domenica 5 febbraio 2017

Nemmeno Togliatti, figuriamoci D'Alema


In che modo, esattamente, mettersi tutti dietro a D'Alema dovrebbe modificare in senso progressivo i rapporti di forza nella società e dare finalmente un programma condiviso e sensato a chi sinora non è mai riuscito nemmeno a capire cosa vuole dalla vita, conciliando strategie che sono sempre state opposte nel nome del comune interesse al superamento del quorum?
Lo abbiamo già fatto innumerevoli volte e ogni volta ci siamo divisi il giorno dopo: non funziona.
Le camarille come quella di Spezzaferro e Vendola sono semmai proprio quegli incomprensibili marchingegni che spingono la sinistra dispersa a esprimere la propria frustrazione votando i grillini o astenendosi.
Scorciatoie non ce ne sono, con i baffi o senza. Se non facciamo i conti con la realtà e con noi stessi - Europa, migrazioni, capitale e lavoro, fisco e Welfare - nemmeno Togliatti redivivo potrebbe salvarci, altro che D'Alema.
Non siamo più espressione di bisogni e interessi sociali reali. Un'epoca è finita per sempre. Finché non riusciremo ad esserlo, stiamo a casa che è meglio. La fiducia e il consenso si riguadagnano con un umile lavoro di ricucitura di lunga durata, non giocando a risiko a tavolino.
Oltretutto, bisogna proprio essere tonti: quello di D'Alema - per il quale pure ho una simpatia politica obbligata, essendo lui l'ultimo che ha studiato alla Vecchia Scuola - è in prima battuta un bluff per ottenere più teste di lista assicurate. Ed è bastato questo improbabilissimo bluff per mettere in fibrillazione tutta la sinistra, che è subito accorsa scodinzolante e con la lingua di fuori.

Ma figuriamoci se può aspirare al 10%: arriverà al massimo al 2, se la gente si è scordata chi è e gli va bene [SGA].



Corriere della Sera


Oggi i congressi e la controassemblea 

Sinistra italiana. Oggi Vendola apre l'appuntamento romano. Ancora veleni sul tesseramento, 'congelata' Foggia. La denuncia: iscritti anziani e migranti 

