Nemmeno aspetta che i cronisti glielo chiedano, tanto sa che glielo chiederanno. E così, lasciando il teatro Vittoria, quasi li anticipa: «Altro che assemblea del rancore, qui c’è un progetto politico pieno di sostanza: e dipenderà solo da Renzi se questo progetto potrà vivere e svilupparsi nel Pd oppure no». D’Alema, Renzi e il rancore, dunque: perché sarebbe proprio questa sorta di micidiale triangolo, secondo l’ossessiva vulgata, che sta facendo colare a picco il Pd.
Già, ma avanti verso dove? Chi lo conosce, chi ci ha lavorato assieme e chi ne ha visto da vicino rudezze e debolezze, assicura che in politica il futuro - se ci si intende sulle parole - per D’Alema significa spesso tornare al passato. Gli piacque l’Ulivo, per esempio: ma fin quando non esagerò con le pretese, puntando perfino a diventare partito e minacciando l’autonomia e l’esistenza dei Ds. Cosa accadde a quel punto - la caduta di Prodi e la mesta fine di quell’esperienza - è storia nota.
«Il suo motto potrebbe essere “insieme ma non mescolati”...», dice Peppino Caldarola, amico d’un tempo e ieri animatore della kermesse della minoranza. Esatto: insieme ma non mescolati. Sinistra e centro, insomma, si alleino pure: ma ad ognuno la sua parte. Valse per l’Ulivo ed è valso, a maggior ragione, per il Pd: Massimo D’Alema ne accompagnò la nascita con qualche diffidenza, e non troppo tempo dopo lo definì «un amalgama mal riuscito». Fu come una sentenza: della quale oggi arrivano le motivazioni...
Il rancore c’entra, certo: ma c’entra ancor di più - questo racconta il Líder Maximo - la «svolta a destra» che Renzi avrebbe imposto al Pd. Un partito democratico a trazione cattolica e centrista non può essere la casa della sinistra italiana: quindi, o Matteo lascia o addio Pd. «L’idea per il futuro - azzarda Caldarola - potrebbe essere un ritorno al passato: centro-sinistra. Col famoso trattino. Da una parte la Margherita, dall’altra i Ds: come prima della nascita del Pd. Con la sinistra che torna a fare la sinistra. Magari in modo nuovo: ma ben visibile, battagliera e collocata dalla parte in cui la sinistra deve stare».
Renzi non fa concessioni e prova a dividere i ribelli “Se ne andranno in pochi” GOFFREDO DE MARCHIS Rep«Il percorso è quello della direzione», ripete come un mantra Matteo Renzi. Significa nessuna apertura sulle date del congresso (primarie al massimo il 7 maggio), nessuna concessione sul calendario. «Si dà la parola agli iscritti e ai militanti, come recita lo Statuto e come è normale in un partito. O meglio, nel Pd. L’unica forza politica italiana a fare ancora i congressi». I toni all’assemblea nazionale di oggi, giura il segretario, saranno concilianti: «Tutti si devono sentire a casa, l’ho detto anche ai tre candidati ». Senza modificare la sostanza della scelta. Congresso subito, prima delle amministrative.Ieri Renzi ha telefonato a Michele Emiliano, Roberto Speranza e Enrico Rossi. E a Pier Luigi Bersani? «Che c’entra, non è mica candidato?». Qualsiasi rapporto umano tra i due si è definitivamente consumato. Il contatto con gli sfidanti è servito anche a misurare la volontà di scissione delle truppe che ciascuno rappresenta. A dividere il fronte del dissenso, in buona sostanza. Renzi è convinto di aver creato qualche breccia, che non se ne andranno tutti. Semmai, pochi. «A parte D’Alema, ovviamente, che è già altrove».Allora, i fedelissimi del segretario la raccontano così, con una certa sicurezza: «Rossi resta e partecipa alle primarie». Fuori (anzi dentro) uno. «Emiliano sta rinculando. Per quello sostiene che gli ho garantito la fine della legislatura — spiega Renzi ai collaboratori — . Cerca un modo per rimanere. Non è vero, ho ripetuto quello che dico sempre. Che non decido io sulla durata del governo. Ma è il segno che può mettere la retromarcia». La telefonata con Speranza, il candidato bersaniano, è stata più articolata. Ventisei minuti di colloquio, certificati dal timer dell’-I-phone. «Ma dove vai, gli ho chiesto — racconta Renzi — . Come fa a lasciare un quadro del partito, uno che è stato segretario regionale del Pd? Quale prospettiva hai?». Argomenti non banali per chi, come Speranza, soffre la scissione più di altri. L’ex capogruppo però ha voluto vedere le carte: «Tu farai cadere Gentiloni, altrimenti perché non dici che deve arrivare al 2018?». «Io dico quello che ho sempre detto — la risposta di Renzi — . Decidono il Parlamento, il premier e il presidente della Repubblica». «Come non decidi tu — la chiosa di Speranza — . Sei il segretario del partito. Ma cosa dici?».Renzi è sicuro che la minoranza sia piena di dubbi. E comunque lui andrà avanti perché la storia si ripete: dopo Prodi nel ‘98 e Veltroni