sabato 25 febbraio 2017

La Fine della Storia e l'ultimo ominicchio: Fukuyama incontra Renzi e pubblica una nuova edizione del suo celebre libro.







































Primarie ad aprile, Orlando corre
Il Guardasigilli sfida l’ex premier e incassa l’appoggio di Damiano. Lite sui tempi del voto Il viceministro Bubbico lascia il Pd. Anche 17 fuoriusciti di Sel passano con Bersani Francesca Schianchi Stampa
«Penso di saper ascoltare e saper unire. Non sarò un capo corrente, ma un segretario». Applausi dei sostenitori accalcati nel piccolo circolo di periferia: il ministro della Giustizia Andrea Orlando è ufficialmente il terzo aspirante segretario del Pd, dopo Renzi ed Emiliano. «Ho deciso di candidarmi perché non mi rassegno al fatto che la politica debba diventare solo prepotenza», anticipa in mattinata, e poi nel pomeriggio si presenta lì, al circolo Pd Marconi, in sezione come si faceva una volta, in giacca senza cravatta, intorno a lui le foto di Moro, Togliatti e Berlinguer, ma anche il manifesto per il sì al referendum. In platea tanti parlamentari dei «giovani turchi», la corrente che fondò con Orfini, ma anche semplici militanti, è tutto un «in bocca al lupo» e un selfie, e gli offrono pure una birra, ma il ministro declina con un sorriso - «sono a stomaco vuoto» - e se lo contendono in un continuo viavai dalla sala alla terrazza tanto che a un certo punto resta chiuso fuori. «Cominciamo bene…», scherza qualcuno.
Così, dopo giorni di riflessione («non era una sceneggiatura, ero indeciso veramente»), anche il Guardasigilli si butta nella gara. Mentre alla Camera i bersaniani in uscita annunciano un accordo con i fuoriusciti di Sel capitanati da Arturo Scotto per creare gruppi comuni (prevista la presentazione tra oggi e lunedì), e guadagnano un’adesione importante, quella del viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, il ministro cresciuto nel Pci e arrivato da La Spezia ai vertici del governo lancia la candidatura che dovrebbe, almeno nelle intenzioni, catalizzare l’area di sinistra rimasta nel Pd. Già guadagnato il sostegno di Cesare Damiano; probabile anche quello di Gianni Cuperlo, che però rinvia la decisione finale a un’assemblea il 4 marzo. «Compagni, io sono di sinistra, ma non voglio rifare la sinistra così com’era. Voglio rifare il Pd», mette però in chiaro Orlando, ben attento a evitare l’etichetta di candidato di un altro secolo. Perché servono «50 sfumature di Pd, non di rosso», perché il Pd «è la nostra casa, l’abbiamo sognata dieci anni fa», ma adesso va ristrutturata. Senza lasciarsi tentare dall’imitare i populisti, «non sentirete da me parole populiste, sovraniste, nazionaliste», né «mai delegittimerò i miei competitori». Semmai, solo qualche frecciata (all’ultimo congresso «io sostenni Cuperlo, mentre Emiliano sostenne Renzi») o qualche difesa da chi, come il governatore pugliese, gli rinfaccia di aver fatto parte del governo Renzi: «Sono convinto si possa stare insieme avendo idee diverse».
«Siamo in ritardo ma sento un bel clima», sospira alla fine della presentazione. Davanti a lui un tour de force: tanto che, qualcuno, anche tra gli amici, gli aveva consigliato di dimettersi da ministro: «Anche la Bindi e Letta hanno fatto le primarie l’una da ministro, l’altro da sottosegretario», respinge l’idea che sarebbe opportuno farlo. E nemmeno pensa che gli converrebbe farlo per avere più tempo in campagna elettorale, da cominciare con una conferenza programmatica a Napoli: «Finché ce la faccio continuo a fare le due cose insieme». Il tempo è davvero poco: oggi nel pomeriggio una Direzione approverà il documento con date e regole. «Non c’è ancora niente di deciso», giura il vicesegretario Lorenzo Guerini, ma resta alta la probabilità che le primarie siano il 9 aprile, come vorrebbero i renziani: comunque sia, non si andrà oltre il mese di aprile. Emiliano vorrebbe più tempo, e anche Orlando, ovviamente: «Io vorrei avere il tempo di ascoltare la gente». I renziani mostrano maliziosi un sondaggio che lo darebbe all’1 per cento contro il 32 dell’ex premier e il 13 di Emiliano. «Fosse per me le primarie le farei a novembre, così arrivo al 70 per cento», scherza lui. La strada è lunga, ma Orlando insiste: «Mi candido per vincere».
