Minxin Pei: China’s Crony Capitalism, Harvard U.P.
Risvolto
When Deng Xiaoping launched China on
the path to economic reform in the late 1970s, he vowed to build
“socialism with Chinese characteristics.” More than three decades later,
China’s efforts to modernize have yielded something very different from
the working people’s paradise Deng envisioned: an incipient
kleptocracy, characterized by endemic corruption, soaring income
inequality, and growing social tensions. China’s Crony Capitalism
traces the origins of China’s present-day troubles to the series of
incomplete reforms from the post-Tiananmen era that decentralized the
control of public property without clarifying its ownership.
Beginning in the 1990s, changes in the control and ownership rights
of state-owned assets allowed well-connected government officials and
businessmen to amass huge fortunes through the systematic looting of
state-owned property—in particular land, natural resources, and assets
in state-run enterprises. Mustering compelling evidence from over two
hundred corruption cases involving government and law enforcement
officials, private businessmen, and organized crime members, Minxin Pei
shows how collusion among elites has spawned an illicit market for
power inside the party-state, in which bribes and official appointments
are surreptitiously but routinely traded. This system of crony
capitalism has created a legacy of criminality and entrenched privilege
that will make any movement toward democracy difficult and disorderly.
Rejecting conventional platitudes about the resilience of Chinese
Communist Party rule, Pei gathers unambiguous evidence that beneath
China’s facade of ever-expanding prosperity and power lies a Leninist
state in an advanced stage of decay.
Potere e capitalismo, i pericoli per Pechino
MOISÉS NAÍM Rep 13 2 2017
TUTTI e due governano una superpotenza militare ed economica. Uno di loro è un sostenitore del libero scambio e ha affermato che è un errore incolpare la globalizzazione di tutti i mali dell’umanità. L’altro sostiene che i commerci internazionali sono nocivi per il suo Paese e ha annunciato di voler tassare le importazioni. Il primo, difensore della globalizzazione e del commercio, è il segretario generale del Partito comunista più grande della storia (80 milioni di iscritti); è anche il presidente della Cina, la seconda potenza economica del pianeta. L’altro, il protezionista che attacca i commerci internazionali ogni volta che può, è Donald Trump, che guida la più importante economia capitalistica di tutti i tempi.
In questo strano mondo al rovescio, le decisioni di questi due presidenti, e quello che succederà ai rispettivi Paesi, influenzeranno tutti noi. Dei due, a catturare tutta l’attenzione in questo periodo è il nuovo presidente degli Stati Uniti, che ogni giorno infrange qualche regola, insulta qualcuno o aggredisce qualche istituzione, nazione o categoria di persone. Ma la grande attenzione che ci concentra su Trump ci impedisce di seguire più da vicino quello che sta succedendo nella Cina di Xi Jinping. Il colosso asiatico potrebbe essere in procinto di entrare in un periodo di forti convulsioni economiche e politiche, con ripercussioni internazionali ancora più gravi di quelle prodotte dai comportamenti imprevedibili del presidente americano.
La crescita dell’economia cinese ha rallentato, e di conseguenza ha rallentato anche la creazione di posti di lavoro. L’indebitamento incombe minaccioso, c’è una fuga di capitali e in generale la Cina soffre di una serie di squilibri che richiederanno l’assunzione di misure molto impopolari. Il Paese deve passare da un’economia basata sulle esportazioni e sugli investimenti, imponenti e indiscriminati, in infrastrutture, a un modello più sostenibile alimentato dai consumi interni, con maggiore disciplina nella spesa pubblica, negli investimenti e nell’indebitamento.
Su questo c’è consenso. Ma quel che non è chiaro è se sarà possibile condurre in porto le riforme necessarie con la velocità e l’efficacia necessarie. E non è chiaro nemmeno se questa transizione economica di ampio respiro potrà essere realizzata senza creare conflitti sociali e politici di gravità tale da destabilizzare il regime o addirittura mettere a rischio la permanenza al potere del Partito comunista cinese.