nel 2009, ci provano con il Pd di Renzi. «Non ce la faranno», avverte l’ex premier. Lì fuori, in mare aperto, esistono solo «il partito di Corbyn», il leader laburista che ogni giorno crolla nei sondaggi, o «operazioni nostalgia». Per questo nessuno vuole davvero andare via. «Anche sui territori — dicono i renziani — non c’è l’esodo dei dirigenti. La stragrande maggioranza della base non seguirà la scissione». La storia della durata di Paolo Gentiloni non regge: «Ho ripetuto in tutte le salse: massimo sostegno. Ma la data del voto non la decido io». Rossi non lascerà il Pd, dicono, anche per gli equilibri della Toscana di cui è governatore. Emiliano pure ha più di un dubbio. Il presidente della Puglia presenterà oggi l’ennesima mediazione: conferenza programmatica prima delle amministrative (l’11 giugno) e congresso subito dopo da chiudere in estate. Si capisce che ci sta provando, che non ha ancora detto l’ultima parola: addio. Ma la proposta, a Largo del Nazareno, è irricevibile: il congresso si fa prima del voto nelle città e nelle regioni. Qualsiasi rinvio è, nell’ottica di Renzi, il tentativo di logorarlo e di spodestarlo dopo un eventuale sconfitta.La divisione del fronte è un altro tassello del rapporto umano pari a zero che fotografa la relazione Renzi-Bersani. «Fa sempre così, cerca di spaccarci», dice una fonte vicina all’ex segretario. Speranza assicura che l’operazione fallirà: «Abbiamo avuto toni diversi all’assemblea di stamattina a Testaccio. Ma si capisce che ci muoviamo come un sol uomo». Renzi non pensa sia così. E per la scissione oggi è solo un passaggio. Molti prenderanno ancora tempo, in vista della direzione (entro la settimana) che avvierà il percorso congressuale.L’impegno dei fedelissimi di Renzi è tenere dentro quanti è possibile. Tutti parlano con tutti. Anche ieri è stato sondato Andrea Orlando, più volte critico con il segretario negli ultimi giorni. Il ministro della Giustizia ha chiesto ai mediatori di «essere flessibili, di non lasciare alcuna strada di pace». Ma non farà da sponda alla minoranza. E attende ancora di sbilanciarsi su un’eventuale candidatura al congresso da sfidante di Renzi. Matteo Orfini lancia ancora una nuova proposta: 15 giorni di dibattito sul programma nei circoli e poi congresso, sempre entro maggio. Sono gli ultimi fuochi per dimostrare che la buona volontà c’è stata, che la scissione è una sciagura per tutti. Ma alla fine, ripetono i renziani sintetizzando e additando l’uomo nero, la decisione è «tra chi sta con D’Alema e chi sta col Pd». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Dice il maestro Yoda: «Non provare; fare o non fare...». Nel covo di “Rivoluzione socialista” (titolo di un libro di Enrico Rossi e anche della manifestazione convocata ieri a Roma) le truppe antirenziane si affidano alla saggezza cult di Yoda «per salvare l’astronave della sinistra». Spezzoni da Star Wars («Devi sentire la forza intorno a te», sussurra Yoda a Luke Skywalker). E questo alla vigilia di una possibile scissione.
Al teatro Vittoria, affollatissimo dentro, schermo per gli esclusi fuori, va in scena, dopo la citazione spiritual- cinematografica, la kermesse dei tre candidati segretari di un partito che forse oggi si spaccherà: ecco il governatore della Toscana Enrico Rossi, ecco Roberto Speranza, l’erede designato di Bersani, un po’patibolare, ecco Michele Emiliano, ras della Puglia, che si autodefinisce, in una giornata altrimenti seria, il battutaro del gruppo («Il mio compito è di farvi sorridere»). Tre tenori, qualcuno fa notare, «Domingo, Pavarotti, Carreras ». Spartiti diversi, scenografia all’antica, clima vagamente surreale. Si inizia con “Bandiera Rossa” e, prontamente, spunta in sala una bandiera rossa (ma ci sono anche quelle del Pd). Peppino Caldarola, incaricato di presentare l’evento, ha la cravatta rossa. Sul grande schermo del teatro, si materializzano filmati applauditissimi con le facce di Bernie Sanders e Nelson Mandela, le guerrigliere curde, i tre milioni di persone della manifestazione Cgil per l’articolo 18 al Circo Massimo. In prima fila «i fratelli maggiori» (così li chiama Rossi) Bersani e D’Alema. Se ne stanno lontano dal microfono, silenti padri fondatori. E poi Guglielmo Epifani, Nico Stumpo, Miguel Gotor...
«Compagne e compagni vogliamo lottare!», esordisce Rossi sponsor di «un nuovo equilibrio tra capitalismo e democrazia». Sale sul palco dopo l’incursione in platea di Enrico Lucci, ex Jene, vestito da guardia rossa, colbacco in testa, cappotto con le medaglie sul petto. Parapiglia con la sicurezza, poi breve scambio di battute con Bersani che non gradisce: «Se ti vesti seriamente ti rispondo, qui non si scherza».