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Rivolta nel Pd sul congresso lampo
Orlando si candida: “In campo contro la prepotenza”. I renziani insistono: primarie il 9 aprile. Sfidanti sulle barricate Il Nazareno esulta per un sondaggio Swg che dà il partito al 28 e la lista Bersani-D’Alema al 3,2. Prodi: elezioni nel 2018GIANLUCA LUZI Rep
Primarie il 9 aprile ed elezioni politiche l’11 giugno in un election day con le amministrative. Con uno slalom fra i ponti festivi e il referendum sui voucher: è questa la road map che sogna Matteo Renzi, ma che si scontra con l’opposizione dei due sfidanti Emiliano e Orlando. A cui, a sorpresa, si è unita la candidatura di una semisconosciuta, Carlotta Salerno, che potrebbe complicare per questioni procedurali il blitz immaginato dal segretario uscente. Guardando al calendario diventa realistica anche la data del 7 maggio che però renderebbe quasi impossibili le politiche l’11 giugno. Se poi la spuntassero gli sfidanti ecco il 7 luglio, con il voto a settembre. Il ministro della Giustizia ha ufficializzato ieri la sua candidatura alla segreteria in un circolo romano del Pd e subito ha fatto capire la sua contraretà a una data così ravvicinata: «Le primarie il 9 aprile? Serve più tempo per ascoltare il nostro popolo». Sulla stessa linea anche Emiliano che fa appello a Romano Prodi perché il Congresso sia “contendibile”, mentre invece «così non c’è tempo nemmeno di fare la campagna elettorale». Anche Prodi è contrario ai tempi ravvicinati dettati da Renzi. Il Professore non parla di primarie, ma è convinto che «per l’interesse del Paese bisogna andare alle urne alla fine della legislatura, come Dio comanda, e cioè nel 2018». Perché «la durata della legislatura è un segno di serenità e di tranquillità, mentre invece vedo che si vogliono affrontare le elezioni in tempi rapidi. Non capisco. Il Paese ha bisogno di tranquillità». Entra così nello scontro fra Renzi e gli sfidanti la questione della durata del governo Gentiloni. Ed è anche «per sostenere il governo Gentiloni, che mi sono candidato», spiega infatti Emiliano. Ma Renzi e i suoi fedelissimi sono determinati, anche sulla base di un sondaggio Swg che fotografa i rapporti di forza dopo la scissione. Il Pd scende dal 31% al 28 con la perdita della sinistra bersaniana, che infatti è al 3,2%. Il movimento di Pisapia, Campo Progressista, è quotato al 3,9% e Sinistra Italiana si ferma all’1,5%. Insomma – secondo la maggioranza renziana – un danno tutto sommato contenuto che può essere riassorbito. Per registrare le proteste dei due candidati sulla data delle primarie, il vicesegretario Guerini li ha incontrati prima della riunione decisiva della Commissione congressuale che si è riunita ieri e oggi. Nel pomeriggio la Direzione stabilirà il regolamento del Congresso.
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L’ultima mossa di Emiliano “Finiamo alle carte bollate”
La strategia: “O Matteo capisce o gli piantiamo un casino che ricorderà” Pronti i gruppi scissionisti: si chiameranno Democratici e progressistiGIOVANNA CASADIO Rep
Un rospo difficile da ingoiare per Michele Emiliano. Le primarie il 9 aprile, ovvero cinquanta giorni soltanto di tempo per la sfida dem, sono uno schiaffo, l’ennesimo del segretario uscente che – dice il governatore della Puglia e candidato alla segreteria – mostrano una cosa soltanto: «Renzi ha paura di perdere, però tutti coloro che hanno fatto appelli contro la scissione, a cominciare da Romano Prodi, il fondatore del Pd, lo convincano a rendere congresso e primarie una bella pagina».
