Trump: «Supremazia atomica» Mosca: «Nuova guerra fredda»
La Casa Sbianca. E sui militari: «Più risorse al nostro esercito: credo nella pace attraverso la forza»
Simone Pieranni Manifesto 25.2.2017, 23:59
Gli americani la chiamano «nuclear football» o «il biscotto»: si tratta della borsa nera – agganciata perennemente alla mano di un militare che accompagna in ogni luogo il numero uno di Washington – che contiene i codici per lanciare un attacco nucleare. Poco prima dell’elezione di Donald Trump lo stesso Obama aveva chiesto agli elettori se fossero sicuri di voler lasciare questo potere nelle mani del tycoon di New York. In molti avevano sbeffeggiato Obama e chiunque giudicasse Trump un pericolo, perché in fondo, veniva detto, le parole di Donald riguardo la Russia e l’ipotetica amicizia con Mosca sembravano portare a una politica estera meno traumatica di quella messa in atto da Obama e la sua amministrazione.
IL PROBLEMA È CHE TRUMP non è solo imprevedibile, ma è anche intimamente connesso a tutto quel mondo che dice di voler combattere: non sorprende dunque che nel corso di due interventi, un’intervista con la Reuters e un discorso alla «Conferenza annuale di azione politica dei conservatori» Trump abbia detto nell’ordine: che gli Stati uniti devono aumentare il proprio potenziale nucleare e che analogamente gli Usa devono rendere più forte, il più forte di tutti naturalmente, il proprio esercito. Perché, ha specificato Trump, «io credo nella pace ottenuta con la forza». Reazioni molto negative sono subito arrivate da Mosca.
E di sicuro il Cremlino ha da tempo capito l’andazzo: Donald Trump anziché agire diplomaticamente per un mondo pacifico e relazioni paritarie e cordiali, ha chiaramente come obiettivo quello di puntare i suoi «nemici», primi fra tutti l’Iran. E un passaggio intermedio non può che essere quello di «testare» la Russia. Non a caso nei giorni scorsi il presidente ucraino Petro Poroshenko, acerrimo nemico di Putin, si è detto soddisfatto del «ponte» che si starebbe costruendo con gli Usa. Trump dunque non si smentisce e conferma quanto incarna: una volontà dominante da parte degli Usa in campo internazionale, benché da realizzare in modo differente rispetto al passato, con altre priorità, dipendenti dal gruppo di potere che Trump rappresenta (l’establishment uscito a pezzi dai processi globali).
SUL NUCLEARE, l’intervista di Trump alla Reuters ha presto fatto il giro del mondo. Il capo della Casa bianca, nonostante avesse detto in precedenza di voler ridurre, con un patto con la Russia, gli arsenali atomici, ha spiegato che mantenere gli Usa al «top of the pack», nella posizione più forte, «è una necessità: sono il primo – ha spiegato – che non vorrebbe vedere nessuno, dico nessuno, con la bomba nucleare, ma non rimarremo mai indietro rispetto a un altro paese, anche se si tratta di un paese amico». Questo perché «sarebbe fantastico, sarebbe un sogno che nessun paese avesse le nucleari, ma se invece le hanno, allora noi saremo i più forti».
NON È LA PRIMA VOLTA che Trump si addentra in questo tipo di argomenti: lo scorso dicembre, appena eletto, commentando una dichiarazione del collega russo Vladimir Putin sul rafforzamento delle capacità nucleari, Trump disse che gli Usa «devono rafforzare fortemente ed espandere la propria capacità nucleare fino a quando il mondo non rinsavirà riguardo l’arma atomica».
Gli Usa hanno firmato il trattato di non proliferazione atomica nel 1970: oggi ci sono almeno 15mila testate intatte al mondo, anche se solo circa 3.500 sarebbero schierate. Secondo Bbc, tra attive e inattive, gli Usa avrebbero in dotazione 6.500 armi atomiche, la Russia 7.000.