«Qui non si scherza». E’ vero (a parte le risate che strappa a tratti lo showman Emiliano). L’aria che tira non è delle migliori, lo strappo con l’establishment attuale è politico e umano, più marcato nella base che reagisce infatti anemica ai tatticismi residui degli oratori ma si scalda, eccome, quando c’è da dare addosso all’ex presidente del consiglio. Nomini Matteo Renzi ed ecco il buuh rancoroso dei compagni (del resto abbastanza speculare al “Fuori! Fuori!” della Leopolda). Comunità già divisa. Rossi: «Se il congresso è una conta per restituire le chiavi al segretario non ci stiamo». Speranza: «Se il congresso è una rivincita del Capo arrabbiato non ci stiamo »; Emiliano: «Se qualcuno pensa con la prepotenza e l’arroganza, o solo schioccando le dita, di cancellarci un sogno si sbaglia». Vanno via o no? «Se ne vada lui!», urlano dalla sala buia. E sono gli stessi che poi tributano una standing ovation a Bersani («C’è un solo segretario!») evocato dal solito Emiliano. Pierluigi sì che è stato generoso, si è dimesso, «permettendo così a Renzi di fare il premier ».
«Ho sostenuto Renzi, vi chiedo scusa », dice il governatore della Puglia, il capo cosparso di cenere. Ma sì, ti perdoniamo, però non farlo più. «I riflettori mi abbagliano, non vi vedo» scherza il deputato Francesco Laforgia - «chi me lo dice che in platea non ci siano renziani...». Risate. No, renziani non ce ne sono.
La scissione è cosa seria, è carne, è sangue di una comunità ma al Vittoria c’è uno strano mix di inquietudine e cinismo. «Se dobbiamo andar via, daremo vita ad un’altra storia e lo faremo senza patemi», dice Rossi, molto apprezzato per la sua «relazione alla vecchia maniera». «Se le cose dovessero andare non come vogliamo sarà normale un nuovo inizio», aggiunge notarile Speranza. Nessun patema, business as usual. Il battutista Emiliano abbraccia i colleghi candidati. «Roberto, Enrico, sentirvi parlare è una bellezza. Imparo, e metto da parte. E poi, chissà, un giorno riesco pure a fregarvi». Nella migliore tradizione. Oggi, all’assemblea Pd, ci sarà meno da ridere. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Sinistra italiana nasce oggi a Rimini e il suo primo segretario sarà Nicola Fratoianni. Ma la nuova creatura nasce orfana di Arturo Scotto, il capogruppo alla Camera che ha deciso di non partecipare al congresso. Ma è venuto a Rimini per spiegare le sue ragioni. Ha parlato tra applausi e contestazioni. Soprattutto quando nella sala è entrato Michele Emiliano, interrompendo il suo intervento e stringendogli la mano. Qualcosa percepito in aula come un anticipo di una futura alleanza parlamentare fra gli scissionisti del Pd e i dissidenti di Sinistra italiana. Scotto ha detto che la fase politica è profondamente cambiata, ha elencato una lista di priorità, fra cui il sostegno ai referendum sui voucher e la legalizzazione della cannabis. Ha detto che servono idee nuove e progetti nuovi. E riprendendo l’immagine di Fabio Mussi, che aveva paragonato la sinistra alla Polinesia, ha detto che «non serve aggiungere altre isole, ma costruire ponti».
Fratoianni è intervenuto prima e l’ovazione e gli abbracci finali valgono come un anticipo dell’investitura prevista per oggi. Chiude porte e finestre a Matteo Renzi, incarnazione della «sinistra che si fa destra, portatore di un progetto autoritario che prevedeva l’uomo solo al comando». La platea lo subissa di applausi quando grida al microfono «basta con il maggioritario, noi vogliamo la proporzionale». Il progetto renziano è stato battuto il 4 dicembre, ma non può essere archiviato come un incidente. E’ invece il pilastro su cui costruire una nuova sinistra, una nuova agenda della politica che metta la centro «la lotta contra la finanza rapace» che crea disuguaglianze enormi. Le stesse disuguaglianze di cui ha poi parlato Laura Boldrini. La presidente della Camera, dopo il battesimo di Campo progressista di Giulano Pisapia, è venuta anche a Rimini. «La sinistra - ha detto - porta nel suo dna la lotta alle disuguaglianze. Se non si ritrova su questo tema, non capisco su cosa possa ritrovarsi».
Dunque a Rimini porte chiuse per Renzi e il suo partito ritenuto neoliberista. A Rimini il Pd renziano ha mandato Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e vicepresidente del partito. Qualche brusio ma niente di più. Chiede e offre dialogo e unità, altrimenti vincono destre e populisti. Fratoianni dal palco: «Unità va bene. Ma per fare cosa? ». Il neo segretario ha un elenco di cose da fare: riduzione dell’orario di lavoro, massiccio investimento nella cultura e nella formazione, messa in sicurezza del territorio. E un no secco ai centri per rinchiudere gli immigrati. A Pisapia invece si guarda con interesse, ma pesa il 4 dicembre e il suo sì al referendum e il suo interesse per il Pd.