Nel tormento dei Dem ieri si registra un ultimo atto: la minaccia di nuovo delle carte bollate. Emiliano confida ai suoi collaboratori: «Se si va avanti a forzature, ricorreremo alle carte bollate: gli pianto un casino...». Tra le contromosse estreme cresce anche la tentazione del governatore pugliese di far un passo indietro davanti alla tetragona volontà dei renziani di accelerare sulle primarie. Ma infine, l’assicurazione di Emiliano: «Io non mollo». L’importante è chiudere con la stagione renziana e anche quella di Andrea Orlando è «una candidatura che indebolisce Renzi», ragiona. Gli toglie voti. Indispensabile certo avere il tempo giusto «per battere l’uomo politico più veloce, più famoso, più sostenuto dai poteri forti, dal sistema della comunicazione ». L’obiettivo è archiviare il renzismo. «I 5Stelle mi votino alle primarie», rincara Emiliano, che partecipa a una iniziativa della Cgil dove ci sono anche Maurizio Landini, N icola Fratoianni e Giorgio Airaudo. Dialogo a sinistra oltre ogni steccato.
E intanto gli scissionisti dem si organizzano. Una lunghissima riunione ieri dei bersaniani ha deciso di organizzare subito domani una convention a Roma per fare conoscere il Movimento. Martedì poi saranno annunciati i nuovi gruppi parlamentari. Il nome sarà “Democratici e progressisti”. «Prima parliamo al paese, diamo il via a una organizzazione sul territorio, perché vogliamo un Movimento aperto e plurale», spiega Enrico Rossi, il governatore della Toscana.
I numeri dei gruppi non sono ancora certi. Anche se gli ex di Sinistra Italiana guidati da Arturo Scotto che aderiranno sono 17: oltre a Scotto, Ciccio Ferrara, Alfredo D’Attorre, Donatella Duranti, Arcangelo Sannicandro, Carlo Galli, Florian Kronblicher, Lara Ricciatti, Gianni Melilla, Vincenzo Folino, Giovanna Martelli, Franco Bordo, Claudio Fava, Marisa Nicchi, Michele Piras, Filippo Zaratti, Stefano Quaranta. A questi si sommano oltre 22 ex dem, tra cui Bersani, Stumpo, Cimbro, Agostini, Zoggia, Leva, Bossa, Epifani. Roberto Speranza potrebbe essere il capogruppo proprio per la sintonia con gli ex vendoliani e la capacità di mediazione già mostrata quando era capogruppo del Pd. Il problema politico è che gli scissionionisti dem nascono come salvagente del governo Gentiloni, contro la tentazione di Renzi di anticipare a giugno le elezioni politiche. Gli ex vendoliani valuteranno invece di volta in volta se votare la fiducia al governo Gentiloni. Sono 13 i senatori dem scissionisti, tra cui Filippo Bubbico, Miguel Gotor, Doris Lomoro (forse capogruppo), Federico Fornaro, Maurizo Migliavacca, Carlo Pegorer, Lucrezia Ricchiuti, Maria Gatti, Lodovico Sonego, Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Felice Casson, Cecilia Guerra.
Massimo Mucchetti, Luigi Manconi, Walter Tocci dissidenti nelle file dem, hanno deciso di restare nel partito. «Non è questa la mossa utile per battere Renzi», spiega Mucchetti. Manconi, però, guarda al movimento di Pisapia.
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La sfida di Corbyn “Contro il populismo progressisti uniti per cambiare la Brexit”
Il leader laburista promette: “Lotteremo per il diritto dei residenti europei a restare qui”ENRICO FRANCESCHINI Rep 24 2 2017
«Vinceremo con i social network». Detto dal leader 67enne che è accusato di riportare il Labour al socialismo di ieri può sembrare un paradosso: eppure Jeremy Corbyn parla sul serio. Nonostante i sondaggi gli assegnino un distacco di 15 punti nei confronti della premier conservatrice Theresa May, a dispetto di contestazioni interne (respinte vincendo due volte le primarie) e difficoltà del presente (rischia di perdere due seggi nelle suppletive di questa settimana), colui che era considerato la “primula rossa” della sinistra britannica guarda al futuro con ottimismo. Promettendo di evitare il peggio della Brexit, capovolgere l’ondata populista e unire i progressisti in nome dei comuni valori. Come together, uniamoci, conclude nel suo ufficio affacciato al Tamigi, di fianco al Parlamento di Westminster. Solo dopo si rende conto che è una citazione dei Beatles. «Peccato», soggiunge, «che sia la loro ultima canzone».
Onorevole Corbyn, quando di recente la Camera dei Comuni ha approvato l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che dà il via ai negoziati per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europa, lei ha commentato: «La lotta alla Brexit comincia adesso». Cosa intende?
«Che lotteremo per i diritti dei residenti europei di restare qui, per buone relazioni commerciali con la Ue, per mantenere le leggi per l’ambiente e impedire quello che minaccia la May in caso di mancato accordo con Bruxelles, la trasformazione di questo paese in un paradiso fiscale».