E PROPRIO MOSCA ha reagito con grande veemenza alle dichiarazioni di Donald Trump: il deputato russo Leonid Slutsky, presidente della commissione esteri della Duma ha specificato che
«Le dichiarazioni di Trump sono motivo di preoccupazione – ha detto Slutsky, citato dal sito Sputnik – se Washington vuole veramente la superiorità in campo nucleare, ci sarà un inevitabile peggioramento della corsa agli armamenti e il mondo tornerà alla guerra fredda». Slutsky ha insistito sulla necessità di mantenere «il principio della parità nucleare», aggiungendo di sperare «che tutto ciò rimanga a livello di retorica e notizie stampa, senza influenzare veri progressi su questa questione a Washington». Slutsky ha poi sollecitato la ripresa al più presto dei colloqui sul futuro del trattato Start-3 per la riduzione delle armi nucleari, firmato da Russia e Stati uniti nel 2010. A questo proposito secondo il presidente statunitense, lo «Start-3» è un «altro cattivo affare in cui è entrato il paese».
L’accordo prevede la riduzione dei vettori strategici su entrambi i lati fino a 700 unità e 1.550 testate nucleari. Entrato in vigore nel 2011 dovrebbe essere rinnovato nel 2021.
Non solo la riforma sanitaria, puntata fin da subito, da Donald Trump. Il presidente sta smantellando tutto il corollario di «diritti civili» che Obama aveva provato a realizzare durante i suoi due mandati: nei giorni scorsi la Casa bianca ha annunciato la fine dei diritti transgender dell’era Obama: cancellate le linee guida antidiscriminazione per proteggere gli studenti transgender.
Ieri inoltre è arrivata la notizia sulle carceri private: ritirato l’ordine di ridurre gradualmente il numero di contratti con gli operatori privati di carceri, ritenendo che impedisca di soddisfare le esigenze della popolazione carceraria.
Analogamente l’amministrazione Trump «applicherà con maggiore forza» le leggi federali contro l’uso della marijuana in quegli stati che l’hanno legalizzato.
ALL’INTERNO È GUERRA AI MEDIA: dopo averli definiti in mattinata «nemici del popolo perché non hanno fonti», Trump ha bandito dalla conferenza stampa con il portavoce Spicer alla Casa bianca i giornalisti di Cnn, New York Times, Los Angeles Times e Politico. Immediata la levata di scudi: per solidarietà Ap e Time non hanno partecipato all’incontro con Spicer.
Il fantasma di Reagan sulla Casa Bianca “Ecco la vera America”
Donald dice di ispirarsi al suo predecessore: ma con le scelte in tema di nucleare e stampa si spinge oltre il modello
FEDERICO RAMPINI Rep 25 2 2017
Vuol essere il nuovo Ronald Reagan. Si spinge ben oltre il modello originale. Donald Trump presenta la sua Dottrina – la destra come Partito dei Lavoratori, il riarmo a oltranza, il nazionalismo avverso al mondo intero – nel giorno stesso in cui la Casa Bianca caccia i giornalisti sgraditi. E’ un’aggressione mai vista in questa Repubblica del Primo Emendamento: che eleva la stampa a Quarto Potere, con libertà quasi totale e responsabilità di controllo sul sistema politico. Via dalla Casa Bianca quella
Cnn che si fece le ossa a Piazza Tienanmen, quando il sogno democratico degli studenti cinesi fu raffigurato con una Statua della Libertà eretta davanti alla Città Proibita. Via dalla sala stampa il New York Times, il Los Angeles Times, Politico. com, Buzzfeed, grandi giornali e nuovi siti online, tutti puniti per avere osato pubblicare nuove rivelazioni sulla Russian-connection, fughe di notizie sullo scontro ai massimi livelli tra il presidente e l’Fbi. La conferenza stampa quotidiana – un atto dovuto per la trasparenza dell’esecutivo, un rito sacro della democrazia americana – diventa il luogo di un arbitrio, la scelta dei giornalisti “buoni”, la cacciata di quelli che non si piegano. C’è anche qui un tentativo di “rifare Reagan”, perché il padre della rivoluzione conservatrice fustigava anche lui i giornalisti liberal, già lui parlava “direttamente” al popolo americano (la sua padronanza della tv sostituiva il ruolo di Twitter per Trump), e voleva bucare la “bolla liberal di Washington” della quale secondo lui i giornalisti erano parte. La maggioranza silenziosa lo riveriva, lui la nutriva della sua “verità alternativa”.