La nascita di Sinistra Italiana è accompagnata, come ogni congresso costituente, da umori diversi. Nei capannelli, per esempio, Corradino Mineo esprime un timore: «Tutto quello che stiamo facendo è inutile. Abbiamo steso una relazione unitaria che per evitare la rottura con Scotto ha messo la polvere sotto il tappeto. Si usa un linguaggio tardo-socialdemocratico. Alla fine, con qualsiasi legge elettorale, ci dovremo alleare con Pisapia e con i dissidenti del Pd. E dunque anche con Scotto». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Le sigle i nomi Così la sinistra si trasformò in una nebulosa Da Rifondazione agli ex dc di Franceschini il mondo progressista è diviso in almeno dieci tribù CONCITA DE GREGORIO Rep
CHI sta con chi. Per andare dove. Per fare cosa. Il disorientamento dei lettori di questo giornale e degli ostinati elettori del centrosinistra è lo stesso di tutti quelli, fra noi, che non siano cultori della materia o interessati a un seggio, spesso entrambe le cose. Nel giorno in cui si chiude il congresso di Sinistra Italiana e il Pd si riunisce in assemblea proviamo a fare una mappa, certamente in difetto di distinguo.
La trasformazione dei partiti novecenteschi di sinistra in nebulosa mediatica prevede una certa approssimazione, ce ne scusiamo. Da sinistra verso destra.
Rifondazione comunista. Esiste, resiste e si avvia al decimo congresso: a Spoleto dal 31 marzo al 2 aprile. La guida ostinato Paolo Ferrero: piemontese, ex Democrazia proletaria, ministro della Solidarietà sociale nel secondo governo Prodi. Nel periodo della campagna per il No ha riconquistato visibilità, ricontattato settori del sindacato di base e associazioni storiche come l’Anpi. Conta sull’energia di Eleonora Forenza, europarlamentare barese, eletta con più di 20 mila preferenze ai tempi della lista Tsipras. Riferimento di movimenti universitari, ricercatori precari. Completamente assente da alcuni territori, ne governa altri. Ha una filiera istituzionale di consiglieri e assessori. A Palermo, per esempio, è forza di governo a sostegno di Leoluca Orlando.
Dema. Il movimento del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, si ispira al manifesto delle città ribelli: capofila Barcellona di Ada Colau. Joan Subirats, ideologo del neo-municipalismo: “Gli Stati sono finiti. Saranno le città ribelli a cambiare l’Europa”. In collegamento col movimento di Varoufakis, ambisce a diventare la Podemos italiana o almeno il riferimento della sinistra civica: comitati per la casa, ambientalismo, beni comuni. Stefano Rodotà sarà il 21 febbraio all’istituto per gli studi filosofici di Marotta. Molto seguito da Micromega, coniuga effervescenza giovanile e intellettualità. Nuovo meridionalismo. Neopopulismo antisistema che mostra capacità di governo. Interessante il rapporto fra De Magistris e Michele Emiliano, spesso insieme nelle foto. Per Emiliano una sorta di ‘certificazione di sinistra’, all’opposto di quello che fu la foto di Vasto per Vendola e Di Pietro.
Sinistra Italiana. A congresso a Rimini. SI (ex Sel) è stata finora un gruppo parlamentare senza partito, rischia di uscire dal congresso come partito senza gruppo parlamentare. A contendere la segreteria al delfino di Vendola, Nicola Fratoianni, c’era infatti Arturo Scotto che fino a fine gennaio ha fatto tesseramento con il suo gruppo: Ciccio Ferrara, Marco Furfaro Michele Piras, Massimiliano Smeriglio. A fine gennaio il contrordine compagni: il gruppo è uscito per unirsi al movimento di Pisapia che, insieme a quello di D’Alema, potrebbe formare un gruppo parlamentare e comunque assicura in caso di elezioni un maggior numero di seggi. Pontiere con Pisapia è Ciccio Ferrara, napoletano, storico uomo macchina di Vendola, in ottimi rapporti con Bersani. All’uscita del gruppo Claudio Fava ha scritto “not in my name”. Attivi al congresso Cofferati, Mussi, Landini, D’Attorre e Tomaso Montanari. Da seguire, oggi, l’intervento dell’ex sindaco di Molfetta Paola Natalicchio in una foto altrimenti per soli uomini, con la notevole storica eccezione di Luciana Castellina.
Possibile. Di Pippo Civati, antesignano del dissenso al renzismo. A fine gennaio affollata assemblea a Parma, in prove di dialogo con Pizzarotti. Molto attiva e amata Beatrice Brignone, Senigallia, subentrata in Parlamento a Enrico Letta. Luca Pastorino, sindaco ligure, ha ottenuto un eccellente risultato alle regionali portando tuttavia alla vittoria di Toti.