La premier scozzese Nicola Sturgeon commenta che è poco e tardi accusandola di non essersi opposto abbastanza alla Brexit nella campagna per il referendum.
«Mi sembra ingiusto. Ho attraversato in treno questo paese per l’equivalente di un viaggio da New York a San Francisco facendo campagna per restare nella Ue. Anche se la mia posizione era ‘rimanere e riformare’, perché non tutto mi va bene dell’Europa, troppa deregulation e privatizzazioni ».
Perché ha ordinato ai suoi deputati di votare per l’articolo 50, anziché concedere libertà di voto?
«Perché il Labour vive un dilemma. Da un lato il 75% dei nostri iscritti, dei nostri elettori e la stragrande maggioranza dei deputati hanno votato per restare nella Ue. Dall’altro due terzi dei nostri parlamentari rappresentano regioni in cui ha prevalso la Brexit. La mia posizione è che è necessario accettare il risultato di un referendum nazionale, ma fare tutto il possibile per porvi condizioni che lo rendano una scelta migliore».
Se la Camera dei Lord, dove i conservatori non hanno la maggioranza, approverà emendamenti alla Brexit, cosa farete quando la risoluzione tornerà ai Comuni?
«Li appoggeremo, in particolare su due punti: un voto parlamentare autentico sull’accordo finale di uscita dalla Ue; e la garanzia ai 3 milioni di europei residenti in Gran Bretagna del diritto incondizionato a restarci».
L’immigrazione nel Regno Unito è troppo alta?
«Non ne faccio questione di numeri. E ribadisco che senza il contributo degli immigrati europei il nostro sistema sanitario pubblico e le nostre scuole non funzionerebbero ».
Eppure ha dichiarato che accetta il principio di controlli all’immigrazione.
«Mi riferisco al fenomeno dei lavoratori stranieri, reclutati in paesi dell’Europa orientale, per impiegarli con contratti a termini e bassa paga nelle costruzioni e nell’agricoltura. Non sono per i controlli all’immigrazione, ma per i controlli allo sfruttamento».
La Brexit ha portato a un aumento della xenofobia?
«Non c’è dubbio. Il nostro messaggio è che l’Ukip, il partito populista che più attacca gli immigrati stranieri, sa soltanto scaricare la colpa su capri espiatori che non c’entrano niente».
Di chi è la colpa del disagio che ha prodotto la Brexit?
«Della crescente ineguaglianza. Dei bassi salari: 6 milioni di britannici vivono con meno del reddito minimo. E dei tagli fiscali che avvantaggiano i ricchi».
Dalla Brexit a Trump, come fermare il populismo?
«Gli americani che hanno votato Trump si renderanno presto conto dell’ipocrisia delle sue promesse di aiutare i poveri. Certo, bisogna allarmarsi per l’ascesa della destra in Europa. Ma in Occidente c’è anche l’ascesa di una nuova sinistra che lotta contro la soluzione data alla grande recessione del 2008, consistita nel salvare le banche facendo pagare il prezzo della crisi alla gente».
Una sinistra che, nel caso del Labour, arranca nei sondaggi.
Pensa ancora di poter vincere le elezioni?
«Sì, le vinceremo. Abbiamo un forte sostegno tra coloro che prendono informazioni dai social network, andiamo meno bene tra chi riceve le news dai giornali. Il futuro è con noi. Il nostro messaggio in difesa della sanità pubblica, del welfare, dei lavoratori, sarà premiato».
Si appresta a riunirsi a Londra con l’Internazionale Socialista, ma la sinistra europea è sempre più divisa. In Italia il Pd ha appena consumato una scissione.
«Davvero? Non posso crederci. Dobbiamo e possiamo unirci nel nome della giustizia sociale, della lotta al razzismo, del diritto al lavoro per i giovani, della difesa dei diritti umani. Sono tanti i valori che ci tengono uniti. Alla sinistra di tutto il mondo dico, come together!, uniamoci».
