Quale essere senziente, dopo aver ripetutamente verificato nel corso di 20 anni di merda che nei vigenti rapporti di forza un determinato percorso politico, magari sensato in altre epoche, non offre altro sbocco se non - di compromesso al ribasso in compromesso al ribasso - un ulteriore slittamento a destra, si ostina a ripetere il medesimo errore ad ogni nuovo baluginare delle elezioni, sbavando cupido al pensiero dello scranno e ratto rimuovendo ogni accenno di autocritica formulato dopo l'ultimo recentissimo fallimento, perché tanto "non c'è alternativa"?
Chi, dopo aver spalancato un'autostrada a un Movimento 5 Stelle, che è pieno di mentecatti e le spara grosse ogni giorno ma cresce proprio sulla propria diversità intransigente, invita alle alleanze perché con l'estremismo "si rimane isolati"?
Chi va incontro gioioso all'eterno ritorno dell'eguale cetriolone, soddisfatto di incarnare la tradizionale inclinazione popolare a una responsabilità nazionale che coincide con la distribuzione del meno peggio attraverso lo sfintere anale, ma verso l'interno?
Chi conserva il diritto di parola - e di pubblicazione sul Manifesto - pur avendo in passato riposto la propria fiducia politica in D'Alema, o in Vendola, che ci hanno portato dove siamo, o in chi per loro?
E' il mulo? E' il primate? E' il protozoo?
Ma no, è lui: il quadro politico medio della sinistra italiana di ogni orientamento, da Rifondazione a SEL a tutti gli altri [SGA].
“Ormai il Pd è imploso nascerà un movimento per la riscossa a sinistra”
La decisione di procedere all’affondo è nata all’inizio della settimana nel corso di un pranzo con Davide Zoggia, Danilo Leva, Roberto Speranza e Nico Stumpo. Oltre ad essere il quartetto dei vicinissimi all’ex segretario i deputati costituiscono, insieme al senatore Miguel Gotor, anche il drappello degli ufficiali di collegamento con D’Alema. Alcuni hanno già un piede fuori dal Pd: Danilo Leva, ex responsabile giustizia, presto sarà il referente di ConSenso, l’associazione dalemiana, per la regione Molise da cui è stato eletto. Durante il pranzo i quattro hanno spiegato, con toni definitivi, che la situazione nel Pd è insostenibile. La discussione interna è ormai impraticabile. L’accelerazione renziana verso il voto mira a ’epurarli’ dalle liste. L’offerta di dieci posti da capolista è solo una provocazione. E la prova del nove sarebbe stata l’accoglienza ricevuta da Speranza e Stumpo all’assemblea di Rimini, alla quale si erano scapicollati dopo quella di Roma in nome dell’unità: cordialità da parte della platea, gelo da parte dei renziani.
Così Bersani decide di non negare più la possibilità di scissione. Martedì con l’affermazione «non minaccio ma non garantisco». Ieri – mercoledì – con la minaccia vera. Ma anche – Bersani è sempre Bersani, a un passo avanti segue almeno un passo indietro – con l’indicazione di una possibile strada per ricucire: se Renzi non vuol fare il congresso anticipato perché «non vuole dimettersi», prima delle elezioni potrebbe comunque fare un’altra cosa: «Chiamalo come vuoi, congresso, primarie, ma un luogo di confronto e di contendibilità lo chiedo. Per l’amor dio Dio, non mi si parli di Statuto e cavilli. L’assemblea in un partito è sovrana e può fare quel che vuole. Sia chiaro, serve una roba vera, non una gazebata», insomma «si trovi il modo».
Così a stretto giro è il presidente Matteo Orfini a lanciare l’ancora da Carta Bianca, la trasmissione di Bianca Berlinguer su Raitre: «Se ci dovesse essere un’accelerazione sul voto, non faremo in tempo a fare il congresso. Si può trovare il modo di fare le primarie prima delle elezioni». Un’apertura, mezza. Registrata dalla minoranza come «un fatto positivo». In due sottolineano lo stesso concetto: «La via maestra resta congresso e una buona legge elettorale» e tuttavia «nel caso si trattasse di una discussione vera nei circoli sulla linea politica potrebbe essere l’inizio di un ragionamento», «ma le primarie debbono essere di coalizione». Ma nessuno vuole esporsi: «La proposta di Orfini potrebbe essere solo un’esca, aspettiamo quello che dice Renzi. È lui che comanda». In realtà anche il vicesegretario Lorenzo Guerini è fra i ’pontieri’.