Manifesto 3.2.2017, 23:59 
Si terranno tra oggi e domani le assemblee provinciali degli iscritti a Sinistra italiana per eleggere le delegazioni che comporranno l’assemblea congressuale nazionale. A Roma questa mattina alle 10 aprirà i lavori dell’assemblea provinciale Nichi Vendola. Il congresso nazionale sarà a Rimini da 17 al 19 febbraio. Preparazione molto tormentata, con il capogruppo alla camera Arturo Scotto che giovedì ha ufficialmente ritirato la candidatura alla segreteria. E l’area di Scotto nel week end non parteciperà ai congressi territoriali ritenendo che saranno «luoghi dall’esito scontato e scritto a tavolino», ma ad alcune assemblee a Roma, Civitavecchia, ai Castelli Romani, Viterbo, Rieti, Gaeta (Latina) e Ceccano (Frosinone). A Roma l’incontro dal titolo «Sinistra Italiana in Progress» si terrà domani mattina alle 10 (cioè in contemporanea con Vendola) al parco della Cacciarella, e tra gli altri interverranno, oltre al capogruppo alla camera, Marta Bonafoni, Marco Furfaro, Maria Pia Pizzolante, Simone Oggionni, Riccardo Agostini, Piero Latino. Ma «non organizzo assemblee alternative ai congressi di Si – sostiene Scotto – partecipo alle riunioni dove mi invitano per spiegare le ragioni del ritiro della mia candidatura». 
E dopo giorni di polemiche sul tesseramento, ieri è stato ufficialmente annullato il congresso provinciale di Foggia «alla luce delle diffuse anomalie nelle adesioni al percorso costituente», dice Mario Nobile, del Gruppo operativo regionale pugliese di Si, che aveva presentato insieme ad altre cinque persone un esposto alla Commissione nazionale di garanzia denunciando che «migranti e anziani» erano stati «tesserati con una formazione politica che neanche conoscevano con pagamenti effettuati da terze persone e rastrellamenti di tessere compiuti da ex candidati di centro-destra».
Il leader e la sua minoranza, tutti prigionieri dello stesso labirinto
Destini incrociati . Bersaniani in panne, impossibile per loro evitare una scissione. Che però non vogliono
Colombo Manifesto 4.2.2017, 23:59
Inanellando un errore dopo l’altro, il Pd è finito in un labirinto costruito da se stesso e dal quale non sa più come uscire. Ammesso che una via d’uscita esista.
ùLa trovata di Renzi – alleanza con Beppe Grillo per varare di corsa una legge elettorale basata sul trasferimento al Senato delle norme per l’elezione della Camera sopravvissute alla Consulta – è già andata a sbattere, e non contro un solo ostacolo ma contro almeno tre. L’asse con Grillo è franato sul nodo centrale dei capilista bloccati. Al Senato la legge Renzi-Grillo si troverebbe contro una minoranza Pd non più impaurita dal ricatto e tutti i centristi: di fatto mezza maggioranza. Insistere renderebbe inevitabile la scissione.
La via d’uscita inventata da Dario Franceschini – invertire la rotta, allearsi con Silvio Berlusconi e i centristi invece che con Grillo e sostituire il premio di lista con quello di coalizione – è altrettanto votata al fallimento. Dal momento che nessun accordo con Berlusconi è possibile senza blindare i capilista bloccati, si troverebbe comunque contro al Senato la minoranza Pd, le ampie aree centriste che non rispondono più al comando di Angelino Alfano e il Movimento 5 Stelle. Uno scontro frontale sui capilista invece di frenare la scissione la incentiverebbe. E comunque, quando anche la legge fosse approvata, non risolverebbe affatto il problema della governabilità.
Una coalizione formata da Pd-Ncd e (forse) Giuliano Pisapia prenderebbe probabilmente meno voti di una lista del solo Pd e dopo le elezioni dovrebbe comunque allearsi con Berlusconi. Né si può immaginare di risolvere il problema con una coalizione Pd-Fi-Ncd prima del voto, la medesima essendo appunto «inimmaginabile». Almeno per gli elettori.
Neppure l’idea messa in campo dal solito Renzi per evitare la scissione – primarie al posto del congresso con disponibilità (forse) a sacrificare la propria candidatura – sembra avere chances di successo. Le primarie sono precisamente lo strumento adeguato alla visione di Renzi, tutta centrata sulla personalità del leader e sull’efficacia della propaganda. Non servono a nulla invece quando si tratta di ridiscutere da cima a fondo un modello di partito e una linea politica dimostratesi fallimentari, e che Renzi non sembra avere alcuna intenzione di cambiare. Anche in questo caso ammesso che ne sia capace.
La convocazione del congresso è oggi il solo modo certo per evitare la scissione. Neppure questa però è una scelta facile. Impossibile infatti coniugare congresso ed elezioni a giugno, anche se al momento l’intero Pd e non solo l’area renziana sono consapevoli di quanto sia pericoloso arrivare al voto dopo la prossima legge di bilancio. La durissima reazione dell’Europa alla lettera del governo sulla manovra correttiva non ha solo costretto il ministro Pier Carlo Padoan a una repentina e ingloriosa retromarcia. Ha anche svelato a tutto il Pd quanto saranno ostici i prossimi passaggi economici, cancellando ogni illusione. Però tenere insieme l’esigenza di affrontare le urne prima della manovra del prossimo autunno e quella di evitare la scissione convocando il congresso non sono compatibili.
Arrivano così al pettine i nodi intrecciatisi in tre anni di renzismo mai contrastato adeguatamente da una minoranza che si è lasciata troppo a lungo ricattare e culminati nella scelta suicida di non reagire allo sfacelo del referendum con una puntuale e soprattutto coraggiosa revisione della propria politica.
Finché non si deciderà a farlo, correndo i necessari rischi e accettando di pagare prezzi anche salati, per tutte le anime del Partito democratico non ci sarà altra possibilità che continuare a dibattersi nel labirinto.