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Un porta a porta contro i vecchi notabili la sinistra riparte nel nome di Sanders
La strategia dei Democratici che domani ad Atlanta scelgono il presidente del partitoFEDERICO RAMPINI Rep 24 2 2017
«I giornali sono l’opposizione ». L’accusa di Donald Trump si può leggere a rovescio: dov’è l’opposizione politica, che fa il partito democratico? È ancora sotto shock come un pugile suonato? Si accontenta di occupare le piazze? Rincorre giorno per giorno i tweet presidenziali o i suoi ordini esecutivi, lasciando così che sia lui a dettare l’agenda? La loro risposta i democratici la danno domani ad Atlanta, al raduno dei 447 delegati nazionali per designare il nuovo presidente del partito. Intanto alla periferia è in corso la rivincita di Bernie Sanders: contea per contea. Emulando il metodo vincente che fu del Tea Party a destra, l’ala sinistra dei dem con organizzazioni capillari come Move.On sta mobilitando la base per fare fuori i vecchi notabili uno alla volta, e conquistare posizioni in tutte le cariche elettive, cittadina per cittadina, quartiere per quartiere, dai consiglieri comunali ai deputati nelle assemble legislative dei singoli Stati. È una lotta che ha un calendario e un traguardo: nel novembre 2018 si vota in tutta l’America per le legislative di mid-term, in palio c’è l’intera Camera e un terzo del Senato. Può essere l’occasione per strappare ai repubblicani almeno uno dei due rami del Congresso, e da quel momento in poi rendere la vita dura a Trump. Ma bisogna prepararsi fin d’ora, avere i candidati giusti, i messaggi convincenti, una strategia positiva. Non basta sognare l’impeachment, denunciare rischi di deriva autoritaria. Una campagna tutta negativa, un referendum su Trump, può finire con una brutta sorpresa come l’8 novembre 2016.
Intanto lui “gioca” coi democratici come ha sempre fatto. Proprio alla vigilia del loro raduno nazionale gli ha lanciato addosso la questione transgender. Ha cancellato un’altra delle riforme di Barack Obama: la possibilità per gli studenti transgender nelle scuole pubbliche di scegliersi il bagno che vogliono, in corrispondenza con quella che sentono essere la propria identità sessuale. È un tema che già agitò la campagna elettorale nel 2016. Per la destra religiosa è un’altra discesa verso gli inferi, verso Sodoma e Gomorra, dopo i matrimoni gay. Hillary Clinton sostenne la decisione di Obama come una scelta di civiltà. Trump non ha principi né valori in questo campo, sui matrimoni gay in passato è stato favorevole (anche per l’influenza della figlia Ivanka). Il suo è un cinico calcolo di aritmetica elettorale. La destra religiosa, a cominciare dagli evangelici e cristiani rinati, è un esercito disciplinato che vota compatto, e lo ha sostenuto. La sinistra che si infiamma e si mobilita sui transgender, rischia di apparire di nuovo come il partito di tutte le minoranze, regalando ai repubblicani la maggioranza silenziosa dei bianchi.
La battaglia per la presidenza del partito democratico è un passaggio importante anche se questa carica non è potente come quella di un segretario di partito europeo. Il chair del Democratic National Committe però ha una funzione organizzativa cruciale, tira le fila della macchina elettorale e si è visto come nel 2016 questo abbia dato un vantaggio a Hillary: le email di WikiLeaks rivelarono le manovre della ex-chair Debbie Wassermann per boicottare Sanders. In più, nell’attesa che comincino a emergere dei presidenziabili per il 2020, il o la presidente del partito diventerà un volto familiare nei talkshow televisivi, un portavoce dell’opposizione. Otto candidati si affrontano domani ad Atlanta, e due sono i favoriti: Tom Perez ex ministro del Lavoro; Keith Ellison deputato del Minnesota. Perez ha ereditato l’appoggio delle stesse constituency che sostenevano Hillary. Ellison invece si pone nella continuità con Sanders, e con la battagliera Elizabeth Warren. Un outsider è Pete Buttigieg, sindaco di South Bend nell’Indiana, appoggiato dall’ex presidente del partito Howard Dean. Ellison in un dibattito alla Cnn mercoledì sera ha sostenuto una linea dura, ha detto che «la questione dell’impeachment è legittima, Trump ha già violato la Costituzione, dobbiamo impedire che usi la presidenza a fini di arricchimento personale». Buttigieg ha denunciato però il rischio di farsi risucchiare in un ruolo di puro contrasto a Trump. «Lui — ha detto Buttigieg — è come un virus informatico che ha contaminato il sistema politico. Dobbiamo combatterlo. Ma guai se riuscirà a dominare la nostra immaginazione ».
Intanto si riaffaccia Obama: ha diffuso una email a tutti i suoi simpatizzanti, perché accettino di far parte dell’indirizzario della sua nuova Ong. Sta aprendo un ufficio a Washington, altri verranno presto a New York e Chicago. Non farà politica gettandosi nella mischia quotidiana. Ma molti andranno a cercarlo, per chiedere consigli a colui che conquistò due volte la Casa Bianca.
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