giovedì 16 febbraio 2017

Il fascismo alle porte. L'improbabile risposta liberal al "populismo" provocato dai liberal stessi: Kupchan



Charles A. Kupchan* Busiarda 15 2 2017
Insieme  la Pax Britannica e la Pax Americana hanno fornito le basi dell’attuale mondo globalizzato. Eppure oggi entrambi i membri fondatori dell’Occidente stanno allontanandosi dall’ordine che hanno contribuito a stabilire e a mantenere con un notevole dispendio di sangue e di denaro. Il voto sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump hanno chiarito che molti cittadini britannici e americani ne hanno abbastanza dell’ordine internazionale liberale, consolidatosi dopo la Seconda guerra mondiale. In lotta per guadagnare un salario di sussistenza, a disagio con la diversità sociale alimentata dall’immigrazione, e preoccupati per il terrorismo, un numero considerevole di elettori delle democrazie occidentali ha la sensazione di aver tutto da perdere dalla globalizzazione - e vuole abbandonarla.
Giusto. La legittima rabbia di questi elettori rende chiaro che i nostri sistemi politici post-industriali non hanno fatto abbastanza per gestire la globalizzazione e garantire che i suoi benefici fossero condivisi più ampiamente nelle nostre società. L’elezione di Trump e l’imminente uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sono segnali allarmanti; ignoriamo le difficoltà della nostra classe operaia mettendo a rischio la democrazia occidentale. Qualunque cosa si pensi di Donald Trump, la sua ascesa rivela che c’è un disperato bisogno di riformulare il patto sociale che sostiene il centrismo democratico e il sostegno popolare a un ordine liberale internazionale.
Il problema è che Trump e i suoi compagni populisti non intendono offrire un nuovo patto sociale; stanno imbrogliando i loro sostenitori. Le politiche di Trump e la sua retorica possono fare gioco con la sua base e il suo fervore anti-sistema, ma la piega che sta prendendo promette, se mai, solo di aggravare le sofferenze degli americani in difficoltà. Non si può tornare all’economia industriale degli Anni 50, quando l’industria manifatturiera trainava l’economia degli Stati Uniti. Quando la realtà si imporrà, Trump potrà sentire il bisogno di ricorrere a un populismo ancora più irresponsabile, mettendo in pericolo tutto ciò che è rimasto della nostra democrazia deliberativa basata sui fatti.
Un nuovo patto sociale comporta che la globalizzazione sia gestita meglio, non che la si rinneghi. Se Washington costruisce un muro al confine con il Messico, respinge le notevoli tariffe sulle importazioni, e blocca o spaventa gli immigrati che contribuiscono a alimentare la crescita, il principale risultato sarà un rallentamento economico, prezzi più elevati per molti beni di consumo e un’economia meno competitiva e innovativa. A dire il vero, Trump potrebbe riuscire a riportare in patria alcune linee manifatturiere. Ma sono posti di lavoro che stanno diminuendo di numero soprattutto per l’automazione, non a causa del commercio estero.
Inoltre, gli Stati Uniti non saranno «di nuovo grandi» costruendo migliori lavatrici e condizionatori d’aria (anche se sarebbe certamente gradito), ma restando leader mondiali nei campi dell’innovazione, della tecnologia e dell’istruzione - che sui nuovi arrivati ci campano. Molti immigrati lavorano nel settore dei servizi, ma sono anche collaboratori strategici del settore high-tech. Un recente studio sulle start-up americane valutate oltre un bilione di dollari ha rivelato che la metà sono state fondate da stranieri e oltre il 70 per cento da immigrati che sono dirigenti di alto livello.
Il Regno Unito si sta mettendo nello stesso cul de sac. I fautori della Brexit promettono una «Gran Bretagna globale» affrancata dagli obblighi politici e fiscali dell’adesione all’Ue e libera di scegliere i suoi rapporti commerciali. Con il traguardo di un’economia in ripresa. Ma, se la Gran Bretagna si stacca dal più grande mercato del mondo e sta a guardare mentre gli imprenditori e le società finanziarie se ne vanno verso il continente, la sua economia è destinata a ridimensionarsi drasticamente. E anche se il Regno Unito resta aperto al libero scambio, dal momento che rappresenta meno del 20 per cento del mercato unico europeo, difficilmente sarà in grado di negoziare migliori patti commerciali in proprio.
Nel momento in cui gli Stati Uniti e il Regno Unito optano per le politiche dell’illusione e della rottura piuttosto che fare affidamento sulle decisioni condivise e sulle politiche informate, potremmo davvero essere alla fine dell’era dell’internazionalismo liberale che si è aperta nel 1945. Per scongiurare questo rischio ci sono tre cose a cui si deve mettere mano con urgenza.