Ma Renzi in questi giorni non dà segni di interessarsi un granché della sorte della minoranza. In caso di ’listone’ punterebbe a affidare la parte della ’sinistra’ (cioè la sinistra di sua maestà) a chi ritiene più affidabile per sé. Come ad esempio il presidente del Lazio Nicola Zingaretti, che infatti dalla viva voce del ministro Luca Lotti ha ricevuto l’offerta di un posto da capolista al senato. L’interessato con i suoi collaboratori smentisce seccamente: soprattutto smentisce l’intenzione di accettare.
Certo è che lo strappo non ancora consumato di D’Alema ha provocato un contraccolpo al Nazareno. Dopo anni di gelo, l’area bersaniana è tornata fan dell’ex presidente Giorgio Napolitano, che ieri ha lanciato un accigliato monito: «Nei paesi civili alle elezioni si va a scadenza naturale e a noi manca ancora un anno», «Per togliere le fiducia ad un governo deve accadere qualcosa. Non si fa certo per il calcolo tattico di qualcuno…». Parole dure all’indirizzo di Renzi. Alle quali è seguita la sgangherata accusa di «traditore» da parte del leghista Salvini, quindi una difesa generale dell’ex inquilino del Colle. Che però, nonostante la proverbiale memoria, dimentica di aver lasciato sfiduciare Enrico Letta nella stessa maniera. Erano solo tre anni fa. Allora non seguirono le elezioni anticipate. Era proprio, guarda caso, il 13 febbraio. La stessa data in cui è convocata la prossima direzione del Pd. Anche Bersani deve essere venuto un déjà vu per questo. E infatti ha avvertito anche il premier Gentiloni: «Un presidente del consiglio giura sulla Costituzione, non facciamo vedere un autolicenziamento in streaming alla direzione del Pd».
La solitudine dell’ex premier ora l’assedio è anche nel Pd “Sotto tiro come un piccione”
Tutti i padri nobili del centrosinistra gelano la corsa alle elezioni. Renzi promette uno sforzo per convincerli: “Prove dure, servirà un governo forte”GOFFREDO DE MARCHIS Rep 2 2 2017
«È un tiro al piccione. Il piccione sono io», dice Matteo Renzi agli amici nel giorno in cui è sembrato più solo dal 4 dicembre. Per rompere l’assedio il segretario del Pd ha telefonato all’ultimo dei padri nobili del centrosinistra ad averlo messo nel mirino: Giorgio Napolitano. Era un mese che non si sentivano. Ieri mattina l’ex capo dello Stato si è scagliato contro il voto a giugno secondo lui dettato dal «calcolo tattico di qualcuno». Praticamente ha fatto nome e cognome. Renzi non ha chiamato per litigare, ma per esprimergli solidarietà dopo le offese di Matteo Salvini. Eppoi, certo, ha spiegato al presidente emerito la sua posizione.
Una posizione che fatica a farsi strada in Parlamento e viene osteggiata da altri leader di quello che fu l’Ulivo, non a caso evocato da Pier Luigi Bersani in un’intervista all’Huffington. Da Romano Prodi a Bersani, sempre più prossimo alla scissione, da Massimo D’Alema, che ha già tratto il dado, a Enrico Letta, silente ma critico. D’Alema fondatore dell’Ulivo è una definizione che fa sempre arrabbiare Renzi, (semmai lo considera l’affondatore del progetto), ma è un fatto che quel gruppo dirigente, con il suo carico di storia (glorie ed errori compresi), lo ha isolato. Ha rotto con lui in maniera definitiva. Per Renzi però non ci sono ragioni politiche in questo strappo. Vogliono buttarlo fuori, è il pensiero del segretario. Punto.
Altri segnali non sono buoni, come la rivolta dei parlamentari del Pd, di tutte le razze e correnti, dopo l’uscita renziana sui vitalizi. Persino gli amici più cari, a Montecitorio, invocano, scherzando, «la camicia di forza», descrivono «la scarsa lucidità» del leader. E se si parla di soldi, allora altri insinuano che Renzi voglia correre al voto per avere finalmente lo stipendio da parlamentare. «Parliamo di vil denaro? - dice Enzo Lattuca, giovanissimo deputato Pd -. Negli ultimi 4 anni, io ho versato al partito 125 mila euro. Matteo quanti?».
È sempre più evidente che Renzi non può giocarsi il tutto per tutto da solo. Deve avere delle sponde, non può spaccare tutto, è obbligato a salvare il salvabile. Infatti ora dice: «Cercherò di coinvolgere tutto il partito nel percorso. Parlerò con tutti. Mi dispiace che passi l’idea che io voglia andare alle urne per forza. Non è così. Non me l’ha mica ordinato il dottore».
