giovedì 2 marzo 2017

Sinistra, aperitivo e motivazione etica. Il "frontman"









La sfida di Pisapia nel giorno del Lingotto per ricucire la sinistra 


Gli ex Sel guardano a lui come federatore 
Andrea Carugati Stampa
Sabato 11 marzo: Renzi al Lingotto di Torino per lanciare la sua campagna congressuale, Giuliano Pisapia al teatro Brancaccio per il battesimo romano del suo Campo progressista. «Una coincidenza temporale che può fare bene», spiegano fonti vicine a Pisapia. «Sarà una competizione positiva sulle idee, un centrosinistra con più voci ma nello stesso coro». Con l’ex premier il grosso dei big del Pd, con l’ex sindaco di Milano associazioni e movimenti, ma anche la presenza molto interessata dei «Democratici e progressisti», il nuovo movimento formato dai fuoriusciti dal Pd e da Sel. Già, perché Pisapia per molti di loro non è solo un interlocutore naturale. Ma anche un possibile leader di un nuovo centrosinistra. 
L’ex sindaco, però, in questa fase sta molto attento a restare al di fuori dalle macerie della scissione dem e dai veleni del congresso. «E’ interessato a mettere in campo nuove idee per un centrosinistra che giocoforza dovrà dialogare con il Pd, qualunque sia il segretario», spiegano le fonti vicine all’avvocato milanese. Uno dei nodi è proprio questo: mentre a sinistra volano gli stracci, Pisapia si propone come ricucitore, non certo come «anti-Renzi». Sul suo palco non parleranno politici, ma solo esponenti della società civile, soggetti civici provenienti da tutta Italia. Per ora nel suo orizzonte non c’è una lista da presentare alle politiche, meno che mai una fusione con i bersaniani definita «del tutto prematura». E tuttavia la scissione è un fatto politico nuovo, che non era previsto quando l’ex sindaco si è lanciato sulla ribalta nazionale. 
Chi si muove a sinistra del Pd guarda a lui con molta attesa. «Noi saremo al Brancaccio», spiega Francesco Laforgia, neo capogruppo di Dp alla Camera, milanese, che frequenta da anni Pisapia. «Almeno per ora non è sul tavolo una fusione dei nostri sentieri, ognuno farà la sua semina, ma dobbiamo provare a contaminarci, costruire una casa grande, non due casette». Ancora più espliciti gli ex Sel confluiti in Dp: «Giuliano potrebbe essere il frontman di una nuova forza di sinistra», spiega Arturo Scotto. I bersaniani Speranza e Zoggia confermano l’attenzione. Ma con meno entusiasmo.
Dirimente sarà la legge elettorale. In caso di premio alla coalizione, forse, sarà più semplice l’amalgama tra il Campo progressista e i bersaniani in un’unica lista. Alleata dal Pd. Ma resta lo scoglio Renzi. Se il rottamatore vincerà il congresso, per gli scissionisti sarà molto difficile fare una coalizione con lui. «Non saremmo credibili agli occhi degli elettori che vogliamo recuperare», spiega un deputato. Dunque si torna daccapo. E’ Matteo lo scoglio che divide Pisapia dai bersaniani. Di fronte all’ex sindaco una difficile opera di ricostruzione. Come a Milano, quando è riuscito a tenere unita la coalizione sul candidato renziano Beppe Sala. A livello nazionale sarà ancora più difficile.
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Renzi teme che le primarie diventino un referendum su di lui 

Emiliano chiama gli elettori extra-Pd. Realacci: vigileremo 

Fabio Martini Stampa
Mancano due mesi esatti al giorno del giudizio, il mondo politico-giornalistico che vive nel Palazzo dà per scontata la vittoria di Matteo Renzi alle Primarie del 30 aprile, ma lui ha già annusato il rischio, un rischio inconfessabile: che negli ultimi 10 giorni l’appuntamento per l’elezione del segretario del Pd possa cambiare natura, trasformarsi in uno sfogatoio, un referendum su di lui. Un bis del 4 dicembre. Con l’arrivo alle urne di elettori non organizzati, interessati soltanto alla sua sconfitta. Due giorni fa il più esuberante degli sfidanti, Michele Emiliano, anche senza parlare esplicitamente di referendum su Renzi, ha fatto capire che la sostanza è quella: «Tutti possono votare, anche chi è del Pd e non è tesserato. Se qualcuno vuole togliersi dai piedi Renzi può votare Emiliano».
