota Richard Ellmann – racchiudeva in sé tutta l’aspirazione della sua intricata letteratura. È innegabile, infatti, che sia Un ritratto dell’artista da giovane, sia Ulisse, ma soprattutto Finnegans Wake, non possano in alcun modo prescindere da una dimensione fondamentalmente musicale.
D’altro canto, è risaputo che per Joyce la scrittura fu quasi un ripiego, dopo il fallimento della sua prima ambizione giovanile, quella di fare il cantante. In età più matura, anche per via dei gravissimi problemi alla vista, sviluppò una incredibile sensibilità uditiva, che lo avrebbe portato, per sua stessa ammissione, a comporre musica con le parole.
Amante dell’opera come delle ballate elisabettiane, la passione per la musica è per Joyce una costante per lui, dagli anni dublinesi a quelli trascorsi a Zurigo, passando per Trieste, Roma, e Parigi.
Esce in questi giorni, per la Nuova Trauben di Torino, una interessante riproposizione di Pomes Penyeach (a cura di Francesca Romana Paci, pp. 66, euro 12): nel volumetto sono comprese tredici brevi poesie pubblicate a Parigi nel 1927, che qualche anno dopo furono persino musicate da un gruppo di compositori. In Italia erano già state presentate nelle traduzioni di Camerino, Rossi, Sanesi, Natali e altri, ma nella nuova edizione si giovano di un corposo apparato di note e di una interessante postfazione in cui si dà conto, prima di tutto, della stessa misteriosa polisemia del titolo. Polisemia riproposta persino in copertina, in quello che si potrebbe considerare un doppio sottotitolo, ma che in realtà è una traduzione duale dell’enigmatico titolo della raccolta: Pomi un penny l’uno / Poesie una pena l’una.
Il fil rouge è, infatti, secondo la curatrice, una venatura di sofferenza che affiora in molti luoghi del testo: la sofferenza per la figlia Lucia, affetta da disturbi psichici, la quale di una nota edizione dei Pomes curò persino eleganti e raffinate elaborazioni pittoriche delle iniziali di ogni componimento. Joyce avrebbe dedicato alle sorti della figlia tanto tempo e tante energie, negli ultimi disperati anni di vita – e anche gran parte delle proprie risorse economiche.
Altre «pene» che donano tinte ineffabili e oscure al libro sono quelle legate alle ombre di un passato mai davvero dimenticato, un passato che ci parla di morti e anche d’amore, come nella famosissima She Weeps Over Rahoon, da leggersi in parallelo con il nucleo fondante del racconto I morti di Gente di Dublino.
Ma a ben vedere, è proprio il sottofondo musicale a dare unità alla raccolta: echi di Bellini e di Verdi letteralmente accompagnano l’andamento cadenzato dei versi, che strizzano certamente l’occhio all’estetismo di Symons o anche all’imagismo di Pound, ma a quelle tendenze aggiungono inattese tinte esistenziali, in grado di proiettare l’opera tra le espressioni più significative della produzione letteraria di Joyce.
1 commento:
Yoice ..l'altra faccia della luna...mentre le stelle...stanno a guardare...!!!Un miracolo che si rinnova dietro e dentro il suono di ogni sua parola...
Posta un commento