In primo luogo, i centristi di tutte le convinzioni politiche devono unirsi per offrire un nuovo patto sociale che rappresenti un’alternativa credibile alle false promesse economiche dei populisti. Restituire ai lavoratori la fiducia nelle istituzioni politiche richiede un piano globale - nuove iniziative in materia di istruzione, formazione professionale, politica commerciale, politica fiscale e minimi salariali - per fare sì che tutti abbiano un tenore di vita adeguato e godano dei benefici della globalizzazione. Che è destinata a durare. Ma la disomogeneità dei suoi effetti distributivi dev’essere affrontata per il bene della politica democratica.
In secondo luogo, mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo - rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati.
Infine, se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale.
traduzione di Carla Reschia
*Docente di Affari internazionali 
alla Georgetown University 
e membro del Council on Foreign Relations. Dal 2014 al 2017 è stato assistente speciale per la Sicurezza nazionale del presidente Barack Obama. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con «La Stampa» BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

IL PD E LA TALPA DELL’ULTRADESTRA EZIO MAURO Rep 15 2 2017
DRAMMATICAMENTE, il mondo sta cambiando e la sinistra non riesce a leggere la metamorfosi. Non soltanto perde: questo capita periodicamente e capita a tutti, nell’alternarsi dei cicli politici, e in qualche caso è persino salutare. No, questa volta finisce fuori dal campo, perché sono rapidamente cambiate le regole del gioco e la sinistra non se n’è accorta. All’improvviso, sente mancare politicamente l’aria intorno a sé, e non capisce che dipende dal restringimento del pensiero occidentale e della democrazia liberale, la doppia cornice dentro la quale ha potuto declinare la sua teoria e la sua pratica nell’Europa degli ultimi decenni, riconoscendosi in un patto di civiltà comune con la cultura politica cristiana, con i moderati continentali, con i conservatori della tradizione e della ragione. Un paesaggio democratico che credevamo conquistato per sempre, a garanzia di noi stessi e degli altri.
Ma ecco che il sovranismo cambia la geografia emotiva e riduce l’orizzonte internazionalista in cui si muoveva la sinistra.
UNA sinistra impegnata a immaginare istituzioni sovranazionali, organismi di composizione dei conflitti secondo il diritto, emancipazioni progressive in nome dell’universalità del principio democratico. E intanto, mentre la sinistra progettava l’ultima utopia di governo mondiale, la nuova talpa dell’ultradestra le scavava il terreno sotto i piedi, aiutata dallo spaesamento della globalizzazione, dall’impoverimento della finanziarizzazione, dall’isolamento della disaffezione che rimpiccioliscono ogni dimensione collettiva a problema individuale: e come tale insolubile.
Il risultato culturale degli Anni Dieci del secolo nuovo è sotto gli occhi di tutti. L’arricchimento si è sostituito alla crescita, l’ingiustizia ha preso il posto della disuguaglianza, il ricco e il povero non si tengono più insieme perché il primo non ha ormai bisogno del secondo, la profezia di Margaret Thatcher si avvera nell’esaurimento del concetto di società, mentre sale il numero degli esclusi, i tagliati fuori: che per la prima volta nel dopoguerra non si sentono più coperti dal privilegio democratico, dunque non riconoscono il valore d’uso della democrazia, convinti che distribuisca oggi i suoi dividendi soltanto tra i garantiti, diventando anch’essa strumento di selezione anziché di inclusione.
Ma se è questo patto di civiltà che sta saltando, siamo davanti ad una vera e propria emergenza culturale. Sono le basi stesse del pensiero politico fin qui sperimentato che traballano, non solo i partiti e i governi. Dagli squarci che la neodestra apre nel principio occidentale, nei valori liberali, emergono le pulsioni trumpiane di razza, pelle, sangue e nazione, riaffiora addirittura la selezione lepeniana dei diritti degli ebrei, mascherata dall’apparente ottusità di una pratica amministrativa “banale”, come un secolo fa. Sono propositi e idee che sembravano inconcepibili fino a ieri e che invece oggi diventano rapidamente politica, destra “realizzata”, nel momento in cui si rompono quelle due cornici ideali che davano al nostro mondo un quadro culturale condiviso. C’è da stupirsi che questa politica fatta carne e sangue, qui ed ora, per me e per i miei simili e nessun altro, possa trovare consenso e adesione? Che possa addirittura produrre egemonia nella sua radicalità egoista?
Il populismo ha esattamente questo effetto pratico, la sostituzione del cittadino globale con l’individuo spaventato, da coltivare nell’illusione di un rapporto diretto con il leader, in una verticalità virtuale fatta solo di pulsioni, sensazioni e vibrazioni di consenso, senza la dimensione orizzontale del rapporto con gli altri attraverso un bisogno che diventa idea, si collega ad un interesse legittimo diffuso, riconosce un valore ideale a cui collegarsi, articola tutto questo in proposta e infine lo trasforma in politica, intrecciata di rapporti sociali. Non siamo più qui.