Certo, quella di ieri è stata la giornata nella quale la scissione di Bersani e D’Alema ha segnato il passo: sono nati i nuovi gruppi parlamentari di Democratici progressisti e sono stati resi noti i nomi di deputati e senatori che hanno deciso di uscire dal Pd: i deputati sono 18, una piccola entità se si pensa che a inizio legislatura gli onorevoli di area bersaniana erano tra i 130 e i 140, mentre i senatori usciti ieri sono stati 14, contro i circa 60 bersaniani del 2013.
La bagarre congressuale è ancora lontana ma le strategie si sono già delineate. Se il programma politico di Emiliano sembra riassumersi in quella sua espressione «togliersi dai piedi Renzi», il pericolo che le Primarie si trasformino in un nuovo plebiscito è ben presente ai seguaci del segretario. Dice Ermete Realacci, renziano della primissima ora: «Andiamo verso Primarie rivolte agli elettori del Pd e non credo ci siano particolari patemi, ma la vera assicurazione sulla vita per Renzi è rendere più esplicito un cambio di passo. Affrontare questa battaglia rivendicando i buoni risultati del passato, non basta. Renzi è ancora l’unico leader in campo ma serve un nuovo inizio». Emiliano e non solo lui spera che si avveri l’antico adagio «non c’è due, senza tre», con i precedenti del referendum sulle trivellazioni dell’aprile 2016, quando 15 milioni di italiani andarono a votare «contro» le indicazioni del governo. E poi il 4 dicembre sul referendum costituzionale, ribadirono il concetto con più forza.
Molto contorta appare invece la previsione di Massimo D’Alema, secondo il quale elettori «organizzati» di Forza Italia e dei Cinque Stelle, voteranno Renzi per assicurarsi in futuro un avversario «facile». Il renziano Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, lo esclude: «Le Primarie per loro natura sono un referendum, ma resteranno Primarie del Pd, perché è sempre stato marginale il fenomeno di elettori che si sono organizzati per interferire. E d’altra parte non ci sono segnali di un voto “contro”». Ma le ragioni per le quali Matteo Renzi può stare (relativamente) tranquillo le spiega Pippo Civati, l’antesignano della invivibilità nel Pd poi imitato da Bersani e D’Alema: «Quella di intercettare gli elettori anti-Renzi è la principale strategia di Emiliano che può avere qualche successo, ma non travolgente per due motivi: Il primo: il suo «esco-non esco» è stato un po’ prolungato e può pesare. La seconda è che a una certa parte di elettorato di sinistra oramai del Pd non interessa più niente, sono demotivati anche nella antipatia. Semmai Emiliano può recuperare voti in quell’elettorato non politicizzato che oscilla tra Pd e Cinque Stelle, quelli che avevano Renzi perché era rottamatore e ora potrebbero votare per rottamare lui».
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I bersaniani minano l’asse tra Matteo e l’ex sindaco 
Marcello Sorgi  Stampa
Le nomine di Francesco Laforgia, deputato molto vicino a Pisapia, a capogruppo alla Camera, e di Cecilia Guerra, già sottosegretaria al Lavoro nei governi Monti e Letta, al Senato, segnalano nuovi movimenti a sinistra del Pd. Presentandosi, i due capigruppo hanno ribadito che i parlamentari scissionisti (36 deputati e 14 senatori) non faranno mancare il loro appoggio al governo, ma lo incalzeranno su questioni come lavoro, sviluppo e scuola, a cominciare dalla richiesta, fatta subito, di fissare la data del referendum sui voucher. Sfumata ormai la chiamata alle urne per giugno, il voto referendario dovrà essere celebrato, a meno che il governo non trovi per tempo una soluzione di legge che consenta di evitarlo. E nel caso, non improbabile, che l’alternativa non si trovi, il centrosinistra resterebbe diviso, con il rischio, tra l’altro, che una parte della sinistra rimasta all’interno del Pd si schieri per l’abrogazione dell’attuale disciplina del lavoro precario.
