giovedì 23 febbraio 2017
Il mito di Aldo Manuzio. Le Lettere Prefatorie
Risvolto
Avviare un'impresa editoriale implica, da sempre, una buona dose di
coraggio. Ma nel caso di Aldo Manuzio, che nel 1495 si propone di
stampare libri greci guardando oltre i ristretti confini dell'Italia,
sarebbe meglio parlare di temerarietà. Il suo rivoluzionario disegno
comportava infatti difficoltà tali da scoraggiare chiunque, giacché
esigeva, oltre che un fiuto fuori del comune, collaboratori di
prim'ordine e con competenze linguistiche per quell'epoca rare – persino
a Venezia, dove pure viveva una florida colonia greca; e manoscritti,
non meno rari, su cui fondare le edizioni; e incisori di eccezionale
abilità tecnica, capaci di creare tipi che gareggiassero con la grafia
dei più eleganti copisti. Senza contare la difficoltà forse maggiore: il
numero, inevitabilmente ristretto, dei possibili acquirenti. Ma di
fronte a questi scogli Manuzio non arretra: e vara il suo programma
editoriale con la grammatica greca di Costantino Lascaris, procuratagli
da uno scout d'eccezione, Pietro Bembo. Altre meraviglie seguiranno:
dalla prima, monumentale edizione di Aristotele a Sofocle – proposto nel
1502 nel nuovo formato (i cosiddetti libelli portatiles) con
cui ormai da un anno aveva genialmente ampliato il suo pubblico –, da
Tucidide ed Erodoto a Euripide, Omero e Platone. Nei vent’anni della sua
attività Manuzio riuscirà a imporre non soltanto un modello di editoria
ammirato in tutta Europa, ma un modo nuovo di accedere ai testi,
svolgendo così un ruolo che era stato sino ad allora prerogativa dei
grandi maestri della letteratura e della filologia.
Filologia e storia della cultura. Armonica fusione di imprenditoria e cultura: così lo stampatore erudito Aldo Manuzio, di cui Adelphi ripubblica le «Lettere prefatorie a edizioni greche», fece di Venezia una seconda Bisanzio
Paolo Pellegrini Alias Domenica 7.1.2018, 0:21
«Non c’è manuale di storia della letteratura che possa, per Venezia e per tutta Italia, sostituire gli Annali di Gabriel Giolito del Bongi, per Firenze il catalogo delle stampe del Torrentino, per Roma del Blado, e così via». In tal modo un italiano d’Inghilterra, Carlo Dionisotti, forse il più grande storico della nostra letteratura, certamente il più grande per quanto attiene alla storia del Rinascimento, affidava al suo celebre saggio La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, uno dei suoi più noti apoftegmi: la storia culturale italiana passa inevitabilmente attraverso l’iniziativa dei tantissimi stampatori, piccoli, medi, grandi che nel XVI secolo promossero in ogni angolo d’Italia, con iniziative più o meno avvedute, la diffusione della lingua e della letteratura in volgare attraverso la pubblicazione di una quantità di libri mai vista prima. Fu una vera rivoluzione, per ripercorrere la quale è necessario fare i conti con nomi che ai più suonano nuovi: come Gabriele Giolito de’ Ferrari, stampatore originario di Trino vercellese, che a mezzo il Cinquecento mise in piedi la più importante e intraprendente tipografia italiana. Salvatore Bongi ne compilò gli annali (l’elenco cronologico delle sue edizioni corredato da precise descrizioni bibliografiche) grazie ai quali riusciamo a seguirne le strategie imprenditoriali e dunque capiamo gusti, orientamenti, oscillazioni del mercato e dei lettori del tempo. E a conferma di quanto scriveva Dionisotti, proprio The printing revolution è il titolo che Elisabeth L. Eisenstein volle dare al suo saggio uscito nel 1979 per i tipi della Cambridge University Press. Un saggio importante e presto tradotto (per vero con titolo non felicissimo, La rivoluzione inavvertita) anche in Italia, che aiutò a riflettere, accademici e non, sull’impatto che in ambito storico-culturale (e non solo) ebbe l’invenzione della stampa a caratteri mobili.
