venerdì 13 gennaio 2017
Riverrun. La traduzione Terrinoni del Finnegans Wake di Joyce
Una lingua sfrontata per il testamento eroicomico di Joyce
Classici ritradotti. Inventando
storture lessicali in qualche modo mimetiche dell’originale, Fabio
Pedone e Enrico Terrinoni affrontano «Finnegans Wake» (Mondadori) con
brio ermeneutico
Andrea Binelli Alias Manifesto 12.2.2017, 19:16
Nessun’altra opera rivela l’animo di James Joyce meglio dell’ultima: su Finnegans Wake
aleggia infatti uno spirito scapigliato e beffardo, sensibile ma
ostinato, generoso e al tempo stesso scettico e distruttivo, che
suggella come un funerale ogni velleità narrativa, sia essa storica o
mitica. Messo in scena da una regia grandiosa e stracciona, il Wake può
essere letto come il testamento eroicomico di un artista tormentato ma
forte della sua autoironia e della risolutezza aspra comune a tutti
coloro che si votano alla libertà individuale, respingendo – sin da
giovani – le convenzioni vuote e le paralisi che ne derivano.
Del resto, sebbene corteggiasse l’umanità nel registro intimo della
scrittura, Joyce faceva di tutto per risultarle antipatico nella vita
quotidiana. La dice lunga quanto accaduto nel luglio 1939 allo scrittore
americano William Saroyan: in visita a Parigi e capitato a sua insaputa
fra gli scaffali della Shakespeare and Co. – casa editrice resa celebre
anche dalla pubblicazione dello scandaloso Ulisse nel ’22 – venne
riconosciuto da Sylvia Beach che gli propose di incontrare l’autore del
Finnegans Wake, uscito giusto due mesi prima: «Lei lo chiamò, poi io e
lui ci parlammo al telefono, o meglio, io dissi il mio nome e Mr Joyce
mi rispose che lo pronunciavo male. Gli spiegai allora che si trattava
di una concessione alle difficoltà di pronuncia degli americani. Al che,
mi propose di andarlo a trovare tre giorni dopo, alle due e trenta del
pomeriggio. Non ho mai incontrato Joyce. All’indomani partii per
Londra».
Joyce sapeva bene quali corde toccare per irritare il suo prossimo;
ma alla fin fine non si negava a nessuno, malgrado poi in molti, e
Saroyan fra questi, preferissero non scendere a compromessi con il suo
egocentrismo burlone. «Un gusto diverso in materia di scherzi», scrisse
George Eliot in Daniel Deronda, «può logorare gli affetti.» Parole che
non è chiaro se si potrebbero applicare meglio alla ricezione dell’opera
di Joyce o alla sua parabola umana, soprattutto nell’ultimo scorcio
della vita: ferito dall’insuccesso di quel work in progress (così
chiamava il Wake prima di pubblicarlo) cui aveva dedicato ben
diciassette anni, malato e quasi cieco, terrorizzato dalla guerra e
distrutto dai problemi di salute della figlia e dalle difficoltà fra il
figlio e la nuora, Joyce avrebbe finito per arrendersi e chiudere
definitivamente gli occhi all’inizio del ’41.
D’altro canto è proprio durante le lunghe giornate passate al buio,
spesso in convalescenza per le numerose operazioni agli occhi, che egli
concepì il suo «libro della notte». E se già l’Ulisse tematizza
l’«ineluttabile modalità del visibile … il pensiero attraverso i miei
occhi», nel Wake sono forzate oltre ogni limite le corrispondenze fra
esperienza sensibile e rappresentazione, fra la percezione e la sua resa
attraverso il medium letterario.
Forzature che danno luogo a un anti-romanzo, un enorme bisticcio
babelico che ospita quaranta idiomi, spesso distorti da innumerevoli
manipolazioni linguistiche e su cui si innerva, miracolosamente, una
trama esile, quasi irriconoscibile, eppure allegra, coinvolgente e
preziosa quanto una musica familiare. Non a caso Finnegan’s Wake è in
primo luogo il titolo di una ballata irlandese dove si racconta di un
ubriacone che, creduto morto, si risveglia quando durante la chiassosa
veglia del suo funerale qualcuno gli versa addosso del whisky. Ma con
Joyce, ogni lettura univoca è bandita fin dal titolo, dove la caduta
dell’accento del genitivo sassone attiva svariate possibilità
interpretative. E lo stesso vale per tutto il romanzo. Un narratore
identificabile nell’eroe mitico Finn, ma anche in H.C.E – acronimo per
mille soggetti, compresi «Here Comes Everybody» e «Humphrey Chimpden
Earwicker», gestore di un pub di Dublino – tesse «in sogno e ciondolando
sonnecchiante» le mille e una trama attorno a una donna/fiume, ALP, in
cui si può di volta in volta riconoscere Elena, l’Irlanda, Anna Livia
Plurabella o l’Anna Liffey, il fiume di Dublino, peraltro riflesso nei
nomi degli altri quattrocento fiumi citati nel testo. Con indole
lisergica il discorso onirico innesta le vicende della famiglia
Earwicker, soprattutto dei gemelli complementari Shaun e Shem, su una
serie di digressioni che forti di una aspirazione universalista
addensano le religioni, le mitologie e le storie più disparate.