È evidente il tentativo dei Democratici-progressisti di rendere più difficile l’asse, in costruzione, tra Pisapia e Renzi: quest’ultimo rimane la vera discriminante, e l’ex-capogruppo Speranza, uno dei leader della neonata formazione, spiega che se il segretario dovesse essere riconfermato al congresso, il numero dei parlamentari in uscita dai gruppi Pd potrebbe allargarsi. Oltre a Pisapia, l’altro punto di riferimento per i fuorusciti bersaniani resta Orlando: l’obiettivo è quello di favorire la performance del ministro della Giustizia alle primarie, per far sì che la probabile, al momento, vittoria di Renzi, non sia plebiscitaria come sembra emergere dai primi sondaggi, e possa lasciare aperta, in caso di sconfitta alle amministrative e poi alle politiche, la possibilità di un nuovo capovolgimento ai vertici del partito.
Le prime giornate della campagna precongressuale segnalano del resto aggiustamenti di posizione destinati a pesare nella conta finale: il richiamo esercitato dalla candidatura di Orlando sui post-comunisti ha determinato la separazione, a Roma, dei due leader della componente Campo democratico, Bettini e Gozi, e l’annuncio del voto al favore del ministro di Giustizia da parte della ministra per i Rapporti con il Parlamento Finocchiaro, decisiva, in Senato, nell’approvazione della riforma Boschi poi bocciata dal voto del 4 dicembre. In campo renziano regge l’accordo tra il ministro della Cultura Franceschini, il presidente del partito Orfini e il ministro dell’Agricoltura Martina: ma prima dell’assemblea per la ricandidatura di Renzi al Lingotto il prossimo 10 marzo, qualche altro scricchiolio nella maggioranza del segretario potrebbe farsi sentire.
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“Soltanto io posso tenere unito il Pd Emiliano populista” 

ALESSANDRA LONGO Rep
L’unico «in grado di rafforzare l’attenzione al sociale del Pd». L’unico in grado di unire laddove si è diviso e lacerato. Andrea Orlando per una volta abbandona il low profile e promuove la sua candidatura alle primarie. Emiliano? «Ha gli stessi toni dei nostri avversari politici». Renzi? «Non ha riflettuto a fondo sulla sconfitta del 4 dicembre che ci regala una radiografia del Paese dalla quale dobbiamo per forza ripartire».
Ministro, mi scusi, perché mai un simpatizzante del Pd dovrebbe votare lei alle primarie?
«Perché penso di essere, fra i tre candidati, quello più in grado di unire le diverse culture e anime del Pd nello spirito originario del progetto. E penso anche di essere quello in grado di rafforzare l’attenzione al sociale del nostro partito, elemento essenziale in una società segnata da profonde diseguaglianze con un rischio reale della tenuta democratica. Sono entrambe condizioni per vincere».
Perdoni la brutalità. Lo spirito originario del Pd è morto nel giorno della scissione...
«Io mi sono battuto perché questo dolorosissimo strappo non si consumasse. Sbaglia chi se ne va. La sinistra riformista non può far vivere le sue ragioni fuori da un grande soggetto pluralista e popolare».
Ormai è andata, assisteremo ad “una lotta nel fango”, come dice lei.
«Per questo insistevo sull’esigenza di un percorso programmatico prima del Congresso che consentisse di parlare agli italiani, affrontare i loro problemi. Ha prevalso un’altra linea, quella dell’ennesima conta. Di qui nasce la mia decisione di far vivere una candidatura non divisiva, in grado di parlare delle cose da fare: lotta alla diseguaglianza; costruzione di un’altra Europa; rifondazione del partito. Non utilizzerò né toni né argomenti cari ai populisti. Cercherò di legittimarmi per le proposte che farò senza aggredire i miei competitori».
