lunedì 12 giugno 2017
L'autobiografia di Jean d’Ormesson
Jean d’Ormesson: Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella, traduzione di Giovanni Bogliolo, Neri Pozza, pp. 397, euro 18,00
Risvolto
Si può ricostruire la propria vita come se si trattasse di un processo il cui giudice altri non è che il proprio Super-Io?
In
un serrato, folle e avvincente dialogo con se stesso Jean d’Ormesson
ripercorre le tappe salienti della sua esistenza, iniziata tra la fine
della Prima guerra mondiale e la grande crisi.
Incalzato da un
Super-Io severo, benevolo e a tratti spietatamente ironico, d’Ormesson
parla dei primi viaggi al seguito del padre diplomatico: inizialmente in
Baviera, dove impara a parlare tedesco prima di parlare francese, poi
in Romania e in Brasile, fino al rientro in Francia nel castello di
famiglia. Casato appartenente alla casta irrequieta e orgogliosa della
nobiltà di toga, i d’Ormesson danno poca importanza al denaro, ma questo
non impedisce al piccolo Jean di crescere circondato da autisti,
cuochi, maggiordomi e cameriere, perché vi sono pur sempre gli obblighi
imposti dal rango sociale.
Il lignaggio impone un codice di
comportamento al quale è fuori questione non sottomettersi: si indossa
lo smoking, la marsina, il frac e il cappello a cilindro; sono
rigorosamente bandite espressioni come «caspita!», «piacere di
rivederla», «buon appetito!» o «buon proseguimento », mentre «dopo cena»
è preferibile a «le ventidue», riservata ai ferrovieri.
Tra
governanti inflessibili che lo sculacciano con la spazzola per capelli,
autisti che lo scorrazzano per boschi e sagre di paese e zii che gli
trasmettono l’amore per la letteratura, Jean cresce come un grande
sognatore e un instancabile lettore che legge tutto quello che gli
capita tra le mani: i manifesti sui muri, le ricette dei medici, i
volantini per strada, da bambino, e Oscar Wilde e Bergson da ragazzo.
Pur
riconoscendo di essere nato con una camicia di finissima seta,
circondato di privilegi, d’Ormesson è però, soprattutto, figlio del suo
tempo, un tempo dominato dal nazionalsocialismo di Hitler e da una
guerra che, con i suoi campi di concentramento, i bombardamenti a
tappeto, il nucleare, le bugie e i delitti diventa pane quotidiano di
una realtà a cui è impossibile sfuggire.
Con una prosa ironica,
ammiccante e fantasiosa, Jean d’Ormesson si svela al lettore attraverso
un resoconto autentico e appassionante della sua vita. Un resoconto in
cui i ricordi, i rimpianti e i sogni mai realizzati di un grande
scrittore si fondono insieme senza nostalgia né patetismi, per offrire
il ritratto a tutto tondo di un secolo e di un’intera nazione.
Jean D’Ormesson, gollista letterato erede di una nobile dinastia di regicidi
Ilaria Vitali Alias Domenica 11.6.2017, 6:00
Un imputato (l’io), un magistrato (il super-io), un processo: questi gli elementi che Jean d’Ormesson sceglie per raccontare la sua esistenza, e non solo, in Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella (raffinata traduzione di Giovanni Bogliolo, Neri Pozza, pp. 397, euro 18,00). Leggendo queste memorie, l’impressione è di squarciare il velo della storia francese, a partire dalle origini del casato orgoglioso e irrequieto degli Ormesson, che ha intrecciato il suo destino con monarchi, poi con presidenti francesi, poi con figure che vanno dalla duchessa di Montpensier, la Grande Mademoiselle, fino a una schiera di funzionari di governo di vario ordine e grado. Non ultimo Louis-Michel Le Pelletier de Saint-Fargeau, assassinato da una guardia regia per aver votato la morte di Luigi XVI.
Sebbene vissuta all’ombra della Seconda guerra mondiale, l’infanzia dell’autore è un «sogno ambulante» che lo proietta da un lato all’altro del mondo, al seguito del padre diplomatico. Da Parigi a Bucarest, a bordo dell’Orient Express, poi a Rio de Janeiro, sul transatlantico Normandie, per finire di nuovo in Francia, nel castello di famiglia di Saint-Fargeau, oggi monumento nazionale. Un’eredità plurisecolare che andrà perduta a causa delle difficoltà economiche e che offrirà a d’Ormesson il materiale per scrivere un romanzo sullo stile dei Buddenbrook di Thomas Mann, A dio piacendo (1974): il castello di carta servirà per sostituire il castello di pietra perduto.