A questo proposito, il professor Minxin Pei, uno dei sinologi più apprezzati del pianeta, ha appena pubblicato un libro dal titolo China’s Crony Capitalism, “Il capitalismo dei compari in Cina”. Il crony capitalism si basa sulla complicità fra imprenditori e politici. I “compari” (e spesso i familiari) dei politici accumulano grandi ricchezze con l’aiuto del governo, mentre i politici ottengono e mantengono il potere grazie al denaro e all’influenza degli imprenditori amici. È un tipo di capitalismo corrotto che esiste in molti Paesi, ma in Cina, secondo Pei, ha assunto proporzioni colossali. L’opinione di Pei è che il crony capitalism mette in pericolo la sopravvivenza del regime e che l’egemonia del Partito comunista è destinata a finire.
Il professor Pei comincia il suo eccellente saggio citando il presidente Xi Jinping contro il malaffare, poi documenta la presenza diffusa e le conseguenze debilitanti di questa corruzione sistemica, e dimostra come la struttura del potere che si è venuta a creare sia al tempo stesso insostenibile e resistente al cambiamento. È una pessima combinazione. Le dimensioni e la complessità di un Paese di oltre un miliardo e trecento milioni di abitanti, con un’economia che si è decuplicata e un reddito pro capite cresciuto di tredici volte dal 1990 a oggi, rendono molto difficile accentrare il potere. Ma è proprio quello che sta cercando di fare il presidente Xi. Paradossalmente, il presidente cinese sta sfruttando l’indispensabile campagna contro la corruzione per eliminare i rivali e consolidare il suo potere.
Pei non crede che questa strategia possa funzionare. Secondo lui, l’attuale struttura di potere in Cina ha molte delle caratteristiche di un regime leninista in avanzato stato di decomposizione. Se Minxin Pei ha ragione e la Cina è destinata a destabilizzarsi, la presenza di Donald Trump alla Casa Bianca diventa ancora più nefasta. Twitter @ MoisesNaim Traduzione di Fabio Galimberti
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Cina Italia Missione per rilanciare business e diplomaziaIl presidente Mattarella incontrerà Xi Jinping a Pechino il 22 febbraio. Un viaggio che è un’opportunità per le nostre imprese dopo un calo nell’interscambio dei Paesi della UeANGELO AQUARO Rep 133 2 2017
Cinque come gli archi della porta di Tiananmen che conduce alla Città Proibita, 5 come il numero dell’Imperatore: 5 giorni pieni pieni, al netto ovviamente di partenze, ritorni e rimbalzi di fuso orario. Cinque, qui, è considerato numero fortunato, e infatti ogni 5 anni si (auto) rinnova la leadership. Per questo a Pechino non sarà sfuggita la coincidenza dell’imminente visita di Stato del presidente Sergio Mattarella: 5 giorni come i 5 miliardi di euro di fatturato delle nostre quasi 2mila imprese presenti in Cina che producono 60mila posti di lavoro. O i 5 settori del made in Italy nella “Road to Fifty” verso il 50esimo anniversario dei rapporti diplomatici che si festeggiano nel 2020: sanità, agroalimentare, urbanizzazione, ambiente e aerospazio. O, ancora, il 5% del volume dei nostri scambi internazionali che si muovono sull’asse Roma-Pechino: e che fa della Cina il nostro quinto, et voilà, partner commerciale. Certo che ancora non basta: soprattutto dopo il campanello d’allarme che Eurostat lancia facendo i conti dell’anno appena chiuso. Il valore dell’interscambio Cina-Ue in flessione. Le esportazioni europee verso Pechino in perdita di 4 miliardi per la frenata di Inghilterra e Francia: che insieme alla locomotiva Germania sono il terzetto piazzato proprio davanti all’Italia. D’altronde anche a questo servono le visite di Stato: a riaffermare presenza e immagine. E a ribadire un legame economico che al momento può essere potenzialmente rilanciato dai miliardi di dollari che i cinesi hanno messo sul piatto della nuova Via della Seta, quel gigantesco piano di infrastrutture conosciuto anche come One Belt One Road che è la traduzione in pratica della visione Sì Global, e anche un po’ sinocentrica, che il presidente Xi Jinping ha rispolverato a Davos.