Campo Progressista. Tandem Pisapia- Boldrini, raggiunto dalla porzione di SI traghettata da Ferrara e Smeriglio, braccio destro di Zingaretti, ex Rifondazione, ex Sel, sinistra laziale post veltroniana presente in quasi tutte le assise del momento, siano D’Alema Pisapia o Emiliano. Una confluenza, questa, che porta al gruppo una quindicina di parlamentari. Inoltre: Maria Pia Pizzolante dai giovani di Tilt, Simone Oggionni, 1984, da Esse Blog. Dalla Puglia Dario Stefàno, dalla Sardegna Luciano Uras in singolare coincidenza di destinazione col suo antagonista Michele Piras. I rapporti del gruppo Pisapia con Renzi sono buoni, ottimi quelli con D’Alema, sospesi quelli con SI. Decisivo capire se si farà il gruppo parlamentare con quelli di ConSenso, in caso di scissione Pd.
Campo aperto. Gianni Cuperlo. La voce ferma, coerente della sinistra Dem. Per il Sì al referendum, contro la scissione del partito.
ConSenso. I comitati per un nuovo centrosinistra lanciati da D’Alema il 28 gennaio scorso sono il fulcro della galassia. Scissione o no passa da lì. La forza di D’Alema e quella di Pisapia possono formare subito un gruppo parlamentare e contano su almeno venti seggi in caso di elezioni, dice chi fa i conti. D’Alema era ieri alla riunione di Emiliano ma non sarà oggi all’assemblea Pd.
Democratici socialisti. Triangolo di opposizione a Renzi: Enrico Rossi Michele Emiliano Roberto Speranza. Emiliano, presidente Puglia, è motivato alla scalata. Si presenta da sinistra, su scala nazionale, dopo aver praticato le larghe intese in Puglia: la stagione post-Vendola è cresciuta sul bilico post ideologico caricando pezzi organici e storici del centrodestra locale. Una sinistra marsupiale, che tiene dentro e nutre - così zittisce - l’opposizione. Negli enti, nei consorzi, nelle partecipate.
Giovani turchi/1. Andrea Orlando. Ligure, radici nel Pci. Da tenere molto d’occhio nel suo lavoro di tessitura silenzioso. In dialogo con gli ex popolari e con l’area Dem di Dario Franceschini. Orlando, ministro di Giustizia sia con Renzi che con Gentiloni, è uno dei più quotati antagonisti per il dopo Renzi, in alternativa a Emiliano.
Giovani turchi/2. Matteo Orfini, ex braccio destro di D’Alema ora renzianissimo, dal gruppo Rifare l’Italia alla presidenza del partito passando per l’operazione Roma, affossamento di Marino e consegna della città al M5S. Con Francesco Verducci, in ascesa, vengono dal gruppo della fondazione Gramsci. Scuola Vacca. Studiosi, strutturati, prudenti.
Area Dem. Dario Franceschini dà le carte, e da molto tempo. Ora in asse con Gentiloni e Mattarella, radici cattoliche. Istituzionali. Con Debora Serracchiani sono l’ossatura di un possibile Pd post-renziano e centrista, il vero ostacolo all’operazione D’Alema. Il vero nemico di chi tenta di scalare il partito da una, vera o presunta, sinistra.
Movimento lombardo. Il Pd di Milano e lombardo, snobbato dalle cronache, è il più vitale. Esprime pezzi di governo. Maurizio Martina, renziano ma non troppo, bergamasco, ex segretario cittadino poi regionale. Cristina Tajani, Milano In, appena entrata nel Pd da Sel/Si. Pierfrancerco Majorino e Pierfrancesco Maran hanno governato e governano le politiche della mobilità, migranti e urbanistica. Lia Quartapelle, deputata. Un pd che parla inglese, coworking e startup, e dialoga coi piani alti e lavora in basso. Capoluogo politico della sinistra che ha vinto e governa in Comune. La parte viva del Pd. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
UNA RIFONDAZIONE SENZA ALLEANZE STEFANO FOLLI Rep
NONOSTANTE le voci messe in giro dai renziani, non si sono sentiti molti insulti a Testaccio ieri mattina. Critiche virulente al partito del leader, sì, ma niente di più. In condizioni normali, sarebbe stata una riunione di corrente, sia pure vivace. Certe assemblee delle correnti democristiane, ai tempi della Prima Repubblica, erano più aspre ma nessuno metteva in discussione il partito. Viceversa, nel Pd del 2017 si sta consumando una scissione dalle conseguenze imprevedibili. Nasce il “partito partigiano dei lavoratori”, secondo la definizione di Enrico Rossi. Nasce per restituire cuore e sentimento alla politica, come ha detto Speranza e altri con lui. Ma al momento il nuovo soggetto è semplicemente una “Rifondazione Socialista”, anche se non si chiamerà così: il che costituisce un rischio ovvero un’opportunità a seconda dei punti di vista.