Babele Pd sulla legge elettorale E il voto a giugno è più difficile 

Scontro sul premio di coalizione. Moody’s rilancia l’allarme sulla stabilità 

Ugo Magri Busiarda 4 2 2017
Nel Pd è in corso un dibattito, ricco di passione, su un aspetto della legge elettorale che ai profani può sembrare cavilloso: se sia preferibile dare il premio al solo partito che arriva primo, oppure spartire il bottino con l’intera coalizione vittoriosa. Esponenti di rango come Graziano Delrio e soprattutto Dario Franceschini (ma pure Andrea Orlando è sulla stessa lunghezza d’onda) rispondono senza dubbio alcuno: meglio la seconda delle due. Per sperare di vincere, pensano che sia d’uopo mostrarsi generosi e associare tanto Angelino Alfano quanto la sinistra di Giuliano Pisapia. Aggiungono che, alleati insieme, sarebbe meno impossibile superare il 40 per cento o, perlomeno, più facile farlo credere agli elettori. A un certo punto della mattina, i favorevoli al premio di coalizione sembravano in vantaggio. Ma poi sono venuti allo scoperto quanti temono, invece, che un’ammucchiata sarebbe solo dannosa, dunque meglio soli che male accompagnati. Per cui a sera la confusione era al top. E Renzi, come la pensa?
Chi tirerà le somme
Qualcuno sostiene che Matteo sia vittima della Babele nel suo partito; altri, al contrario, che il caos gli faccia comodo perché questa fioritura di opinioni contrastanti permetterà a lui di fare la sintesi, a modo suo come al solito. Chi lo sente sostiene che il segretario è contro il premio di coalizione perché mai fidarsi degli alleati, in caso di vittoria potrebbero impedirgli di tornare a Palazzo Chigi. Però certi contatti col mondo berlusconiano fanno ritenere che Renzi si tenga aperte tutte le strade, compresa quella di accontentare il Cav sul premio di coalizione (bocciato da Salvini) pur di averne in cambio un via libera alle elezioni in giugno. Ma pure qui aleggia la domanda: con i tempi ci siamo, o è già tardi?
Di sicuro, per votare a giugno presto non è. In Commissione alla Camera ci sono almeno 12 proposte da discutere, e prima di iniziare si attendono le motivazioni della Consulta. Il presidente Andrea Azziotti esige (a ragione) che non sia un semplice «pro forma» e si tenti di fare, oltre che presto, possibilmente bene. Il 27 è previsto che il parto della Commissione approdi in aula, ma da quel momento scatteranno gli agguati perché a Montecitorio è permesso il voto segreto, dunque vai con i «franchi tiratori». Poi toccherà al Senato, dove le maggioranze sono ballerine. Alle vecchie volpi del Parlamento, che si finisca prima di Pasqua sembra utopia pura. Eppure Renzi deve farcela, se non vuole perdere l’ultimo treno del voto che passa l’11 giugno, perché poi sarebbe troppo caldo per la campagna elettorale. Altro ostacolo da superare: i mercati. Secondo Moody’s, le elezioni del 2017 sono un fattore di rischio per l’Europa, «aumentano la volatilità». Nessuno ha la sfera di cristallo. Ma immaginiamoci se, il giorno in cui Gentiloni dovesse dimettersi e Mattarella sciogliere le Camere, lo spread fosse a quota 300. Impossibile far finta di niente.
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Il Novecento senza fine della sinistra 
Giovanni De Luna Busiarda 4 2 2017
L’ipotesi di scissione del Pd ha richiamato l’attenzione su quello che succede a sinistra del partito di Matteo Renzi e su una anomalia tutta italiana. In molti Paesi europei (ultima la Francia con Benoît Hamon) si registra infatti una netta inversione di tendenza rispetto alla linea moderata con cui la sinistra si era avventurata in percorsi che ne avevano progressivamente logorato l’impianto programmatico e il rapporto con i suoi elettori.
Niente di simile sta avvenendo in Italia, dove la stessa scissione ipotizzata da Bersani e D’Alema non ha niente da spartire con le esperienze di Tsipras in Grecia o di «Podemos» in Spagna e nemmeno con le scelte del partito laburista di Corbyn. A rendere sterili tutti i tentativi in questo senso ha contribuito certamente l’affermazione - anche questa tutta italiana - dei 5 Stelle.
Il partito di Grillo è stato infatti in grado di rappresentare efficacemente una parte delle rivendicazioni e delle istanze programmatiche della sinistra alternativa; si tratta però di una formazione politicamente spuria, che mette insieme spinte xenofobe e speranze ugualitarie, pulsioni autoritarie e slanci di democrazia diretta. Questo fa pensare che la spiegazione vada trovata più indietro nel tempo e che si tratti di una tipica eredità di un passato novecentesco ancora molto presente. Noi abbiamo avuto il più forte Partito comunista dell’Europa occidentale e il nostro ’68 è stato il più lungo di tutti. La linea del Pci nei confronti dei movimenti correva su un doppio binario: da un lato si trattava di combattere con tutti i mezzi l’affermazione di una qualsiasi forza politicamente credibile che potesse insidiarne la leadership; dall’altro di svuotarne le rivendicazioni dall’interno, proponendosi come l’unico sbocco istituzionale delle istanze più radicali che affioravano nel conflitto sociale. Questa scelta si è dimostrata molto efficace: non solo a sinistra del Pci non si è mai affermata un’alternativa credibile, ma si è anche consolidata una sorta di tacita delega per cui i movimenti si «accontentavano» di una presenza significativa nei momenti più acuti dello scontro sociale, trascurando del tutto i risvolti parlamentari delle loro iniziative politiche. 
Poi le cose sono cambiate. Negli ultimi venti anni, l’intero asse del sistema dei partiti si è progressivamente spostato verso destra; le forze di più autentica ispirazione liberale sono state soppiantate da formazioni reazionarie, xenofobe, populiste; la sinistra si è trovata così quasi automaticamente sospinta ad occupare le posizioni di un centro moderato e riformista lasciate sguarnite da quella deriva estremista, in molti casi ereditando - come è successo a Torino - anche il vecchio elettorato liberale e borghese. Pure, nonostante il Pci si fosse dissolto da tempo, il fatto che tutto intero il suo gruppo dirigente fosse approdato indenne ai fasti della Seconda Repubblica, ricoprendo anche le massime cariche politiche e istituzionali (dalla presidenza della Repubblica a quella del Consiglio), ha alimentato la falsa sensazione che quella delega fosse ancora in vigore: la «Pantera», i «girotondi», il «milione in piazza» per Cofferati, «Se non ora quando», etc..., tutte queste accensioni si sono spente da sole, dopo aver sperato invano di trovare una credibile sponda parlamentare nelle forze che ora sono nel Pd. Questa storia adesso presenta il conto e ne mette in luce la pesante eredità. Il banco di prova di una qualsiasi sinistra alternativa che voglia occupare le praterie lasciate sguarnite dal Pd è proprio quello di dotarsi una credibile proposta politica e istituzionale senza snaturare la sua natura «movimentista». 
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Cresce il fronte anti voto Forza Italia e sinistra aprono alla nuova legge elettorale 
La minoranza dem plaude al premio di coalizione I dubbi dei renziani. Orfini : i partiti vadano da soli