Qual è il tratto distintivo della candidatura Orlando?
«Voglio inaugurare un metodo che seguirò per tutta la campagna: il confronto e l’ascolto. Su reddito e cittadinanza sto mettendo a punto una proposta che guarda con attenzione alla piattaforma dell’alleanza contro la povertà. Naturalmente dirò anche come ci si può arrivare, con quali coperture e quali passaggi. Prima di licenziarla, però, devo condividerla. Niente decisioni dall’alto».
La botta del 4 dicembre serve da lezione.
«Assolutamente sì, dalla sconfitta emerge la radiografia del Paese. Renzi non ha riflettuto abbastanza. Il No stravince nelle periferie, nelle aree marginali e interne, nelle nuove generazioni, in tutte quelle parti della società penalizzate dalla globalizzazione. Da qui si riparte se si vuole ricostruire».
Il governatore Rossi dice: “Orlando ha fatto parte del governo. Raramente ho sentito una voce critica...”.
«Anche Rossi ha condiviso alcune scelte poi contestate. Non tutti gli scissionisti si sono dati alla guerriglia per tutti e tre questi anni. In ogni caso, non mi candido per rinnegare tutto quello che è stato fatto ma per correggere quello che non funziona e fare le cose che non siamo riusciti a fare. Nel governo non ho mai fatto mancare il mio punto di vista. Sono frutto di questo impegno il ddl anticorruzione, la legge sul caporalato, quella sugli ecoreati. E nonostante il mio ruolo al governo non ho mai nascosto le mie critiche sulle condizioni del partito ».
Emiliano, la vicenda Consip, l’Sms di Luca Lotti, esibito come un trofeo... Come commenta?
«Come ministro della giustizia mi astengo da ogni commento sull’inchiesta. Come candidato mi sento solo di dire: evitiamo di farci del male. Se un sms ha rilevanza penale si va in procura, non ai giornali».
Sempre Emiliano: dice che vuol togliere lo stipendio ai politici.
«Con ciò si conferma candidato dai forti accenti populisti. Mi preoccupa il fatto che abbia chiamato ai gazebo chiunque sia contro Renzi. Non mi pare un progetto per il futuro. Quanto alla proposta cubana, se ho capito bene, farebbe sì che l’eventuale elezione di Marchionne produrrebbe dissesto nel bilancio della Camera e determinerebbe la sostanziale ineleggibilità di un operaio o di un disoccupato. Non proprio un passo avanti per portare la politica tra il popolo».
Sono prevedibili future alleanze con gli scissionisti?
«Non ho mai pensato ad un Pd autosufficiente ed è comunque necessario costruire un sistema di alleanze. Il fatto è che le scissioni hanno sempre prodotto quello che Gramsci chiamava “l’effetto fratelli coltelli” cioè il tuo principale avversario diventa quello che ti sta di fianco piuttosto che quello che ti sta di fronte».
Lei ha dichiarato: in una società diseguale non si può rappresentare tutti, dobbiamo dire, come Pd, da che parte stare. Da che parte state?
«Noi siamo il centrosinistra e dobbiamo tenere insieme gli attori della modernizzazione del Paese, coloro che hanno scommesso sull’innovazione, con i segmenti della società più segnati dalla globalizzazione. Se si rompe questo rapporto non c’è più la base popolare per un’azione riformista e questo spalanca la strada ai populisti». ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La Finocchiaro sceglie Orlando “L’età dell’oro” non c’è più
Il corpo stanco del Pd e un partito personale a rischio con le primarie 

Rep
È ASSAI probabile che Matteo Renzi vinca le primarie del suo partito, alla fine di aprile. Una sconfitta sarebbe talmente clamorosa da non apparire plausibile. Tuttavia pochi credono che l’affermazione del segretario uscente e rientrante coinciderà con il ritorno alla mitica “età dell’oro” del 2014, quando il renzismo si impose nel centrosinistra con uno stile nuovo al limite della spavalderia e si guadagnò i consensi — quasi il 41 per cento delle elezioni europee — su cui poi vivrà a lungo di rendita.