Era ben più drammatica la cornice in cui nacque l’altra Rifondazione, quella Comunista, figlia del Pci che cambiava nome e prospettiva mentre a Berlino crollavano i muri e i miti. E proprio la parabola in fondo effimera di quella Rifondazione, che pure si ispirava all’epopea tragica del comunismo, dovrebbe far riflettere gli scissionisti di oggi. I neo-socialisti di Emiliano, Rossi e Speranza, più Bersani e con la regia di D’Alema, non hanno una grande storia planetaria a cui collegare la loro scelta. Venticinque anni fa c’era più passione e più verità. Del resto, la vicenda del Pd si era immiserita già da tempo in un sostanziale fallimento e nello scontro fra due segmenti di ceto politico schierati uno contro l’altro. Anche le modalità con cui si sta arrivando alla frattura definitiva non evocano certo la Livorno del 1921, bensì una lite che si sarebbe facilmente potuta comporre se Renzi fosse stato più malleabile — e più saggio — nella distribuzione del potere interno. Tuttavia anche l’arroganza del segretario, contro la quale si è scagliato Emiliano, non vale granché come motivo per una scissione. Politici arroganti se ne sono contati diversi nella storia repubblicana, ma sono stati combattuti con gli strumenti dell’azione politica, senza demolire la casa comune. Vero è che oggi in Europa la sinistra tende a essere frammentata. In Francia l’unità garantita da Mitterrand è un lontano ricordo: alle presidenziali si presentano Hamon e Melenchon per l’ala più intransigente, Macron per quella tecnocratico-riformista. In Germania Schulz sembra aver risvegliato i socialdemocratici dal loro torpore, mentre la Linke rappresenta un’area che coincide grosso modo con quella a cui aspirano gli scissionisti del Pd (a cui vanno aggiunti gli altri soggetti già esistenti fuori da quel partito, da Pisapia a Fratoianni a Vendola). E in Gran Bretagna al Labour di sinistra guidato dal tradizionalista Corbyn corrisponde il ritorno in campo di Tony Blair, non a caso una delle figure a cui Renzi più si è ispirato.
Quindi la domanda è: dove andrà a collocarsi questo esperimento di “Rifondazione Socialista”? Quali alleanze vorrà costruire, visto che i sondaggi lo collocano fra il 4 e il 6,5 per cento? L’idea riecheggiata ieri a Testaccio è che, all’indomani delle elezioni, la nuova sinistra stringerà un’alleanza di governo con il Pd renziano, obbligandolo a cedere sul programma e sulla gestione ministeriale. Tale scenario è già stato demolito da Piero Fassino, secondo il quale non ci potrà mai essere una coalizione con gli scissionisti. Sulla carta ha ragione l’ex sindaco di Torino: è strano che si proponga al Pd un’intesa di governo prima ancora di concludere il divorzio. Ma nei fatti gli scissionisti hanno filo da tessere. Dipenderà dai numeri in Parlamento, numeri che al momento prevedono una fase di totale paralisi. Se però, in via d’ipotesi, al Pd mancassero solo i voti degli scissionisti per creare una maggioranza, c’è da credere che certe chiusure verrebbero meno.
Molto dipenderà dalla legge elettorale. Facile prevedere una nuova stagione di contrasti. Uniformare il modello della Camera a quello del Senato può essere semplice ovvero assai complicato. Dipende dalla volontà politica. Ad esempio si sta creando un fronte contrario ai capilista bloccati: vorrebbe dire abbattere uno dei residui punti fermi dell’Italicum già disgregato dalla Corte. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La lettera a Sinistra italiana Messaggio al congresso in corso a Rimini. Rflettere sul Novecento. Strumento e soggetti del cambiamento. Le domande aperte Rossana Rossanda Manifesto PARIGI 19.2.2017, 23:59
Quando ieri al congresso di Sinistra Italiana un giovane compagno ha terminato di leggere questo messaggio inviato da Rossana Rossanda tutti si sono alzati in piedi e hanno intonato l’Internazionale, il pugno alzato nel saluto comunista.
Cari compagni, vi ringrazio per la vostra lettera e l’invito a partecipare al vostro dibattito congressuale.
È evidente che mi interessa. Ho letto i documenti che avevate da qualche tempo preparato, ma potete comprendermi se mi riguardano come materiale di riflessione piuttosto che come decisione di schieramento.
Vi prego di tenere presente, oltre alla mia età e al mio stato di salute, il lungo percorso che ho fatto. E con non poche sconfitte. Non me ne rincresce.
Ma mi obbliga – a quanto sembra diversamente dalla maggior parte dei fermenti che si sono sviluppati intorno alla crisi del Partito Comunista Italiano, prima e, poi, del Partito democratico – a uno sguardo e a un bilancio su quella che è stata la storia passata del movimento operaio italiano e, almeno, europeo. Si tratta di un secolo di elaborazione teorica e di lotte.
Di vite, insomma, rispetto alle quali mi pare eccessivamente disinvolto passare senza soffermarsi. Tanto meno sono disposta a seguire gli eredi di Berlinguer quando hanno pensato di poter ripartire da zero.
In realtà, mi pare che la loro sia stata una resa senza condizioni alle opinioni di quello che chiamavamo «avversario di classe». L’ammissione, cioè, che fosse inutile rivedere testi ed esperienze, sia del partito comunista e del movimento operaio italiano, sia dei cosiddetti «socialismi reali», per rimontare senz’altro a Marx e dichiararlo liquidato.
Siamo ancora all’interno di un sistema capitalista.
