E siccome Trump dice anche di guardare con simpatia a Putin, due più due fa quattro et voila l'Eurasiamerica.
Siamo esattamente in una di queste fasi storiche [SGA].
Trump: "Putin sarebbe un assassino? Perché noi siamo innocenti?"
DONALD E LA POLITICA DEL COSÌ FAN TUTTI
DONALD Trump la pensa come Noam Chomsky? Al giornalista della Fox che lo interroga su «quell’assassino di Putin», il presidente risponde: «Neanche l’America è innocente». La sinistra radicale questo lo dice da decenni. Torna in mente la critica dei movimenti terzomondisti, anti- imperialisti in cui molti di noi sono cresciuti dagli anni Sessanta.
SEGUE A PAGINA 21
DA UNA PARTE denunciavamo l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, dall’altra i bombardamenti americani al napalm sul Vietnam, l’appoggio di Washington al Sudafrica dell’apartheid, il golpe militare appoggiato dalla Cia per deporre Allende in Cile. E così via, fino all’11 settembre che una certa sinistra antiamericana ha visto come il castigo inevitabile per tutte le nefandezze compiute dallo Zio Sam in Medio Oriente. Poi George W. Bush ha fatto del suo meglio per confermare quella visione con gli abusi contro i diritti umani e la legalità internazionale: Abu Graib, Guantanamo, le carceri segrete della Cia all’estero con le stanze della tortura. Chomsky è solo il più famoso di una lunga serie di intellettuali americani radicali che considerano il proprio Paese colpevole di crimini contro l’umanità. Fa un certo effetto sentire il presidente degli Stati Uniti, eletto come candidato del partito repubblicano, farne proprie le tesi: che differenza c’è tra l’America e la Russia di Putin? Trump le mette sullo stesso piano. E dunque non vede ostacoli di natura politica, morale, ad un’alleanza operativa con Putin, per esempio al fine di sconfiggere il terrorismo islamico. C’è una grossa differenza se a denunciare la “mancanza d’innocenza” degli Stati Uniti è un intellettuale contestatore, o il presidente degli Stati Uniti. Nella critica della migliore sinistra c’era (quasi) sempre un nobile intento: riportare l’America sulla retta via, costringerla a praticare i valori che proclama, incalzarla perché mostri coerenza tra i suoi atti e quel Bill of Rights che riecheggia la dichiarazione universale dei diritti umani. C’era un’ispirazione riformista che ha sognato un Occidente migliore e ha lavorato per costruirlo. Barack Obama s’inseriva a modo suo in questa tradizione riformista. Lui stesso capì subito la forzatura del Premio Nobel della pace che gli era stato conferito prima ancora che governasse. Cercò di chiudere Guantanamo e il Congresso glielo impedì. Tentò (brevemente) di appoggiare le Primavere arabe perché ci vedeva un’aspirazione alla libertà, e fu ferocemente criticato per avere mollato alleati sicuri e affidabili come Mubarak. Fu sempre attraversato dalla tensione fra la realpolitik, la pesantezza di un’eredità neoimperiale (le stragi dei suoi droni), e i valori ideali.
Trump ribalta tutto questo. Di Chomsky non sospetta neppure l’esistenza, possiamo scommetterlo («il presidente non legge libri, la sera guarda la tv», rivelano con orgoglio i suoi consiglieri). Se rinuncia volentieri a ogni idea di diversità fra la sua America e la Russia di Putin, non lo fa con l’ambizione di correggere il passato, migliorare il suo inseguire un modello ideale. Al contrario, dietro il suo “così fan tutti” c’è una chiamata di correo e un’assoluzione preventiva. Smettiamola d’infastidirlo con le prediche su Putin. Il presidente degli Stati Uniti non giudica gli altri perché non vuol essere giudicato. Deciderà di volta in volta se e quando gli conviene collaborare con Putin e ce lo farà sapere. Non ci sono valori o principi universali da rispettare all’estero, quindi non ce ne sono in casa propria. Questo ennesimo strappo accentua la sintonia fra Trump e gli euro- putiniani Orban, Farage, Le Pen, Salvini o Grillo. Rompe la continuità nella tradizione politica americana, dove ogni leader da Woodrow Wilson a Franklin Roosevelt, da Kennedy a Reagan, è sempre stato quantomeno condizionato da un’eredità di valori e da un’idea di Occidente, anche quando la pratica quotidiana della politica conduceva verso compromessi ignobili. Non è un caso se la “fine dell’innocenza” orgogliosamente rivendicata da Trump, coincide con un weekend in cui ha insultato un giudice repubblicano colpevole di indipendenza. Con l’ultimo tweet che è il più minaccioso: «Se accade qualcosa di brutto (allusione a un attentato, ndr) prendetevela con lui e col sistema giudiziario ». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La sfida Trump-xi per la supremazia in america latina
LA RAFFICA di decreti presidenziali con cui Donald Trump ha iniziato la sua presidenza ha lasciato ben pochi dubbi sulla radicalità degli intenti di un personaggio che rivendica come caratteristica identitaria la mancanza di moderazione e di dialogo e per il quale la destabilizzazione è una precisa strategia politica.
Rimane però chi, specialmente per quanto riguarda la politica estera, continua ad aggrapparsi alla speranza che l’incoerenza di Trump, opportunista piuttosto che ideologo, possa lasciare spazio a ripensamenti in senso meno estremo, meno destabilizzante.