Se esistette uno stampatore che seppe incarnare più di ogni altro questa armonica fusione di cultura e imprenditoria questi fu Aldo Manuzio, laziale di Bassiano approdato a fine Quattrocento a Venezia dopo un breve periodo a Carpi come precettore della famiglia Pio. Dotto di latino e greco comprese che per stampare testi di qualità occorreva avvalersi di collaboratori capaci e li trovò nelle scuole della cancelleria veneziana e nella vicina Università di Padova. Qui e lì poté procurarsi i manoscritti utili a realizzare il proprio ambizioso progetto editoriale: la stampa di testi greci, soprattutto classici. Venezia era «quasi una seconda Bisanzio» come scriveva il coltissimo cardinale Bessarione al doge Cristoforo Moro nel 1468: il contatto con la comunità greca, prima di tutto locale, era dunque promettente. I classici greci, i filosofi, erano le colonne, i fontes, su cui si reggeva la cultura occidentale di base latina: non si dava conoscenza dell’una senza conoscenza dell’altra. Il progetto partì ambizioso con la stampa delle opere di Aristotele e di Aristofane, volumi curatissimi e costosissimi, anche per il Manuzio che presto dovette rivedere il piano di spesa e la linea editoriale. Lo aiutò un umanista principe, l’allora giovanissimo Pietro Bembo, impegnato nella battaglia che l’avrebbe portato ad affiancare ai classici greci e latini quelli italiani, Dante e Petrarca, promuovendo la cultura volgare allo stesso rango delle sorelle maggiori. Manuzio assecondò questa seconda rivoluzione culturale, interna alla prima, con l’ennesima, intelligentissima proposta editoriale: volumi piccoli, tascabili da portare in mano (enchiridia, in greco), stampati con un carattere nuovo, l’italico o corsivo che ancora oggi usiamo scrivendo al computer. E mentre stampava Dante, Manuzio stampava identicamente anche Virgilio, a sigillare la pari dignità degli auctores. Stampava, beninteso, il nudo testo, liberandosi dei selvosi commenti della tradizione accademica che normalmente circondavano, soffocandolo, il Virgilio o l’Orazio. Era un chiaro ammiccamento a un nuovo pubblico di lettori, sufficientemente colti da leggere i nostri classici senza ausili esegetici. Anzi, era Manuzio stesso a creare un nuovo pubblico di lettori. Ma la passione per il greco non venne meno. Rinvigorite le casse dell’azienda grazie alle nuove proposte, si poté riprendere anche la stampa delle opere greche che proseguì fino quasi alla morte del tipografo (1515).
La fitta trama di relazioni imprenditoriali, il progetto culturale, la cura filologica che Manuzio mise nella preparazione dei testi greci può essere ripercorsa agilmente grazie alla raccolta delle sue Lettere prefatorie a edizioni greche ripubblicata in traduzione italiana da Adelphi per cura di Claudio Bevegni («Biblioteca», pp. 280, € 22,00). È doveroso dire ‘ripubblicata’ perché una prima edizione integrale, con traduzione e note, di tutte le prefatorie era uscita nel 1965 in due sontuosi volumi curati da Dionisotti e da Giovanni Orlandi (Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, Milano, Il Polifilo, 1965): un monumento insostituibile (e costoso) di storia della cultura e dell’erudizione umanistica. La proposta Adelphi consente ora di fruire delle prefazioni ai testi greci a un prezzo conveniente e di poterle leggere in traduzione italiana, giovandosi di un essenziale apparato di note illustrative. Precede il volume un saggio del filologo Nigel Wilson (Manuzio editore e filologo) che aiuta a contestualizzare i testi. Bevegni si appoggia dichiaratamente al lavoro di Orlandi ma tiene d’occhio anche la traduzione inglese recentemente procurata dallo stesso Wilson (Aldus Manutius, The Greek Classics, Cambridge MA, Harvard University Press – The I Tatti Renaissance Library, 2016).
Emerge un profilo a tutto tondo dell’ambiente culturale cui Manuzio attingeva per giovarsi di collaboratori dotti e preparatissimi, indispensabili per confezionare le proprie edizioni. Diede vita per questo anche a una Accademia greca ai cui membri (pochi i nomi certi) era fatto obbligo di parlare in greco e di cui resta, in un’unica copia, anche il regolamento (il nòmos, opportunamente ripubblicato in Appendice). Fra tutti coloro che furono coinvolti nell’impresa aldina spicca l’erudito cretese Marco Musuro (su cui ora si vedano David Speranzi, Marco Musuro. Libri e scrittura, Accademia Nazionale dei Lincei, 2013; Luigi Ferreri, L’Italia degli Umanisti. Marco Musuro, Turnhout, Brepols, 2014), capace di una perizia proto-filologica che sorprende ancora oggi; ma non mancano figure minori, come l’oscuro umanista bergamasco Giovanni Perlanza de’ Ruffinoni detto Calfurnio – professore di retorica a Padova nell’ultimo quindicennio del Quattrocento e dotato di una cospicua biblioteca privata – che prestò a Manuzio il proprio codice di Erodoto da cui fu tratta l’edizione del 1502. E tra grandi e piccoli càpita di perdersi: l’Umanesimo è po’ come la montagna, esige prudenza e preparazione specifica o si va a rischio di scivoloni. Così proprio il bergamasco Perlanza ritorna Planza (come recitavano biografie ormai datate); del dotto frate Urbano Dalle Fosse (autore della prima grammatica greca in latino stampata da Aldo) si precisa che era «detto Bolzanio, ma in realtà era nativo di Belluno»: ma il Bolzanio umanistico nulla aveva a che fare col Bolzano altoatesino e tutto con la frazione di Bolzano bellunese, di cui il frate era originario; il veneziano Ermolao Barbaro verrebbe equiparato da Aldo al Poliziano forse «per compiacere alla propria città di elezione», ma per chi abbia anche solo sfogliato le sue Castigationes plinianae (per non dire della considerazione di cui godette presso lo stesso Poliziano) questa è affermazione che merita maggiore riflessione. Nell’accogliere dunque con favore la provvida iniziativa dell’Adelphi, che sempre mostra un occhio di riguardo per l’alta cultura, chiudiamo facendo nostro l’invito di Dionisotti a collocare e incontrare questi valorosi umanisti, grandi e piccoli, nel loro tempo, nei loro luoghi, con i loro nomi.
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