Nella solitudine repubblicana, nell’impoverimento democratico, nella svalutazione della rappresentanza non c’è più il filo che unisce l’individuale al collettivo e questa solitudine dei numeri primi apre spazi alle paure sovrastanti, alla deriva dell’onda globale, all’insicurezza della marea migratoria, alla minaccia del terrorismo jihadista. Il rinsecchimento progressivo della politica, il suo impoverimento nella corsa alla semplificazione, fa sì che ai leader oggi si chieda poco più che l’impersonificazione delle paure, la loro rappresentazione, vista come un segno di riconoscimento e di condivisione per una cittadinanza dispersa. Il populismo non ha soluzioni, ma ha una forte e continua meccanica di interpretazione e riproduzione degli incubi che abitano gli spazi vuoti della post-democrazia. In questo modo li rimette in circolo arricchiti e autorizzati, funzionando da specchio che fissa l’immagine e la moltiplica, in una riduzione drammatica della politica alla paura.
Nell’altra vera emergenza che avevamo attraversato, il terrorismo, la politica aveva svolto tutt’altra funzione elaborando una teoria dello Stato e una pedagogia civile di massa, con la sinistra che insieme con la cultura cattolica aveva messo in campo le ragioni — magari opposte e senz’altro diverse — per la difesa di una democrazia largamente imperfetta e di istituzioni lontane. Democrazia e istituzioni andavano difese, bisognava salvarle per poi poterle cambiare. Questa è la forza di un pensiero che è arrivato al popolo, come si dice oggi, e in particolare alla classe operaia che riuscì a salvarsi dal contagio. Dunque la politica può produrre cultura e nella cultura consenso, la sinistra (indipendentemente dal suo ruolo: allora era in gran parte all’opposizione) può esercitare nei momenti più critici una funzione di responsabilità nazionale, cui dovrebbero chiamarla la sua storia e la sua tradizione, oltre ai valori ai quali fa riferimento.
Anzi, il futuro possibile per la sinistra, in questa fase, sta probabilmente proprio nella capacità di coniugare la responsabilità con le opportunità residue di emancipazione e di futuro, che pure esistono anche in una congiuntura così sfavorevole. A patto di unire alla responsabilità di governo — che abbiamo sempre chiamato riformismo, per distinguerla dalla pseudosinistra capace solo della feroce gioia distruttiva che dà corpo all’antipolitica — una critica radicale al pensiero unico dominante che ci ha portati dentro la crisi economica, ci sta portando dentro una crisi politica e rischia di portarci dentro una crisi istituzionale.
Una delle ragioni elementari della cavalcata populista, infatti, è nella sensazione lasciata al “forgotten man”, all’esercito degli esclusi e ai cittadini delusi che l’alternativa sia possibile soltanto fuori dal sistema. È un errore capitale. Come se il sistema fosse diventato incapace di generare anticorpi, correzioni, dubbi, e infine di produrre un’obiezione culturale. Quasi che una sovrastruttura di pensiero avesse uniformato e appiattito le grandi culture politiche europee spegnendo i loro caratteri distintivi fino a renderle apparentemente indistinguibili. Trasmettendo così l’idea di un blocco indifferenziato di comando e di potere — l’indistinto democratico — impermeabile nella sua autoconservazione, capace di riprodursi per cooptazione ma non di rigenerarsi pubblicamente. Con il deperimento dell’energia culturale dei due poli della tradizione democratica, il conservatore e il progressista, che nell’assimilazione reciproca vedono impoverirsi le loro idee-forza, che sono naturalmente la libertà e l’emancipazione.
Se è così, c’è nientemeno che da ridefinire il concetto di sinistra, per salvarlo, mentre il pensiero conservatore è addirittura colpito al cuore dal virus trionfante dell’ultradestra, e deve recuperare lo spazio di una cultura di governo moderata. La sinistra non può che partire dal lavoro, come strumento di cittadinanza, di realizzazione, di integrazione, ma soprattutto di libertà, perché non c’è libertà politica possibile senza la libertà materiale. I diritti e i valori cui la sinistra si riferisce vanno ormai declinati nella materialità della crisi e nel suo cambio di gerarchia delle necessità. Perché ad esempio lasciare alla disumanità propagandista dell’ultradestra il tema della sicurezza che agita la parte più debole ed esposta della popolazione, gli anziani, gli abitanti delle periferie e dei piccoli centri? Perché, quando la sinistra potrebbe rispondere democraticamente al bisogno di controllo e di tutela con una politica di governo che salvi insieme la sicurezza e la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri?
Non si tratta di competere soltanto per il governo, come avviene in tempi normali: oggi si compete anche e soprattutto per salvare il pensiero democratico- liberale e il disegno della civiltà occidentale. Se la scala è questa, la discussione interna al Pd è inadeguata rispetto alle responsabilità che competono alla sinistra, e al suo sentimento. Chi di fronte a questa responsabilità — che è anche un’occasione politica straordinaria — parla di scissione, o spinge gli altri a farla, tradisce le speranze che proprio dieci anni fa accompagnarono la nascita di quell’incompiuta che si chiama Pd: si comportano come fosse roba loro, mentre invece appartiene al popolo della sinistra, che nonostante tutto esiste. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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