In che misura e dentro quali limiti si è andato modificando? E, soprattutto: è ancora il terreno sul quale, nel «lavoro», si materializza il soggetto che non ne sopporta lo stato di soggezione – peggio: di alienazione – in cui è tenuto?
Oppure è questo elemento che si è venuto modificando, a causa di quella che chiamiamo tecnologia e che un tempo, in più diretto collegamento col rifiuto del sistema, chiamavamo «lavoro vivo» e «lavoro morto»?
Certamente è cambiato il punto di aggregazione del lavoro dipendente, cioè la fabbrica (almeno in Occidente, perché altrove resta come forma residuale). E la scomparsa della fabbrica implica o no la scomparsa del proletariato come zona immensa della società non proprietaria?
Mi è capitato di leggere di molti attuali pensatori che dubitano del concetto di «classe». Ma dubitarne, senza sostituirvi un concetto fondatore diverso, significa dubitare della possibilità di una materializzazione del soggetto politico del cambiamento.
E, allora, a che servirebbe un partito comunista riveduto e corretto, o, ancor meno, un partito democratico?
Perfino una teoria di «compromesso sociale» – come sono state, subito prima della guerra, le teorie di Keynes e di Minski – presuppone l’esistenza di un disagio di fondo che divide le nostre società, e di qui il bisogno di cambiare i rapporti sociali.
E infatti, non per caso, anche questi nomi, già pilastri di una certa socialdemocrazia, sono oggi coinvolti, senza una spiegazione, nella crisi finale dell’organizzazione capitalistica dominante.
È che su questa crisi sembrano lavorare piuttosto studiosi di provenienza diversa da quella del movimento operaio (come Luciano Gallino che ripeteva, negli ultimi scritti: «La lotta di classe esiste ancora e l’hanno vinta i capitalisti»).
Questa domanda non la ritrovo nei tentativi della maggior parte di chi si propone di dare un esito all’attuale, tormentosa vita delle sinistre italiane.
Un ragionamento analogo vale a proposito del «soggetto politico del cambiamento», che è, anzi, un aspetto dello stesso problema, rimasto irrisolto dal secolo ventesimo: quello sulle o sulla libertà.
Con il voto del 4 dicembre, è stata ribadita l’importanza della Costituzione. Ma la Costituzione imposta il problema di una convivenza dell’intera società, comprese, anzi garantite, le sue dialettiche di classe (guardate in proposito al ragionamento di Mario Dogliani nel sito del Centro per la Riforma dello Stato).
Non si tratta, però, dello stesso discorso che può valere come orizzonte di una parte essenziale e conflittiva della società, specialmente quella che riguarda il soggetto del cambiamento. Vale a dire come questione relativa al lavoro, quale è stato ed è. E delle nuove questioni antropologiche – come quella posta dalle donne – sviluppatesi alla fine del secolo scorso.
Di fatto, mi sembra che non si sia andati oltre al dilemma reale del Novecento: fra garanzia dei diritti civili e nessuna garanzia dei diritti sociali, oppure, all’opposto, garanzia dei diritti sociali e nessuna garanzia dei diritti di libertà.
A ben vedere, si ripropone, anch’essa come irrisolta, la questione che nel secolo scorso era stata posta soprattutto da Louis Althusser: se il marxismo, teoria e lotte, debba essere visto come una filosofia o una scienza.
Da cui consegue il problema di come debbano organizzarsi i soggetti del cambiamento, se attraverso un partito o diversamente.
La risposta, che sembra venga data da una larga maggioranza in Italia, è che di partito non si possa più parlare.
Il che ha prodotto – con il consenso di nuovo di una maggioranza – una disarticolazione che ha di fatto assegnato il potere decisionale a una organizzazione semi-privata come il Movimento Cinque stelle (al quale non a caso hanno aderito diverse persone che eravamo abituate a chiamare «compagni»).
Non voglio farla lunga e neppure affronto i problemi che ci pose il leninismo. I socialismi reali e i partiti comunisti si sono dissolti senza neppure affrontare le domande che avevano lasciate irrisolte.
Desideravo solo indicarvi sommariamente, almeno attraverso qualche esempio, quali, e di quali dimensioni, siano le questioni che il Novecento ha lasciato aperte e sulle quali non mi sembra si possa passare oltre senza tentare di impostare risposte fino ad ora non date.
Vi ringrazio ancora per l’amicizia che mi avete dimostrato e vi auguro buon lavoro.
Parigi, 16 febbraio 2017
Avanti, popolo. La base vuole il partito Riccardo Chiari Manifesto inviato a Rimini 19.2.2017
Nel giorno dell’annunciatissimo addio di Arturo Scotto e di «quelli del teatro Vittoria» (Smeriglio, Ferrara, Furfaro, Pizzolante), la risposta della base di Sinistra italiana è chiara: «Avanti, andiamo avanti». Lo chiedono, insistentemente, i delegati e le delegate che di ora in ora salgono sul palco, in una lunga giornata che mette in chiaro quale sia la spinta collettiva che muove il nuovo partito.
