martedì 7 marzo 2017

Il Congresso del popolo a Pechino e l'approfondimento della politica economica

Il Pil cinese rallenta: solo più 6,5% “Troppi rischi interni ed esterni” 
Il premier Li Keqiang annuncia per quest’anno previsioni di crescita al ribasso “Aumentano de-globalizzazione e protezionismo, va mantenuta la stabilità”

ANGELO AQUARO Rep 6 3 2017
Il grande balzo in avanti adesso è intriso di “se” e di “forse”. La locomotiva cinese rallenta: l’obiettivo del Pil, che l’anno scorso era stato lasciato ottimisticamente fluttuare tra il 6.5 e il 7%, quest’anno è inchiodato «intorno al 6.5%». Al ribasso. E ciò che preoccupa di più non è la salute dell’economia di qui: o quantomeno non solo quella. Già il 2016 è stato un anno in cui «il mondo ha conosciuto la crescita commerciale ed economica più bassa degli ultimi sette anni» per colpa di «improvvise e continue minacce regionali e globali», spiega il premier Li Keqiang che mai cita ma praticamente evoca Brexit e l’elezione di Donald Trump. Ma domani è un altro giorno: e volge al peggio. Perché la situazione è «più complicata e grave» del previsto «sia all’interno che all’esterno ». Non è una semplice constatazione. È un allarme vero e proprio visto che i «fattori che possono causare instabilità e incertezza » non sembrano temporanei. Anzi: «Stanno visibilmente crescendo». Di più: «La crescita economica mondiale resta debole mentre la de-globalizzazione e il protezionismo aumentano». Dove, anche qui, quel neologismo, «de-globalizzazione», si traduce con un nome e un cognome: Donald Trump.
Il vento è cambiato. Il 2016 s’era chiuso con la matematica dimostrazione della potenza della pianificazione comunista: il Pil cresciuto del 6,7%, cioè esattamente a metà tra quel 6.5% e quel 7% pronosticati. Altri tempi. C’era una volta la Cina dei piani quinquennali e della pianificazione: delle certezze indotte dal marxismo che sarà stato pure illiberale ma era quantomeno scientifico. Ecco a voi invece la Cina dell’incertezza e della crescita “intorno al”. Non sono ancora le 8.30 del mattino della domenica di qui, ancora notte in Italia, quando China Daily, il giornale in inglese pagato dallo Stato, straccia tutta la concorrenza, e ci mancherebbe, mettendo in rete quel dato a cui è appesa l’economia di tutto il mondo: anticipando cioè il report sul «lavoro del governo» che la Repubblica popolare cinese riassume nei “key points”, i punti chiave resi pubblici all’apertura del Congresso nazionale del Popolo che come ogni anno, di questi giorni a marzo, segna l’inizio dell’attività diciamo così parlamentare in questa democrazia da partito unico.
L’analisi cinese è implacabilmente corretta. Per carità: andrà anche sfrondata delle paraphernalia di rito a uso più o meno interno, i riferimenti al compagno Xi Jinping per la prima volta identificato come “nucleo” del comitato centrale del partito comunista. L’economia rallenta e l’unica cosa che aumenta nel discorso del premier – addirittura di un terzo, da sei a nove – sono gli omaggi alla sua leadership: il compagno Xi di qui, il compagno Xi di qua. Ma questi saranno, più o meno, fatti loro. A preoccupare è invece la frequenza di un’altra parola che si moltiplica tra il report dell’anno scorso e quello attuale: «Rischio». Quindici citazioni contro dieci dell’anno passato: sarà proprio vero che qualcosa non va?
Gli esegeti della politica di qui ricordano che questo ritorno al realismo in fondo ha una spiegazione più semplice di quello che sembra: non è un anno come tutti gli altri, a novembre il 19esimo congresso del Partito incoronerà per un altro quinquennio Super Xi e quindi meglio non promettere la luna, stiamo con i piedi per terra, non diamoci troppi scossoni e puntiamo a una crescita che sia sostenibile e stabile, possibilmente anche più pulita, visto l’impegno del premier a «riportare azzurri i cieli della Cina». «Prima di tutto» si legge nel programma di governo «dobbiamo progredire mantenendo la stabilità: la stabilità è la priorità». Mai come questa volta, insomma, gli obiettivi al ribasso sembrano la traduzione di quel “new normal” che la dirigenza di qui aveva già abbozzato quando aveva dovuto inventarsi uno slogan che giustificasse la crescita per una volta a una cifra sola invece che a due. Ma non basta la spiegazione interna a spiegare tutta questa cautela. Non per niente Pechino sottolinea l’incertezza «sulla direzione delle maggiori economie e il loro effetto a catena ». Non sarà il Cigno nero della teoria economica più pessimista della storia ma ci somiglia. La locomotiva andava così forte che rischiava di deragliare. E dunque: diminuzione della sovrapproduzione, argine ai prezzi delle case schizzati anche del 30% in più per allontanare il rischio bolla immobiliare, contenimento del debito delle imprese (soprattutto degli “zombie” di Stato) per scongiurare il rischio della bolla anche bancaria, diminuzione dei costi di produzione sperando che basterà tagliare lacci e lacciuoli della burocrazia per ovviare all’aumento del coso del lavoro che ha beneficiato i lavoratori cinesi (ormai remunerati quasi quanto quelli europei) e però rischia di cancellare la mitica competitività del made in China.