Tutto è cambiato da allora. Renzi ha smesso di essere invincibile e dello stesso Partito democratico resta poco. Si avverte nell’aria che il nuovo inizio è difficile e che non basteranno al leader i voti del 30 aprile per rimettersi a cavallo. Per certi aspetti, anzi, la situazione va peggiorando dopo la scissione. L’abbandono dei dalemiani e dei bersaniani non ha spostato numeri decisivi, ma i sostenitori del segretario hanno poco di che gioire. È come se la spaccatura avesse aperto delle crepe nel corpo stanco del Pd, crepe nelle quali scorrono veleni di vario tipo. Il primo errore lo commette proprio Renzi, quando non si accorge che un battibecco continuo con D’Alema danneggia più lui del suo avversario. Oltretutto le accuse (del tipo “è D’Alema il regista dell’operazione”) sono tipiche di un dibattito fra iniziati e dicono niente a un’opinione pubblica attanagliata da ben altri problemi.
Il fatto è che la frattura non si esaurisce con la fuoriuscita di un certo numero di deputati e senatori e la nascita del nuovo gruppo. Chi resta non necessariamente si considera un cavaliere della tavola rotonda al servizio di re Artù/Renzi. Qualcuno, anzi, cerca di stabilire un ponte verso gli scissionisti pensando a un futuro prossimo in cui si dovrà ricreare la sintonia con loro (il termine di moda è “un campo comune”). Ieri hanno suscitato interesse le parole di Anna Finocchiaro a “RepubblicaTv”. Il ministro delle Riforme, peraltro sempre leale a Renzi nella lunga battaglia sulle modifiche costituzionali, ha annunciato la volontà di sostenere alle primarie Orlando, suo collega della Giustizia. È il segnale che in una parte del Pd cresce la preoccupazione. Orlando è visto come un pacificatore, un uomo capace di riannodare i fili che Renzi ha spezzato. In un certo senso, si capisce. L’ex premier non ha cambiato i suoi obiettivi: il Pd che lui ha in mente può fare a meno dei “pesi morti” e infatti non pensa in alcun modo a recuperare chi se ne è andato.
Eppure il sogno del “partito personale” è sempre più lontano. Se una figura di rilievo della sinistra come Anna Finocchiaro sceglie l’antagonista del segretario; e se un certo numero di deputati e senatori accetta di firmare a favore dello stesso Orlando, vorrà dire qualcosa. Significa che si temono altri strappi e che il capo non è più la guida incontrastata per chi è rimasto. In altre parole, fra governo e partito è in atto un tentativo di condizionare Renzi, di trasformarlo da monarca assoluto a presidente costituzionale. Un’evoluzione in fondo lineare con il ritorno al modello proporzionale. Accade così che l’esecutivo Gentiloni — una volta accertato che il Parlamento non si scioglie — sia sempre meno “fotocopia” e sempre più il palcoscenico dove si muovono personaggi consapevoli che una nuova stagione forse è alle porte.
Allo stesso modo nel Pd nessuna delle figure notabilari è più disposta ad accettare senza discutere la tattica renziana, coincidente con una perenne campagna elettorale volta a rilanciare il partito mediatico che si risolve nell’esposizione permanente del segretario/leader. S’intende, Renzi ha ancora gli strumenti per contrastare e magari battere chi lo ostacola. Le primarie, nelle sue intenzioni, sono aperte ai cittadini esterni al perimetro del Pd. E lasciando da parte Emiliano, quanto è forte Orlando fra la gente, fra coloro che il 30 aprile andranno alle urne? La risposta è cruciale. I renziani ammettono che il ministro della Giustizia ha i suoi sostenitori nel residuo “establishment” del Pd, nel governo, nei gruppi parlamentari. E si augurano con qualche fondamento che nel voto popolare egli sia molto più debole. Forse sarà così, ma non tutto è scontato.
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