«Ci dicono che il nostro è un progetto minoritario e marginale – sintetizza il segretario in pectore Nicola Fratoianni – ci dicono che non possiamo dividerci perché c’è il pericolo della destra, da Trump a Le Pen a quella italiana. Ma credete davvero che la destra vince perché il centrosinistra è diviso? No, la destra vince perché larga parte della sinistra si è resa responsabile di politiche di destra». Dalla cosiddetta «buona scuola» al jobs act, più volte denunciati al pari delle revisioni costituzionali come il pareggio di bilancio, e dell’altro diktat chiamato fiscal compact.
Sarà un caso, ma in un sabato congressuale nel quale la disponibilità all’ascolto e al confronto civile dà la cifra di quanta passione politica si muove nel grande auditorium del Palacongressi riminese, il momento più deteriore arriva nel corso dell’intervento di Arturo Scotto. Non solo per sua responsabilità, perché al di là dell’evitabile replay dell’asserzione «se un soggetto politico non è contendibile…» – accolta da fischi sonori – il saluto è ascoltato con grande compostezza.
Anche quando Scotto, confermando di fatto l’approdo al «campo progressista» di Giuliano Pisapia, anticipa: «Il tema di come ci attrezziamo contro la destra è ancora qui e sarà l’argomento dei prossimi mesi, l’unico antidoto è la ricostruzione di un nuovo centrosinistra».
Ma mentre il deputato napoletano sta ancora parlando, l’entrata in sala di Michele Emiliano – uguale a quella di Apollo Creed in «Rocky» – e la plateale stretta di mano con Scotto che come lui è reduce dal Vittoria, convincono la platea che quando è troppo è troppo. Di qui i fischi e i «buu» dei delegati. Molti dei quali, a bocce ferme, commentano negativamente l’exploit da «politica spettacolo» del governatore pugliese del Pd, che perora un «neo-ulivismo» e dell’ormai ex capogruppo alla camera.
Mentre Alfredo D’Attorre, che pure ha presentato un ordine del giorno perché Sinistra italiana sia cofondatrice di «un campo più largo», completerà comunque il percorso congressuale.
Ben altro clima aveva accompagnato al mattino, fra i tanti saluti come Vincenzo Vita a nome dell’Ars e di Aldo Tortorella, quello di Tomaso Montanari, vicepresidente di Libertà e Giustizia e autore di un intervento applaudito come quello di Maurizio Landini. «Il vostro, il nostro viaggio si propone di percorrere un sentiero di crinale – esordisce lo storico dell’arte – stretto e costeggiato di burroni. Ma è l’unico sentiero che ha qualche possibilità di condurre ad un futuro che non sia l’ossessivo prolungamento di un presente ingiusto e disumano».
A seguire i numeri dei 4,6 milioni di italiani/e in condizioni di indigenza assoluta. Il doppio rispetto a soli dieci anni fa, e con un milione di bambini in povertà assoluta e due milioni in povertà relativa. «È una realtà impressionante. Ma è un fantasma, per la politica italiana. E la scuola che oggi viene progettata, l’oscena “buona scuola”, ha il fine di strappare gli occhi agli italiani del futuro. L’opposto di quello sforzo costante, come deve avere Sinistra italiana, per vedere quello che abbiamo costantemente sotto il naso». Infine un altro passaggio politico: «Vorrei una sinistra capace di comprendere che la crisi della democrazia non è una crisi di governabilità, ma una crisi di rappresentanza. Non accettate un’agenda per cui l’unico modo di fare politica è determinare alleanze, scissioni, fusioni, senza mai chiarire qual è il progetto politico. Qual è la visione. Quale l’idea di Italia, e di sinistra. Certo non sarà il sindaco dell’Expo del cemento a farci uscire dalla globalizzazione neoliberista, è bene saperlo».
Esplicito l’attacco a Pisapia.
Così come fa Alessia Petraglia guardando al referendum costituzionale: «Il 4 dicembre resterà una data storica per la sinistra. Ma attenzione, è già in corso la rimozione della storia. E noi dobbiamo avere il coraggio di dire che, fra chi ha votato Sì e chi ha votato No, c’è un discrimine profondo, un concetto diverso di democrazia».
Mentre Sergio Cofferati avverte: «Sono stanco dei politicismi. Voglio parlare di contenuti, non di liste elettorali. C’è un vuoto che va riempito» sul lavoro e i suoi diritti, così come sull’Unione europea: «Io sono un europeista convinto. L’euro ci ha salvati dal tracollo ma l’Europa va cambiata alla radice, a partire dalla cancellazione del fiscal compact».
In una giornata fittissima, citazione d’obbligo per Laura Boldrini, che ammonisce: «La scissione che a me fa più paura è quella delle persone dalla politica. Mi auguro si capisca la necessità di riacquistare la fiducia delle persone che non vanno più a votare, o votano per protesta». La presidente della Camera, tra l’altro, è l’unica ad evocare un grande convitato di pietra come il M5S.
Mentre Paolo Ferrero, richiamandosi all’esperienza unitaria vincente di Ada Colau a Barcellona (Podemos, Iu, movimenti), propone a Si la possibilità di un cammino analogo anche in Italia.
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