Il cinese più potente dai tempi di Mao e Deng riceverà ora il presidente Mattarella mercoledì 22 febbraio. Due appuntamenti in agenda: l’incontro che segnerà il via ufficiale della spedizione, partita dall’Italia il giorno 20, e poi il pranzo di Stato dove, si sa, vengono apparecchiate le questioni più delicate. Basta del resto dare un’occhiata al calendario che il Quirinale ha pubblicato sul suo sito per individuare in ogni tappa un obiettivo. Subito a Pechino, capitale dell’impero, per volare poi a Shanghai, la capitale finanziaria, ma anche a Chongqing, la “nuova frontiera” dell’automotive e dell’hi-tech, fino a quella Xian dei Guerrieri di Terracotta che è il manifesto culturale di qui.
La visita cade in un momento strategico: è la prima dell’anno di un capo di Stato — e per Pechino anche questi numeri contano — e arriva alla vigilia del G7 italiano. Sarà anche una sincronicità fortuita ma premia il Sistema Italia di quaggiù che tra ambasciata, rete consolare, Ice e camera di commercio, ma anche tante imprese, associazioni o singoli sintonizzati sul progetto, lavora da tempo per rafforzare un’amicizia, riscaldata oggi dalla febbre del pallone, che è naturalmente anche un’opportunità per entrambi. E le buone notizie arrivate alla vigi- lia sono almeno due. La prima: malgrado il calo dell’interscambio e lo squilibrio su investimenti e import-export, il deficit italiano è comunque in contrazione di un miliardo. La seconda: se continuiamo a esportare soprattutto macchinari (34.6%, + 0.47%) e moda (15.8%, — 1.19%), il business in cui cresciamo a due cifre, grazie anche all’e-commerce e a un accordo con Alibaba, è quello tipicamente italiano del vino (+11,8%). E le potenzialità lì sono enormi visto che nel mercato più grande del mondo abbiamo finora patito dietro Francia, Cile, Australia e Spagna.
Naturalmente quando si parla di investimenti il discorso è sempre reciproco. E qui i numeri non sono fortunati per niente. I cinesi in Italia comprano sempre meno. Tre anni fa avevano saggiato il terreno mettendo un po’ di soldini dentro Fca, Telecom, Eni, Enel, Generali, Terna, versando 400 milioni in Ansaldo Energia e la bellezza di 2,81 miliardi nella Cassa Depositi e Prestiti nonché bevendosi pure l’olio di Filippo Berio. Nel 2015 il boom, con gli 8,8 miliardi pagati da ChemChina per Pirelli. Poi, l’anno scorso, niente. Che succede? «Bisogna essere pratici su queste cose», dice Michele Geraci, ex allievo del Mit che dopo avere affilato gli artigli in Merrill Lynch e altri big di Wall Street oggi insegna tra Nyu, Nottingham e Zhejiang University: «Io chiedo sempre senza girarci intorno: che cosa vogliamo venderci? Che progetto abbiamo?». Le occasioni per richiamare l’attenzione di Pechino non mancano. Qui, per esempio, si parla da troppo tempo dell’ultimo miglio della cosiddetta via della seta marittima: i cinesi, sì, si sono già comprati il Pireo, ma davvero l’Italia non può offrire nessuna alternativa lungo il suo Adriatico? Non è un caso che il presidente sarà accompagnato, insieme al responsabile della Farnesina Angelino Alfano, dal ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, che rappresenta dopo il premier Paolo Gentiloni quella continuità così preziosa per Pechino tra questo governo e l’esecutivo di Matteo Renzi, l’unico premier occidentale a essersi incontrato due volte in tre mesi con Xi. Spetterà adesso al Business Forum presieduto da Marco Tronchetti Provera e al Forum Culturale di Francesco Rutelli squadernare i tanti affari da discutere quaggiù. E la presenza di Ivan Scalfarotto, il sottosegretario al commercio internazionale ormai alla sua quinta missione in Cina, lascia pensare che il governo sia anche pronto a metterci le firme: per una volta, si spera, anche più di cinque. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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