Che il modello ideale sia Reagan, è lo stesso Trump a teorizzarlo, citando spesso il suo presidente favorito. I suoi collaboratori avevano scaldato la platea del Cpac (importante raduno annuo degli ultra- conservatori) preannunciando proprio un discorso “reaganiano”. In parte c’è stato davvero.
L’avvento dell’ex governatore della California alla Casa Bianca nel 1981 fu una svolta storica, spostò in modo durevole i rapporti di forze (l’America dovette aspettare 12 anni prima di rivedere un presidente democratico), impresse un’egemonia culturale neoliberista che per certi versi domina tuttora. Trump parte da una base di consenso molto più ridotta ma ha spiegato ieri come consolidarla: facendo della sua destra populista il Partito dei Lavoratori, cementando in modo stabile la fedeltà dell’elettorato operaio, di tutta quella middle class bianca che ritiene di avere finalmente trovato il suo difensore. E’ un’operazione che iniziò proprio negli anni Ottanta quando apparve il fenomeno dei “Reagan democrats”, operai di sinistra che improvvisamente si riconoscevano nel vecchio cowboy, nella sua Bibbia, nelle sue armi, nel linguaggio duro contro l’Unione sovietica di allora, l’Impero del Male. Dove Trump lo segue, o lo scimmiotta, è nel riproporre una logica da Guerra fredda: promette un riarmo senza precedenti, vuole che la superiorità militare americana (già oggi incontestata) diventi soverchiante più che mai. E se agli altri Paesi – alleati inclusi – questo non sta bene, peggio per loro. Non sono stato eletto come presidente mondiale, io rispondo solo a voi americani, ha detto chiaro e tondo.
E qui cominciano ad apparire le differenze con Reagan. Non c’è più in Trump neppure la finzione di un’egemonia neoimperiale basata su un sistema di valori. Da Woodrow Wilson a Franklin Roosevelt, da John Kennedy a Reagan fino a Obama, pur fra mille contraddizioni c’era lo sforzo di basare una leadership planetaria degli Stati Uniti non sulla pura forza militare ma anche su valori condivisi, comunanza d’interessi almeno in campo occidentale, almeno con gli alleati. Trump va fino in fondo nella sua logica del neo-nazionalismo: straccia il libero scambio, le frontiere aperte, cui invece Reagan era attaccato. E’ convinto che il trinomio fra protezionismo commerciale, boom della spesa bellica, chiusura all’immigrazione, possa cementare a lungo la fedeltà dei lavoratori bianchi verso di lui. E’ una dottrina troppo semplificata. Dovrà fare i conti con le resistenze internazionali non appena passerà dalle parole agli atti: la Cina prima ancora della Russia. Dovrà per forza incrociare nel corso della sua presidenza qualche turbolenza economica, alla quale non sembra preparato. E soprattutto tradisce un handicap rispetto al suo modello ideale. Reagan era convinto della sua capacità di persuasione, perciò non aveva bisogno di mettere il bavaglio a tv e giornali. Cercò di incantarli, ipnotizzarli, addomesticarli; quando il gioco non gli riusciva, passava ai lazzi e ai rimbrotti. Però era convinto che la libertà fosse una forza dell’America, non un fastidioso privilegio da estirpare.
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