Freno, freno, freno. Meno è meglio: sarà mica questo il nuovo slogan per scongiurare il grande balzo all’indietro? ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Ma il Dragone che frena è un’incognita per l’Europa 

Il nuovo modello di sviluppo che Pechino un po’ pianifica un po’ subisce può farne la leader di una coalizione globalista. Ma l’abbraccio cinese può soffocare
FEDERICO RAMPINI Rep
UNA Cina che rallenta, può essere più malleabile davanti all’offensiva protezionista di Trump, oppure incattivirsi. Il nuovo modello di sviluppo che Pechino un po’ pianifica e un po’ subisce, può farne l’inattesa leader di una coalizione globalista — perfino sull’ambiente.
L’EUROPA può decidere di usare la Repubblica Popolare come “sponda”, per rintuzzare l’aggressività del neonazionalismo americano; ma deve sapere a quali costi si espone.
La locomotiva cinese cresce “solo” del 6,5% che alla luce delle sue performance passate è una frenata. Oggi si applica al gigante asiatico l’immagine che un tempo usavamo per l’America: se Pechino si prende un raffreddore, per noi sarà polmonite? In realtà a prima vista dovremmo festeggiare la notizia. Anzitutto, non dimentichiamo quali brividi ci aveva provocato la Cina un anno fa con le convulsioni dei suoi mercati finanziari: per ora lo shock è superato, grazie a una sapiente miscela di misure dirigiste (incluse restrizioni alle fughe di capitali). La seconda economia mondiale non è più un focolaio potenziale di contagi, com’era stata percepita dai mercati nell’estate del 2015 e nel gennaio 2016. Inoltre i fautori occidentali della “decrescita felice” segnano un punto. Dopo un boom ventennale che ha inflitto distruzioni immani agli equilibri ambientali, non solo cinesi ma mondiali, un “ soft landing” o atterraggio morbido verso tassi di crescita più moderati, dovrebbe essere salutare. Tanto più che oggi è Xi Jinping a proclamare la sua adesione agli obettivi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico, proprio mentre Trump smantella la sua agenzia ambientale.
La Cina cresce meno, ma non è solo il frutto di una scelta consapevole. Il rallentamento non è tutto dovuto ad una strategia deliberata, quella che vuole operare una transizione verso il modello di crescita più adatto ad un’economia matura, con meno acciaierie e più smartphone, meno cantieri navali e più asili nido. Una parte della frenata è subìta. La transizione demografica è brutale: la nazione più popolosa del mondo rischia di vedere avverarsi la profezia paurosa: «Diventeremo vecchi prima di diventare ricchi?».
Pechino ha dei problemi perfino più urgenti e ancora meno controllabili. La figura di Donald Trump li sintetizza: è la minaccia di un protezionismo dal quale la Cina può perdere più di ogni altra nazione, visto che è la prima esportatrice mondiale. «Tratteremo le imprese straniere come quelle cinesi», ha promesso il premier Li Keqiang. Più che un impegno solenne, suona come un lapsus freudiano. È l’ammissione implicita che Trump ha ragione quando denuncia il protezionismo cinese. Molto prima di Trump, tante multinazionali europee e americane hanno denunciato i mille ostacoli occulti con cui l’apparato amministrativo cinese le penalizza per favorire le imprese locali. Di recente al protezionismo occulto si è aggiunta la campagna anti-corruzione, che ha colpito i beni di lusso made in Italy o made in France (tipici “regali” alla nomenclatura). Il mercato cinese ha smesso di essere un Eldorado per i capitalisti occidentali. I tamburi di guerra commerciale che arrivano da Washington allarmano Xi Jinping e il suo premier anche perché sanno di avere spesso barato con le regole del gioco.
