venerdì 10 marzo 2017
"Filosofi antifascisti": pubblicati a cur di Fabio Minazzi gli atti del congresso della SFI del 1926
Risvolto
Nel presente volume si pubblicano, per la prima volta, dopo novant’anni, gli atti
del VI Congresso SFI di filosofia di Milano del 1926, unitamente alla
rassegna stampa degli articoli giornalistici apparsi allora. In genere i
convegni passano, ma gli atti restano. In questo caso è successo esattamente l’inverso, giacché gli atti
non furono mai pubblicati, ma la memoria di questo simposio è rimasta
indelebile nella storia civile e culturale (italiana ed internazionale).
Il simposio, avviatosi sotto l’occhiuto controllo della polizia
fascista, fu infatti improvvisamente chiuso d’autorità, per un
intervento diretto del potere politico, che non tollerava la sua natura
antifascista. Grazie a Pierto Martinetti, uno dei principali filosofi
d’inizio Novecento ed anche una delle più forti personalità morali
dell’antifascismo del Nord d’Italia, il simposio fu organizzato in modo
affatto libero e indipendente. Martinetti invitò così Adelchi Baratono,
Giuseppe Antonio Borgese, Ernesto Buonaiuti, Benedetto Croce, Francesco
De Sarlo, Giuseppe Tarozzi, Giuseppe Rensi e l’allora presidente della
SFI Bernardino Varisco (l’unico schierato col fascismo). In questo
spirito il Congresso ha rappresentato una sfida aperta al regime
fascista e al diffuso clerico-fascismo, nonché un momento di pubblica,
clamorosa e civile protesta contro la dittatura che stava allora
fascistizzando l’Italia, giovandosi anche della cortese intercessione di
eloquenti legni fascisti (la cd. «filosofia del manganello») e
dell’acquiescenza, corresponsabile, dei più. «La dimostrazioncella
antifascista del Congresso – scrisse allora Gentile – viene da uomini
che nella presente vita italiana non hanno nessunissima importanza: non
sanno nemmeno che cosa il Fascismo voglia, e in che consista. Guardano a
questo o a quel fascista, e fanno piccole questioni di persone.
Miserie». Questo giudizio (fascista) era, tuttavia, profondamente
sbagliato. Non solo perché grazie a questo simposio la “scuola di
Milano” ha scritto una delle sue pagine civili più importanti e
significative. Ma anche perché proprio da queste presunte “miserie” –
per dirla con Ignazio Silone – «il seme sotto la neve» stava lentamente
germogliando per mettere quelle radici il cui frutto migliore saranno la
Resistenza e la guerra partigiana di Liberazione.
I professori resistenti e il Congresso negato per «ordine pubblico»
Alberto Giovanni Biuso Manifesto 28.9.2017, 0:01
«Si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio», canta De André in Bocca di Rosa. Capita così che dalla sicurezza della propria cattedra non pochi professori parlino e scrivano contro colleghi del passato che si sarebbero sottomessi a poteri autoritari e totalitari di diverso segno.
MA CHE COSA avrebbero fatto loro trovandosi in quei frangenti? Per l’Italia la risposta è facile: avrebbero giurato obbedienza al regime. È infatti quello che accadde quando nel 1931 il governo fascista impose ai docenti universitari una promessa di fedeltà alla quale si sottoposero praticamente tutti. Tutti tranne dodici professori che persero per questo cattedra e stipendio. La premessa di questa numericamente piccola ma politicamente importantissima resistenza fu il Congresso milanese della società filosofica italiana del 1926, che venne sospeso d’autorità per ragioni di «ordine pubblico».
La memoria di quel Congresso è rimasta viva ma i suoi atti non vennero mai pubblicati. Lo sono adesso a cura del centro internazionale Insubrico e del suo direttore Fabio Minazzi (Filosofi antifascisti, Mimesis, pp. 598, euro 38). Dopo una densa parte introduttiva, il volume presenta tutte le relazioni previste per quel Congresso, la cui anima politica e scientifica fu Piero Martinetti, che nel suo intervento ricorda «al filosofo il valore sociale dell’opera sua; la quale non soltanto ha le sue radici nelle condizioni particolari di un’età e riceve dalle circostanze storiche impulsi e indirizzi spesso ignorati e inconfessati, ma su questa età è chiamato anche a reagire per vie più o meno dirette e non può astrarsi da questo aspetto della sua attività senza rinunziare a un momento essenziale della sua grandezza».
Le altre relazioni affrontano argomenti numerosi e diversi: dalle prospettive materialiste al pensiero come attività estetica, dal significato della religione alla filosofia italiana dell’età moderna, dalle funzioni dello Stato all’insegnamento della filosofia nei Licei.
UNA DELLE RAGIONI di interesse del libro è la presenza di una ricca rassegna stampa – non solo italiana – che documenta quale eco ebbe il Congresso del 1926 nel così difficile contesto storico e politico in cui si svolse. Significativo è il modo in cui il Corriere della sera diede notizia il 31 marzo dello scioglimento del Congresso.
Dopo aver apprezzato la decisione del Rettore Mangiagalli di «porre termine ad uno stato di cose che minacciava di diminuire, non solo il decoro dell’Università, ma anche quel senso di rispetto che la coltura deve sapersi meritare di fronte all’opinione pubblica», ribadisce la necessità di impedire che sotto il pretesto di un Congresso di filosofi «si svolgesse una propaganda politica atta ad accendere gli animi alla discordia» e conclude con una lode rivolta a Benedetto Croce il quale invece con la sua relazione avrebbe dato un esempio «d’austera semplicità agli studiosi italiani». Da parte dei giornali più vicini al regime si ebbe un accanito e volgare attacco al «professorume» (Il Popolo d’Italia) e alla «manovretta antifascista sotto specie di discussioni astratte intorno alla libertà», (Il Giornale d’Italia).
Filosofi antifascisti non documenta soltanto il passato ma descrive anche il presente. La sua lettura trasmette un senso di inquietudine per le non poche analogie con quanto sta accadendo, in Italia e in Europa, alla scuola e all’università, sottoposte – scrive Minazzi – a ripetuti tentativi di «ridurre sistematicamente i docenti (universitari e medi) a meri burocrati, esecutori di direttive imposte ministerialmente, mentre sui luoghi di lavoro e di studio la partecipazione democratica è spesso erosa dal suo interno».
IL TENTATIVO di trasformare i docenti da ricercatori scientifici a funzionari dello Stato impauriti e prudenti può essere attuato in forme molto diverse, non soltanto con la violenza esplicita dei regimi fascisti ma anche con l’asservimento liberista del sapere a scopi puramente economicisti. Potrebbe essere questo un motivo di riflessione per il prossimo 25 aprile.
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