La sua linea però non è cambiata, la frenata riguarda gli equilibri esplosi del Partito democratico, non i buoni motivi per andare a votare a giugno. O meglio, il buon motivo perchè Renzi lo ha ridotto a uno, il più convincente secondo lui, quello fondamentale. C’è una legge di bilancio difficile da varare a settembre, è l’analisi del segretario, «miliardi e miliardi delle clausole di salvaguardia da gestire». Questa legge perciò la deve scrivere e votare un governo forte, legittimato dalle urne, che abbia 5 anni di lavoro davanti. Messa così, diventa una questione di buonsenso e di rispetto verso gli elettori e non la paura di pagare un prezzo salatissimo nel febbraio del 2018 dopo una finanziaria varata comunque da un governo del Pd, il governo Gentiloni.
Prima della direzione del 13 febbraio, Renzi proverà a spiegare la linea ai big del Pd e con lui lo faranno i fedelissimi. Ieri per esempio alla Camera ci ha provato Graziano Delrio discutendo invano con Bruno Tabacci. Il congresso non è invece una soluzione, non serve a pacificare il Pd, è il pensiero di Renzi. «Non lo hanno voluto loro, quelli della minoranza. È pazzesco come faccia fatica a emergere questa semplice verità. Lo hanno chiesto invece quando la Consulta ha confermato i capilista bloccati...». Come dire: quando ci sono stati i posti in ballo, si sono svegliati. Per sedersi al tavolo delle candidature. Però qualcosa deve cambiare nella natura renziana. Ormai è evidente anche a Largo del Nazareno. E non basta fare accordi con la Lega e con Grillo, il quale poi cambia idea sui capilista. Renzi giura di essersi convinto. Ma al patto con Salvini e M5s non rinuncia.
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Bersani: “Pronti a un nuovo Ulivo”
L’ex segretario dem fa un altro passo fuori dal Pd: “Se Renzi insiste, il partito è finito”. D’Alema: “Convincente” Il piano per coinvolgere i moderati ed evitare che nasca una forza minoritaria. Il ruolo di Letta e degli ex prodianiRep 2 2 2017
Bersani fa ancora un passo fuori dal Pd. L’ex segretario avverte Renzi: «Se forza, rifiutando il congresso e una qualunque altra forma di confronto e di contendibilità della linea politica e della leadership per andare al voto, è finito il Pd». Ma quello che a Bersani preme chiarire è che «non nasce la “Cosa 3” di D’Alema, di Bersani o di altri, ma un soggetto ulivista largo, plurale, democratico». Il progetto alternativo al renzismo che il leader della sinistra dem ha in mente è d’impostazione ulivista. Non vuole una sorta di Ds-bis o una lista a sinistra del Pd che potrebbe arrivare forse all’8%. L’impresa è più ambiziosa. E in un’impresa ulivista sarebbero certamente coinvolti i prodiani anti renziani e tutto un mondo popolare che al renzismo è stato insofferente, ad esempio Rosy Bindi. Un raggruppamento che potrebbe vedere anche la presenza di Enrico Letta.
Nell’intervista ieri all’Huffington Post, l’ex segretario dem, che ha ripetuto incessantemente negli ultimi mesi di non volere abbandonare il Pd, il partito che ha contribuito a fondare, neppure con le cannonate, non entra nel dettaglio del nuovo progetto. Ma certo punta a ricalibrare l’alternativa al renzismo lanciata da D’Alema. «Vogliamo dirci la verità? - aggiunge Bersani - Per anticipare il congresso servono le dimissioni del segretario, evidentemente qualcuno non si vuole dimettere... non mi si parli di cavilli e statuto, l’assemblea è sovrana e chiamalo come vuoi, congresso, primarie... sia chiaro serve una roba vera, non una gazebata». Nessuno insomma si aspetti «che semplicemente avvenga qualcosa che assomigli a una rottura tra Ds e Margherita. Otto anni non sono passati invano e l’idea del Pd risorgerebbe dalle ceneri perché è una idea buona». È l’opinione di Bersani. Che D’Alema apprezza: «Convincente. A me piacerebbe discutere democraticamente nel mio partito ma questo non mi viene concesso». Il movimento lanciato dall’ex premier sabato scorso “Consenso” sta raccogliendo le prime adesioni: si parla di due deputati pronti ad associarsi.
Un tentativo di evitare il braccio di ferro lo fa il presidente del Pd, Matteo Orfini che prevede primarie se si anticiperà il voto. «Se c’è un’accelerazione non facciamo in tempo a fare il congresso ma c’è l’esigenza di ridiscutere con quale candidato andremo alle elezioni, come chiede Bersani, potremmo tranquillamente trovare il modo di fare le primarie prima delle elezioni». Per i bersaniani però il problema è più grave. «Nel Pd si è aperta una enorme questione democratica - spiega Bersani, chiedendo che il governo Gentiloni vada avanti. «Evitiamo un autolicenziamento in streaming alla direzione del Pd del 13 febbraio ».
( g. c.)
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