Ai successi letterari si aggiunsero, nel tempo, gli incarichi più diversi: gabinetti ministeriali, la nomina all’Unesco, dove restò per quarant’anni, l’elezione all’Académie française, di cui fu il membro più giovane e di cui oggi è il decano. Una vita ricca di incontri, di viaggi, di fascinazioni (l’indice dei nomi e dei luoghi che chiude il volume dà il capogiro), con una predilezione per il Mediterraneo e, in particolare, per l’Italia.
A quanti lo vorrebbero inquadrare, d’Ormesson risponde sparigliando le carte: gollista, direttore del quotidiano Le Figaro negli anni Settanta, ha organizzato convegni su Marx, riuscì a far entrare all’Académie française la prima scrittrice, Marguerite Yourcenar, recitò nel film La cuoca del presidente (2012) nel ruolo di François Mitterrand, che gli ha insegnato che la politica non è contrapporre il bianco e il nero, ma lavorare sul grigio.
Erede di un casato di nobili e regicidi, d’Ormesson si definisce prima di tutto un tessuto di contraddizioni. E una delle cose che più colpiscono in queste memorie è la capacità dell’autore di conciliare l’inconciliabile. Tra i tumulti del Novecento, sfilano uno dopo l’altro la contessa di Greffulhe, «occhi neri nel tulle», il generale de Gaulle, «ribelle sconfitto tramutato di colpo in vincitore», Mitterrand e Lauren Bacall a cena sulla terrazza di un caffè veneziano, palafrenieri e futuri papi, giovani rampanti e aristocratici in declino, in un puzzle di incongruenze i cui tasselli alla fine misteriosamente combaciano.
In questo processo autoimposto, l’accademico confessa di essere il «prototipo del privilegiato». Eppure non sembra darvi troppo peso. Con la pacata ironia che lo caratterizza, d’Ormesson si rivela maestro in un’arte da lui stesso inventata: l’indifferenza appassionata. Non ci sono eccessi o esaltazioni, in queste pagine, se non per quegli «avventurieri della mente» che sono gli scrittori. In queste memorie, oltre alla storia e alla politica, c’è soprattutto la letteratura, a partire dal titolo, tratto da un verso di Louis Aragon. Da lettore prima ancora che da scrittore, d’Ormesson inframmezza la sua arringa con versi di Racine, La Fontaine, Cocteau e molti altri (una nota di merito va a Bogliolo per l’attento lavoro di traduzione, anche in questi delicati passaggi).
Non mancano i saporosi aneddoti che toccano i personaggi più diversi del mondo della politica, della cultura, del cinema. Come quello che vede l’autore impegnato a sussurrare all’orecchio di Greta Garbo, durante una cena, un passaggio della canzone dell’Angelo Azzurro, nell’intento di far colpo sulla Divina. Peccato che la protagonista del famoso film fosse Marlene Dietrich. O ancora l’incontro con Paul Valéry, che si mette le mani nei capelli quando scopre che d’Ormesson vuole dedicarsi alla filosofia e gli consiglia, invece, di darsi alla matematica.
Non mancano neanche i racconti degli intrighi di palazzo, del balletto dei ministeri, le stoccate su quell’istituzione in declino che è l’Académie, ormai divenuta «società di notabili pronta ad accogliere medici, avvocati, duchi e pari, statisti, marescialli e cardinali e, di tanto in tanto, degli scrittori».
Quale sarà il verdetto della corte? Quel che è certo è che l’autobiografia di quest’uomo quasi centenario, uno dei pochi entrati a far parte ancora in vita nella prestigiosa collana Pléiade delle edizioni Gallimard, sorprende per la carica vitale e per il piglio romanzesco. Del resto l’autore ci avvisa: la sua memoria non è buona quanto molti pensano e non di rado ha avuto la sensazione di inventare ciò che sosteneva di ricordare. «Più d’una volta i miei romanzi sono stati accusati di essere delle specie di memorie. Se scrivessi le mie memorie sarebbero un romanzo». Questo.
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