Su un tema, però, non esistono possibilità di equivoci, non ci sono contraddizioni. Si tratta dell’Iran, oggetto — negli ultimi giorni — di un rilancio di linguaggi coerentemente e sistematicamente aggressivi. Prendendo spunto dal lancio da parte di Teheran, il 29 gennaio, di missili balistici, il primo febbraio il Consigliere per la sicurezza nazionale Flynn ha «formalmente avvisato» l’Iran — minaccia cui ha fatto eco Trump, che ha aggiunto che non si deve escludere un’azione militare. Per usare un’espressione che non si sentiva a partire dalla conclusione dell’accordo nucleare, tutte le opzioni sono tornate sul tavolo. Il primo segnale è l’approvazione, venerdì scorso, di nuove sanzioni decretate formalmente in relazione alla questione dei missili e senza un rapporto con l’accordo nucleare ma che rivelano l’intenzione di trovare altri terreni su cui portare avanti il disegno di isolare e mettere alle corde l’Iran. In sé le prove di lancio di missili balistici non sarebbero sufficienti a giustificare una condanna dell’Iran, se mai una critica, dato che la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza esorta ( calls upon) ma non impone all’Iran di astenersi dallo sviluppo di missili progettati ( designed) in modo da essere in grado di trasportare armi nucleari. L’Iran replica che le sue esigenze di difesa impongono lo sviluppo di una capacità missilistica convenzionale. Posizione sostenibile dal punto di vista giuridico ma, come ha dichiarato a Teheran il ministro degli Esteri francese Ayrault, criticabile sotto il profilo politico in quanto in contraddizione con il nuovo clima instaurato dall’accordo nucleare e inutilmente provocatoria. Ma Trump, contrario a quell’accordo, non ama le distinzioni. In uno dei suoi martellanti tweet afferma categoricamente che «gli iraniani non si stanno comportando bene» e aggiunge: «Stanno giocando col fuoco e non si rendono conto di quanto Obama sia stato indulgente con loro. Io no».
Mai un passaggio di consegne alla Casa Bianca è stato così radicale: esce un professore di diritto costituzionale criticato dai progressisti per la sua moderazione di stampo centrista ed entra un uomo d’affari/showman che ha incorporato nel suo governo personaggi estremisti (primo di tutti Steve Bannon) e ha un linguaggio che ricorda quello dei personaggi di Clint Eastwood. Il linguaggio di chi è pronto a sfoderare la pistola e ci tiene a farlo sapere Stiamo andando verso un’ennesima guerra in Medio Oriente? La necessità di un dialogo con l’Iran era una convinzione di Obama e del suo segretario di Stato Kerry — un disegno politico che con grande difficoltà era riuscito ad imporsi contro un Congresso tradizionalmente e radicalmente ostile all’Iran. Oggi presidente e Congresso sono nuovamente in armonia. Il primo febbraio è stato presentato alla Camera dei rappresentanti il testo di una risoluzione (H.J. Res. 10) che autorizza il presidente a usare la forza «al fine di prevenire l’ottenimento di armi nucleari da parte dell’Iran». La pistola è ancora nel fodero, ma il proiettile è in canna. Ancora non vi è niente di irreversibile, ma il pericolo può derivare da un’escalation che potrebbe innescarsi a partire da incidenti nel Golfo Persico: Trump ha detto che lui affonderebbe le imbarcazioni iraniane che si avvicinano provocatoriamente alle navi della Marina americana.
Dopo il risultato ottenuto con l’accordo nucleare, il Jcpoa, avevamo pensato che una guerra con l’Iran fosse diventata altamente improbabile. Oggi invece è ritornata ad essere drammaticamente possibile. Di fronte a questa prospettiva l’Europa ha il dovere di non limitarsi a seguire con il fiato sospeso lo svolgersi degli avvenimenti cercando di interpretare le esternazioni di Donald Trump. C’è troppo in gioco, sia per la nostra sicurezza che per i nostri interessi economici. Non solo, come stiamo già facendo, è giusto ribadire che per noi il Jcpoa rimane valido, ma dovremmo senza indugi rivolgere agli americani un pressante messaggio — anzi, un monito: se pensate a una guerra con l’Iran, non contate su di noi. Nel 2003 furono solo Francia e Germania (che per questo si meritarono dal segretario alla Difesa americano la sprezzante definizione di «vecchia Europa») a dire di no alla guerra con l’Iraq e a un intervento che è all’origine di gran parte della catastrofe del Medio Oriente contemporaneo. Andrebbe detto agli americani di tenere presente che oggi le cose andrebbero diversamente, con ripercussioni molto negative su un’alleanza che rimane vitale sia per noi che per loro.
E l’Italia? A differenza dai francesi, gli italiani non sono mai stati tentati da un antiamericanismo fatto di retorica e velleità nazionaliste. Anzi, per noi allinearci con Washington è sempre stato praticamente automatico: non dobbiamo dimenticare che nel 2003 l’Italia decise di accodarsi alla malaugurata guerra contro l’Iraq, insostenibile nelle sue false motivazioni e disastrosa nelle conseguenze. Oggi però è venuto il momento di chiarire che amicizia e alleanza non sono incondizionate, ma richiedono di considerare i reciproci interessi, nonché il rispetto delle norme internazionali e per noi, come dice la nostra Costituzione, «il ripudio della guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessun commento:
Posta un commento