CARMELO LOPAPA Rep
Passano un paio di giorni e cambia tutto lo scenario politico. L’ipotesi del voto a giugno perde slancio. Un pezzo importante del Pd - non Renzi e i suoi - apre alla modifica della legge elettorale con premio alla coalizione anziché alla lista. E si crea subito un vasto schieramento favorevole che va da Forza Italia ai centristi di Alfano fino alla sinistra dem. Contro, sparano a pallettoni solo i Cinque stelle.
Ora bisogna solo aspettare le motivazioni della Consulta sull’Italicum, previste per la prossima settimana, e l’avvio subito dopo del dibattito in commissione Affari costituzionali della Camera, nella quale risultano depositate già 16 proposte. Altre ne arriveranno. Matteo Renzi non è affatto entusiasta della piega che sta prendendo la riforma. «Io di legge elettorale e tecnicismi non parlo più» taglia corto coi suoi da Pontassieve, tutto è rimandato alla direzione del 13. Potrebbe anche rinunciare a giugno, ma oltre ottobre l’ex premier non intende andare. La proposta lanciata dal ministro Dario Franceschini con l’intervista al Corriere lo lascia interdetto: per favorire un’intesa bipartisan alla riforma, premio di coalizione e quindi alleanze con il centro e la sinistra». Addio al Pd a vocazione maggioritaria, insomma. Apertura analoga alla coalizione viene fatta (qui a fianco) dal ministro Delrio.
Altri renziani, anche di più stretta osservanza, prendono le distanze. Più di tutti il presidente Orfini: «Contrario al principio della coalizione che in passato ha fatto cadere l’Ulivo e che ha obbligato a tenere insieme cose che non possono starci, che spaziano da Pisapia ad Alfano». Proprio quelle alleanze a cui allude Franceschini. Ma la proposta appena nata già cammina sulle sue gambe. È il segnale che aspettava la sinistra interna, se è vero che anche due “pasdaran” come Gotor e Fornaro la considerano «costruttiva». E così i centristi. «La strada giusta, troverebbe una larga maggioranza in aula», sostiene il leader di Ap Angelino Alfano a nome dei suoi. Da Forza Italia addirittura una standing ovation. «Va bene, ora spetta al Parlamento definire i contenuti», spiega Mariastella Gelmini. «Ma nessun Nazareno bis», mette le mani avanti Renato Brunetta. I tempi si dilatano per la trattativa ed è quel che interessa a Berlusconi, che pone come condizione il proporzionale coi capilista bloccati. Il premio alla coalizione, confessa in privato, «si potrebbe rivelare per noi il male minore ». I pontieri Letta e Ghedini sono già al lavoro. Tutto purché si voti appunto dopo la “sua” sentenza di Strasburgo: l’ultimo report sbandierato ieri da Arcore stimerebbe in 5 punti in più per Fi la “riabilitazione” del leader. E poi con la coalizione il Cavaliere non sarebbe costretto alla convivenza in lista con Salvini, che storce il muro: «Il premio alla coalizione mi entusiasma poco, ma per noi è prioritario che si voti subito» dice, non mettendosi del tutto di traverso. Il M5S non siederà siederà affatto al tavolo, fa sapere Luigi Di Maio: «Quel premio è la formula magica perché i partiti possano tirare a campare fino al 2018». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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