venerdì 3 marzo 2017
Il maestro calligrafo Usuda Tosen
L’Impero dei segni “Io che sfido il futuro del mondo dipingendo ancora parole”
MAURIZIO CROSETTI Rep 2 3 2017
TORINO Il maestro calligrafo Usuda Tosen ha mani eleganti, le dite spesse, e con le mani parla disegnando l’aria. Sorride e allarga il gesto, si direbbe un cerchio quello che sta tracciando mentre rincorre un pensiero. Poi si batte il petto due volte, con delicatezza. Con la destra accarezza la sinistra. Resta un attimo a guardarle, muto, come se da quel nodo
potesse arrivare una risposta, la soluzione di un mistero. «A volte scrivo e disegno per ore, non sento più il mio corpo finché mi accorgo che è notte». La nobile arte della calligrafia giapponese è un pianeta ai margini della galassia. Viviamo di tasti e polpastrelli che allargano parole dentro lo schermo. Dov’è mai la carta, dov’è più la penna. E il pennino, il pennello. «Io scrivo solo lettere a mano, così comunico la mia anima alle persone a cui voglio bene. Ma so che per i giovani giapponesi, e naturalmente per voi occidentali, non è più così. La scrittura manuale ha un destino segnato, e questo un poco mi rattrista ».
Settant’anni, tra i più grandi calligrafi contemporanei, il maestro Tosen è a Torino per la splendida mostra al Museo d’Arte Orientale, Shodo, l’incanto del segno, aperta fino al 19 marzo. La sua opera, People, ne è il manifesto: cinque figure umane danzanti, lucenti d’oro e rosso su un fondo nero come una notte senza stelle. «Mi sono ispirato pensando al sostegno reciproco, alla collaborazione tra la gente». Sulle pareti del Mao è un tripudio di colori, i gialli, i rossi, i neri, il rosa pallido, il verde acqua. E quei segni misteriosi che sono già, di per sé, pittura. Un lungo pannello verticale, nero su bianco, con la traduzione in italiano dei versi: “Pensavo di poter abbandonare persino la mia vita per amarti, ora che ho realizzato il mio desiderio vorrei vivere di più per amarti ancora”.
Si parte da una parola, shodo.
Lì dentro c’è quasi tutto. “Sho” è la scrittura, “do” il viaggio, il percorso. «Ogni segno contiene la mia intera vita, la strada che ho percorso per comunicare attraverso un equilibrio interiore. Ogni disegno è una lunga storia, anche se puoi tratteggiarlo in pochi minuti e senza correzioni perché nello shodo non sono ammesse. Si scrive e si disegna per liberarsi della vanità, dell’apparenza, dell’ego. Ogni segno, vedete, è armonia».
Nella stanza bianca, pannelli con i fiori fotografati, il pesco, l’arancio. La voce del calligrafo assomiglia a un sospiro. Usuda Tosen mima le dita su una tastiera. «La scrittura manuale racconta il carattere di una persona, le sue profondità. L’uomo è pieno di sfumature, è materia malleabile e gli ideogrammi possono descriverlo più a fondo rispetto alla grafia occidentale. Allontanarsi dalla scrittura è un destino irrisolvibile».
Oltre la vetrata c’è un piccolo giardino zen, i sassi chiari, l’acqua limpida. E silenzio. Forse è sul silenzio che la parola scrive? «In un certo senso, sì. Bisogna cercare l’anima, non accontentarsi di nulla di meno. Lo shodo è anche tecnica, stile e talento, la differenza del tratto distingue ogni artista, anzi ogni scrivente, ma per tutti vale la stessa idea: la forma è sostanza, la più minuscola macchia d’inchiostro è uno strumento di essenzialità».
Raccontiamo al maestro la storia dell’uomo a cui venne trapiantata una mano e all’inizio un poco la muoveva, sembrava una nuova vita ma poi quell’uomo quasi impazzì, sentiva la mano come un corpo estraneo, ostile. «Lo capisco. La mano è il nostro strumento ed è unico, irripetibile, anche se all’apparenza ognuna sembra identica all’altra. Anche la mia mano, che pure è quella di un artista, a volte non si muove come vorrei, e io mi sforzo per non dipenderne troppo». La guarda come se non gli appartenesse. «Penso ai pittori senza mani che dipingono e scrivono con i piedi o con la bocca, li osservo e mi commuovo e chiedo a me stesso qualcosa in più, qualcosa di meglio».
La nostra scrittura è diventata frettolosa e contorta, ormai ci stanchiamo subito, siamo animali che cambiano la funzione dell’organo, dunque l’organo stesso. Dita che non stringono più inchiostro, anche se nella storia della civiltà non si è mai scritto quanto oggi. «Nelle scuole elementari giapponesi è prevista un’ora di calligrafia a settimana, e non intendo la bella scrittura ma una pratica ben più profonda. Siccome, però, quest’ora di lezione è inserita in quelle di lingua, molti insegnanti stanno abbandonando la calligrafia». Il maestro parla e noi ripensiamo a pagine di aste, di effe maiuscole e cornicette, nei banchi c’era ancora il buco per il calamaio ma il calamaio non più. Secoli, millenni di parole fa. «Non credo abbia senso, soprattutto per voi occidentali, tornare all’insegnamento della calligrafia, questo non fa parte della vostra tradizione come invece da noi. Ma di certo si tratta di una perdita».
Il calligrafo mette una mano in tasca ed estrae un biglietto da visita: parole, lineette e il disegno del suo volto, una buffa caricatura con enormi occhiali. «Tutti i segni parlano di noi, è un ritratto a suo modo filosofico, non soltanto grafico. Corpo e mente procedono insieme, ma solo quando dimentichi di possedere il primo riesci ad esprimere davvero la seconda. È la condizione che noi chiamiamo “mu-shin”, qualcosa che si potrebbe tradurre come “non mente”. Bisogna scordare noi stessi come individui per raggiungere in pieno la nostra individualità: sembra una contraddizione, non lo è».
E non sono previsti pentimenti, nessuna radiografia svelerà mai un primo schizzo abbandonato e coperto sulla tela dal calligrafo per una scelta diversa. Lo facevano Caravaggio e Leonardo, ma i maestri dello shodo non cancellano. Forse non sbagliano? Possibile che non abbiano dubbi? «Oh, ne abbiamo così tanti. Ma il cammino è prima dell’opera. Quando mi accingo a un’esibizione pubblica di shodo, il mio disegno è stato provato già tante volte. La fluidità del gesto, la rotondità del tratto, la maggiore o minore pressione del pennello, la larghezza più o meno ampia di una linea fanno, per così dire, già parte di me». Però non è possibile quantificare, calcolare il tempo necessario: «L’esercizio è continuo, non so neppure io da quante ore sia formato un giorno di lavoro. Mi piace dire che ogni disegno è lungo un’intera vita più qualche minuto». Il maestro domanda all’interprete se può usare il nostro notes e il nostro roller d’inchiostro azzurro. Poi comincia a disegnare una linea come inginocchiata e a braccia conserte. «Questa parola vuol dire madre ». Disegna una specie di alberello con dentro un quadrato, e le radici in alto: «Vuol dire fragola, è l’espressione di una crescita continua». Un segno ancora: «Questa è l’erba che non smette mai di spuntare perché il futuro è solo un accumulo di storie». La mano tratteggia l’ultima parola, significa “ogni” e sta per “ogni giorno“. Il meraviglioso mistero di capirsi, oltre qualunque lingua e storia.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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