Come Xi aveva fatto al World Economic Forum di Davos, così il suo primo ministro ha profuso parole rassicuranti: «La Cina sarà sempre per la stabilità. La globalizzazione è nell’interesse fondamentale dei nostri paesi». Presa alla lettera, è la candidatura cinese ad una leadership globalista, per riempire il vuoto che si crea con la ritirata isolazionista dell’America. Ma tradisce una paura: Pechino aveva prosperato dentro una Pax Economica americana, e ora s’interroga sull’inizio di una fase storica che sembra molto diversa. Prendere alla lettera Xi e Li quando si proclamano globalisti, è abbastanza rischioso. Non dimentichiamo che se la Cina se l’è cavata dopo i tremori finanziari di un anno e mezzo fa, lo deve tutto alle leve potenti e opache del suo capitalismo di Stato, ben più controllato e pianificato di qualsiasi economia di mercato. È un partner il cui abbraccio può rivelarsi soffocante. Elargisce investimenti generosi che ricordano la strategia dell’impero romano, per includere tutti noi in una nuova rete ramificata di infrastrutture. Ma così come duemila anni fa tutte le strade portavano a Roma, nel titanico progetto della Nuova Via della Seta è molto chiaro quale sia il centro e quale la periferia. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il piano di Pechino “Rafforzeremo le nostre difese di mare e di cielo” Le autorità cinesi: più 7% di spesa militare Ma è mistero sul reale investimento ANGELO AQUARO Rep
«Rafforzeremo le difese di mare e di cielo». Bene. «E i controlli alle frontiere». Benissimo. «Aumenteremo la preparazione e la velocità di reazione dell’esercito ». Ottimo: ma volete dirci quanto spenderete per tutto questo? Il grande giallo del budget militare cinese si fa sempre più giallo. Donald Trump punta al 10 per cento in più per gli Usa ma la portavoce del Congresso Nazionale del Popolo, Fu Ying, spiazza tutti, le spese crescono solo del 7%, meno ancora del 7.6% dell’anno scorso, che era già il punto più basso dal 2010, la prima volta in un quarto di secolo che il budget non cresceva a due cifre. Washington-Pechino 10 a 7? Macché. Quando poi tocca al premier Li Keqiang, domenica mattina, snocciolare i parametri della Cina che cresce, torna il mistero. «Rafforzeremo», «aumenteremo », «garantiremo». Ma quanti milioni di yuan si è disposti a investire? Neppure uno straccio di cifra resa pubblica: il budget invisibile, nel linguaggio militare “stealth”, come i J-20 e gli Fc-31 di ultima generazione.
Per carità: la Cina ha ragione quando sostiene, come ha fatto l’altro giorno, che le sue spese militari sono solo una frazione del Pil, ora fra l’altro pronosticato al ribasso, più 6.5%. Il fardello sulla crescita sarebbe dunque dell’1.3% contro il 3.3% degli Usa e il 2% degli altri Paesi Nato. Continuiamo il raffronto? L’aumento del 10% promesso da Trump aggiunge 54 miliardi al budget Usa che ha toccato i 600 miliardi l’anno scorso: nello stesso anno i cinesi hanno invece speso 138 miliardi appena. Di che stiamo parlando?
«La verità è che aumento o diminuzione della spesa americana hanno un effetto limitato su quella cinese: il budget di Pechino, come quello di qualsiasi altro Paese, è determinato dalle proprie esigenze particolari e dalle minacce di volta in volta contingenti » dice a Repubblica Rajeev Ranjan Chaturvedy, l’esperto di armamenti dell’università di Singapore. «Prima ancora di fare ogni raffronto tra Usa e Cina uno dovrebbe chiedersi: quali sono le ambizioni militari di Pechino? E su questo non c’è ancora una risposta univoca» dice sempre a Repubblica Bonnie Glaser, direttrice del China Power Project. Sì, in un rapporto di 104 pagine il Congressional Research Service americano si chiede «se nei prossimi anni la US Navy sarà abbastanza grande e capace da contrastare adeguatamente» il Dragone: ma si parla di contrasto qui sul posto, mica sullo scacchiere globale. E un conto è dunque il diritto dei cinesi di difendersi a casa loro, fedeli al mantra comunista che da sempre, ricorda il Financial Times, invita a “non inseguire nessuna egemonia”, e un altro invece coltivare una capacità di offesa che vada al di là del principio di deterrenza: o no?