Per moltiplicarne gli intrecci policromatici, Joyce abolisce i
vincoli ortografici e scavalca ogni norma sintattica e grammaticale,
procedendo alla distorsione sistematica dei codici narratologici e
linguistici secondo tecniche che già erano comparse episodicamente in
Lawrence Sterne, e in Lewis Carroll, nell’Ars Punica e nella
corrispondenza in Latin Anglicus (il latino letto in inglese) fra
Jonathan Swift e Thomas Sheridan – di cui nel Wake è non a caso citato
il curatore, Elrington Ball – e ancora, nelle Melodie Irlandesi di
Moore, nelle Canzoni di Perry French, nelle pubblicità trasmesse alla
radio e, soprattutto, nella ricchissima tradizione irlandese dei
limerick e dei jingle, dei jest book e delle nursery rhyme, degli
indovinelli e delle barzellette.
Da questo assembramento di voci che «tutte coriferavano
riecoreggiando», si erge una magnifica «letamebre» di pun, criptogrammi e
plagi, uno «stolentelling», secondo Joyce, di cui, se non fosse per le
indagini filologiche di critici e traduttori, tanto il lettore medio che
quello colto capirebbero assai poco. È in qualche modo curioso che
proprio il Wake sia considerato – come del resto riferì anche il suo
autore – intraducibile. Certo, sarà riguardato da una traduzione
speciale, come ebbe a dire Declan Kiberd, perché non è affatto chiaro in
quale lingua sia scritto e in che tipo di lingua sia legittimo
riprodurlo. Ma esattamente per questo motivo e per gli evidenti limiti
esegetici imposti dal testo, una traduzione sembra tanto più necessaria,
se si vuole tentare di portare alla luce esperienze di lettura e
percorsi di senso che, lasciati nella versione originale,resterebbero
oscuri.
È dunque con gratitudine che la platea dei joyciani, e non solo,
applaude in questi giorni la pubblicazione negli Oscar Moderni Mondadori
del Libro Terzo, Capitoli 1 e 2, del Finnegans Wake. I
sedicenti «straduttori», Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, riprendono
così l’impresa avviata da Luigi Schenoni, che licenziò la traduzione dei
primi due libri, usciti in quattro volumi, sempre presso Mondadori, fra
il 1982 e il 2011. A un’attenta analisi del testo pubblicato in questi
giorni, si direbbe però che, pur ispirandosi all’eccelso precedente di
Schenoni, i due traduttori abbiano piuttosto raccolto il testimone dallo
stesso Joyce.
Aiutato dall’amico Nino Frank, l’autore del Wake ne redasse
un’avvincente traduzione italiana, limitatamente al passo conosciuto
sotto il nome di Anna Livia Plurabelle. In questa versione, che il
teorico Michaël Oustinoff avrebbe chiamato «auto-traduction
recréatrice», i due si divertirono a inventare storture linguistiche in
qualche modo corrispondenti alle originali e, anziché arginare
l’inevitabile dispersione semantica potenzialmente derivata dalla
riproduzione delle ambiguità, sembrarono entusiasmarsi per le infinite
opzioni ermeneutiche e le associazioni incontrollate messe in gioco
dalla traduzione. Lo stesso accade nella ricreazione di Terrinoni e
Pedone attraverso la compenetrazione e la saldatura delle parole
(vilingue, parolaido, proclamore, fobiagrafia), gli anagrammi
(foldisalsi per «soldi falsi»), l’inversione delle funzioni grammaticali
(«disgustistimo postumista»), l’alternanza vocalica (hick, heck, hock),
gli acronimi (Ava Lissia Plustivala, Homelie Concordanti d’Eusebio), le
onomatopee (Ciucciuc a gorgheggiare, Gnahem, che è sia «gnam» sia
«amen», aggiuaggiuaggiuducacaggiù a indicare l’affogamento) e persino
giocando con le ambiguità che il tessuto fonico dell’italiano può
intercettare presso orecchi inglesi, francesi, tedeschi, ungheresi, e
così via (come con «feugtiva stagione», a echeggiare il tedesco
Feuchtigkeit e il danese fugtig, che alludono all’umidità, nonché il
francese feu, fuoco).
Il tutto, naturalmente, sviluppando una rete altrettanto fitta di
allusioni storiche e letterarie e sollecitando quella molteplicità di
livelli di lettura che è caratteristica fondamentale del Wake. Ma il
romanzo così tradotto non è soltanto stupefacente, plurale e tutto da
finire, in perfetto stile joyciano. Nella nuova veste e grazie al ricco
apparato critico, sembra venga eliminato anche un equivoco indotto da
alcuni celebri estimatori del passato, talmente intimoriti dal Wake da
riuscirne a parlare solo nei termini mirabolanti e iperbolici del
mostruoso, del demoniaco e, comunque, dell’eccezionalità. Toni dovuti,
molto probabilmente, all’ansia imbarazzata di giustificare il fascino
per un romanzo dichiaratamente per pochi. Ma se nel giovane Umberto Eco
l’intenzione era per l’appunto allettare una platea convinta di aver a
che fare con un’opera illeggibile, continuare oggi lungo questa strada
si risolverebbe in inerzia e contraddirebbe quella prospettiva
«democratica» adottata da Terrinoni insieme a Carlo Bigazzi nella
traduzione dell’Ulisse, e riprodotta, con Fabio Pedone in quest’ultima
fatica. Non dimentichiamoci, infatti, che la prima e fondamentale
magnificazione retorica di Joyce si risolse, in realtà, nell’adozione
mai aristocratica e mai nostalgica, di un profilo decisamente basso,
orizzontale e quotidiano, anche quando il registro era quello simbolico.
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