mercoledì 1 marzo 2017
Il Meridiano di Vargas Llosa
RAFFAELLA DE SANTIS Rep 28 2 2017più raramente di sentir dire a uno scrittore che la letteratura può cambiare il mondo. «È quello che penso, i romanzi sono la nostra coscienza critica ». Mario Vargas Llosa parla da Madrid, dove vive, con una bella voce squillante nonostante gli ottanta anni.
«Per chi è cresciuto immerso nel silenzio della dittatura le parole sono importanti, sono porte per entrare nella vita», dice.
Sembra di sentire una musica d’altri tempi. La verità è che la propria storia non si dimentica. Il Perù nel quale lo scrittore ha trascorso l’adolescenza era sotto il giogo del regime militare di Manuel Odría.
L’esilio, la dittatura, Sartre e Parigi Mentre esce il primo Meridiano parla il premio Nobel. “Tutto è politica, anche la letteratura Se non diventa propaganda”
Un clima di terrore che Vargas Llosa rievoca nei primi tre romanzi pubblicati negli anni Sessanta, elaboratissimi nell’architettura narrativa e aggrovigliati di storie e personaggi furiosi, cadetti, malviventi, industriali, prostitute, falliti di ogni risma. Ora questi libri, “La città e i cani”, “La Casa Verde” e “Conversazione nella “Catedral””, sono stati raccolti nel primo dei due Meridiani che Mondadori dedica all’opera del premio Nobel, curato da Bruno Arpaia, autore di un suggestivo e approfondito saggio introduttivo (“Romanzi”, volume I,
traduzione di Enrico Cicogna).
Come è riuscito a pubblicare il suo romanzo d’esordio “La città e i cani”?
«In quel tempo vivevo a Parigi, erano i primi anni Sessanta. Un giorno mi telefona l’editore Carlos Barral e mi dice che aveva in programma di venire a Parigi e che avrebbe desiderato incontrami. Aveva letto il mio manoscritto e voleva parlarmene».
Il romanzo era stato rifiutato da Gallimard… «Sì, ma Barral ne era rimasto conquistato fin dalle prime righe. Ci vedemmo all’Hotel Port Royal, guarda caso proprio vicino alla sede dell’editore Gallimard ».
Barral raccontò poi che lei dall’aspetto gli sembrò più un cantante di tango argentino che uno scrittore.
( Ride) «Non saprei, comunque mi disse subito che il libro gli era piaciuto moltissimo e che intendeva pubblicarlo, ma che non era sicuro di riuscire a farcela. In quel periodo, nella Spagna franchista, la censura era molto rigida.
E il suo libro era davvero molto duro.
«Raccontavo la storia dei cadetti di un collegio militare peruviano, il Colegio Militar Leoncio Prado. Un posto in cui dominava il machismo e dove si esaltavano la forza della virilità e un patriottismo autoritario, violento. Ciò che ho narrato riflette in qualche maniera la mia esperienza personale. Da adolescente avevo trascorso lì due anni infernali ».
Il collegio era il ritratto di quello che accadeva nel paese?
«In questo libro come in quelli che seguirono, La Casa Verde e Conversazione nella “ Catedral”, volevo mostrare come una dittatura entra nella vita della gente, come permea la società e condiziona la vita di tutti. Ho raccontato l’emarginazione e le ingiustizie di quel mondo».
Sono romanzi politici, come è stato fatto presente nelle motivazioni del Nobel assegnatole nel 2010. La definizione le dà fastidio?
«Ogni romanzo credo debba riflettere la vita nella sua totalità. E il paese nel quale ero nato e cresciuto era assediato dalla dittatura. In questo senso sono romanzi politici, che è cosa molto diversa dalla letteratura utilizzata come strumento di propaganda».
Era già condizionato dalla lettura di Sartre?
«Mi sono avvicinato al suo pensiero durante l’università a Lima e sempre più quando poi mi sono trasferito a Parigi. L’idea che mi suggestionava era che si può cambiare il mondo scrivendo. Le parole sono azioni, diceva Sartre. Che la letteratura potesse cambiare la vita, incidere sulla realtà, era un’idea stimolante ».
Vi siete conosciuti, vi frequentavate a Parigi?
«Politicamente era distante dalle mie posizioni. Ci siamo comunque incrociati. Nei primi anni Sessanta Parigi era una città piena di scrittori latino-americani. Ho conosciuto Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Alejo Carpentier. Alcuni vi vivevano, altri erano di passaggio. Ricordo che Octavio Paz scrisse un articolo intitolato “Parigi capitale della letteratura sudamericana”».
La Francia rappresentava la libertà?
« Era il paese di Flaubert, lo scrittore che più di ogni altro mi ha influenzato fin dall’adolescenza, il mio grande maestro. Grazie a Flaubert, fedele tutta la vita alla disciplina della scrittura, ho capito che il talento letterario non è necessariamente innato, che può essere il risultato dell’impegno, della perseveranza. Anche oggi, dopo tanti romanzi, scrivere mi richiede un grande sforzo. Lavoro dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Ma è una fatica che mi dà piacere, uno sforzo che faccio volentieri » .
Negli anni Settanta è andato però a vivere a Londra.
«Insegnavo letteratura al King’s College, poi un giorno Carmen Balcells, la grande agente letteraria, mi ha convinto a trasferirmi a Barcellona. Carmen era una persona straordinaria ma molto autoritaria. Per persuadermi a lasciare l’insegnamento universitario e dedicarmi esclusivamente alla scrittura ha proposto di pagarmi. Accettai, ma non ce ne fu bisogno, perché riuscii a farcela grazie ai diritti d’autore».
Ora vive a Madrid. Poco tempo fa è intervenuto pubblicamente contro il populismo, pensa sia il problema di oggi?
«È la malattia del nostro mondo. Populismo significa sacrificare il futuro per un presente molto effimero. Si prenda il caso Trump. Il populismo sta erodendo l’anima della cultura democratica nord americana. La decisione di chiudere le frontiere è assurda, vuol dire rinnegare la propria storia. Gli Stati Uniti sono un paese d’immigrazione, sono gli immigrati ad aver contribuito alla crescita e alla grandezza del paese».
Vede vie d’uscita?
«Qualcosa di positivo è successo. Trump ha risvegliato la coscienza degli intellettuali, che si era assopita. Si sono mobilitati giornalisti, artisti, scrittori. Questo dimostra che la società americana è ancora reattiva. Non è poco». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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