Resta il giallo del budget. Ma anche qui: dalle cifre sbandierate a Washington a quelle taciute a Pechino, davvero crediamo di poter leggere tutto nei numeri? «Ci sono investimenti che normalmente non figurano sotto la voce di spesa militare: però servono proprio a scopi strategici e di difesa» continua Chaturvedy. «Per esempio: gli isolotti contesi nel mare della Cina del Sud. Oppure il porto di Gwadar in Pakistan. Fanno entrambi parte di quell’ambizioso progetto conosciuto come nuova via della Seta. E sono investimenti che non vedremo mai tra le spese militari di Pechino: anche se si tratta di strutture che servono, appunto, una funzione doppia». Come dice il premier Li Keqiang? «Rafforzeremo le difese di mare e di cielo». Appunto: ma non pretenderete mica che vi sveliamo come. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

il soffitto di vetro schiaccia la cinaAndrea Goldstein Stampa 8 3 2017
Per realizzare il Chinese dream, Xi Jinping avrà bisogno delle donne, che però per il momento contribuiscono relativamente poco al progetto di fare della Cina una società «moderatamente prospera» attraverso il «ringiovanimento nazionale». A dispetto di portare sulle loro spalle la metà del cielo, non possono realizzare in pieno il loro potenziale, discriminate dal machismo e schiacciate dal soffitto di vetro.
Il piano è inclinato fin dalla nascita. La selezione del sesso dei figli, e pertanto la preferenza per avere un maschio, è una pratica comune, la cui diffusione è aumentata ulteriormente negli ultimi decenni, con la «one-child policy» e la disponibilità di tecnologie a buon mercato per scoprire il sesso del nascituro. Si stima che nel 2015 in Cina il sex ratio alla nascita sia stato di 114 bimbi per 100 bimbe, ben al di sopra del tasso naturale che è di 105 a 100. Le conseguenze sono devastanti, per entrambi i sessi. Le femmine molto semplicemente perché non nascono, sono «missing»: se la Cina avesse comportamenti demografici normali, sarebbero state 721 milioni, e non 655, nel 2010. I maschi si ritrovano privi di spose potenziali, in una società per cui il matrimonio è componente essenziale dell’identità individuale. Quasi sempre migranti, che vivono lontani dalle provincie di origine, questi sfortunati Millenials cinesi (guanggun, cioè rami nudi) sono particolarmente a rischio di alcolismo, criminalità e violenza – tanto da essere tentati dal ratto delle spose, come nel Far West a fine Ottocento. 
Se dal punto di vista dell’istruzione non ci sono grandi differenze (di copertura e di performance) tra sessi, una volta sul mercato del lavoro, la situazione per le femmine si fa di nuovo perigliosa. Il Global Gender Gap Index 2016 è impietoso: la Cina occupa il 99° posto, tra Belize e Sri Lanka, anche perché a parità di impiego una donna guadagna appena due terzi di un uomo. La globalizzazione però sta servendo a ridurre le discriminazioni – che sono molto minori nelle imprese detenute da investitori esteri e/o orientate all’export. 
Quello che le cifre sui salari non possono però mostrare sono altre forme di discriminazione: uno studio del China Labour Bulletin rivela che 70% delle lavoratrici nelle immense fabbriche di elettronica del Guangdong sono vittime di violenze sessuali. E negli ultimi anni i media e le organizzazioni della società civile hanno messo a nudo tanti casi di offerte di lavoro che specificavano che le mansioni potevano essere svolte solo da uomini, per esempio perché richiedevano viaggi frequenti. Senza dimenticare i licenziamenti o le promozioni non ottenute a causa di gravidanze, oppure i veri e propri beauty contest cui le imprese (che normalmente esigono di ricevere le foto, insieme al cv) sottopongono le candidate. 
Tra le élites, almeno, le donne se la passano bene? Apparentemente sì, dato che sono il 24% dei miliardari della famosa Hurun China Rich List, tanto che Chen Lihua, la settantacinquenne regina dell’immobiliare di Pechino, si fregia del titolo di donna più ricca al mondo. Oltretutto molte si sono fatte da sé, tanto che delle 72 «self-made billionaires» al mondo, ben 41 sono cinesi. Ma nella corporate governance sono sotto-rappresentate (8,5% delle posizioni), così come nella gestione delle grandi società (4,5% dei capo-azienda) e in politica: le parlamentari sono meno che in Iraq e in Somalia (e persino in Italia) e il Comitato permanente dell’ufficio politico del Partito Comunista Cinese è da decenni composto di soli uomini.
Anche in Cina si celebra l’8 marzo – molto meno per discutere di pari opportunità, però, che per regalare prodotti di bellezza e utensili per la cucina. Resta da vedere se le donne cinesi apprezzano veramente.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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