lunedì 11 settembre 2017

Il "Discorso dell'ombra e dello stemma" di Manganelli

Manganelli e l'autopsia sulla letteratura mai nata
Una storia d'amore (e odio) con i propri incubi Da cui si può uscire soltanto scegliendo il silenzio


Manganelli, un abisso per la MenzognaScrittori del Novecento. Ilarità come forma della tragedia: nel 1982 il «Discorso dell’ombra e dello stemma» segnò il ritorno di Giorgio Manganelli agli esordi nichilistici. Adelphi lo ripubblica 
Raffaele Manica Alias Domenica 24.9.2017, 0:25 
Il Discorso dell’ombra e dello stemma o del lettore e dello scrittore considerati come dementi apparve per la prima (e unica) volta nel 1982. Fu allora che un giovanotto con ambizioni critiche (il vostro recensore di oggi), incontrando l’Autore per caso osò avvicinarsi e dichiarare: «Professore, ho scritto un saggio sul suo ultimo libro». Burbero, il Professore chiese: «Come si è permesso?». C’era tutto Giorgio Manganelli nel replicare domandando, e in quel modo: da non lasciare intendere se davvero celiasse. Il Discorso ritorna finalmente dopo trentacinque anni con un’accurata revisione testuale dovuta a Salvatore Silvano Nigro, che lo accompagna anche con una importante postfazione (Adelphi “Biblioteca”, pp. 192, € 19,00). Si può dire che il Discorso segni dentro l’opera di Manganelli un punto fondamentale: l’infittirsi del suo viaggio nel buio attraverso una lunga diceria sfrenata, con la ripresa dei modi del libro di esordio – ma parcellizzati e frantumati – dopo infinite variazioni, articolate sempre come un ballo verbale sull’orlo dell’abisso: un anti-mondo che è pur il regno di qualche assoluto. La teorizzazione, notoriamente, era arrivata subito, nel 1967, con La letteratura come menzogna; e da lì in poi si era trattato di falsi commenti, false preghiere, falsi lunari, riscritture pinocchiesche e tanto altro, fino al libro-paradosso del 1979, paradossale fin dal titolo di Centuria. Cento piccoli romanzi fiume: dove il fiume era dato da trame/riassunti di romanzi mai scritti, ma vorticanti improvvisi nel capo di Manganelli medesimo, che lì diceva una volta per tutte quel che pensava si potesse combinare con una concatenazione arbitraria di fatti, prendendo così congedo, salutandola da par suo, dall’illusione della trama narrativa, considerata a un dipresso come un guscio vuoto. Il Discorso dell’ombra e dello stemma segna dunque un ritorno alle origini, dopo aver sperimentato tanti modi di scrittura, diversi negli scopi (se così si può dire per uno scrittore tanto privo di scopo, se non di far soldi, come è nel sottotitolo di Encomio del tiranno) ma simili nell’intensità, fino alla sovrapposizione memoriale nell’eventuale lettore. E di nuovo qui, nel Discorso, come nel libro di esordio, Hilarotragoedia (1964), l’ilarità si presenta e funziona come forma espressiva della tragedia.
Le pagine del Discorso si formano come uscendo parole da una nebulosa di pensieri, percorsa in lucida apnea: sono la ripresa di fiato per dire urgentemente e poi tornare a immergersi. Una sola idea o concetto le organizza, la Letteratura: termine vago eppure simulacro di qualche divinità, così in voga – ad alta intensità – tra anni sessanta e fino agli anni ottanta nel teorizzare generale, ma unico riferimento, sempre, per Manganelli, in spregio della cosiddetta realtà, tanto ingannatrice e la cui essenza è sempre discutibile. La Parola no, non si discute: non si dubita mai dell’ancella della Letteratura che tutto consente e tutto invera anche nell’universo bugiardo. Questa Parola è una forma nichilistica del Logos, e dunque induce a un discorso teologico, che qualcosa deve al linguaggio dei mistici e dei visionari. Un discorso sulla Presenza della Mancanza, che sacrifica agli dèi ulteriori sull’altare che non si sa.
La revisione operata da Nigro sulle copie dattiloscritte del Discorso mostra che in pochi casi come per Manganelli l’accortezza filologica è anche un intervento critico, dal momento che la pagina prende senso (o non senso) anche da questioni minime, e comunque disgregando il significato: il refuso a stampa di una doppia o di un trattino provoca microsismi: toccare, intervenire, rischia di essere operazione che procura sommovimenti massimi a partire da un dettaglio infinitesimale. In un altrove dove la luce vera è scoperta dall’ombra, la verità è disvelata dalla menzogna, e perciò continua sempre a nascondersi, a disperdersi. La Letteratura è un lungo apprendimento della menzogna, una serie di Cerimonie con l’ombra, come ha intitolato Nigro la sua postfazione (un altro capitolo di un libro capitale su Manganelli che va componendosi man mano che se ne stampano o ristampano le opere): auspicabilmente un Niente da dire e che così va detto.
Senonché, ogni fascinazione secentesca ammessa e ogni aggettivazione considerata alla ricezione del libro («dolente» e «lacerato» si rincorsero nelle recensioni: e parvero segnare una novità in Manganelli), anche preso dalle soglie il Discorso mostra la sua irrequietezza e insieme il suo tratto ilare e ludico. Per il titolo, scrive Nigro, «Manganelli aveva traslato il concetto di “ombra” (la parte oscura e inconscia della personalità) dalla psicologia analitica. E si era indotto a intitolare il libro (…) quando, in sintonia con le figurazioni oniriche e le esemplificazioni letterarie che della “coscienza dell’ombra” avevano addotto Jung e Bernhard, trovò un compatibile riscontro figurativo alla duplicità della parola che si presenta al contempo come “tenebra” e “illuminazione” (“luce che ombra, e… ombra che luce”): unità e totalità, con un lato “rovente” (…) in relazione con il mondo infero (…), l’altro retoricamente “diaccio”; Selbst, nella letteratura junghiana, o unità dialettica nella quale i poli opposti si integrano senza annullarsi»: dunque, dice Manganelli, «la parola ombra e la parola stemma sono la medesima parola, non il reciproco doppio, né un sistema binario, ma assolutamente la stessa parola». Questa alterità, questo doppio nella medesimezza o questa medesimezza a due facce sono dunque da considerarsi la retorica che organizza il Discorso, la cui stesura viaggia negli interstizî del vuoto.
La copertina della prima edizione è la riproduzione dei due battenti ai lati del ritratto di Oswolt Krel di Dürer: tre figure di ominidi dall’aspetto infernale: due hanno alla base stemmi, la terza è nello stemma stesso: «Manganelli si convinse di aver trovato una possibile trascrizione illustrativa del Selbst trasposto in retorica» (Nigro): un’equivalenza figurativa, per rovesciare la famosa formula longhiana delle equivalenze verbali. Il motto in esergo è: «med fhefhekid», che preso di passaggio parrebbe un’invenzione fonetica, un accoglimento su cui poggiare gli occhi e trascorrere come fosse un calco landolfiano da una lingua immaginaria. Invece è un’indicazione di pericolo al lettore: «mi fece», nel «finto veterolatino della Fibula Prenestina (ritenuta un falso, negli anni in cui Manganelli scriveva; ora la valutazione è diversa)»: ciò che fece la Letteratura, dunque, è questo falso depistante, perché pur dice che qualcosa si fa.
Questo libro propriamente mostruoso, abnorme, tragico, esilarante è ripartito in trentuno capitoli, distinti numericamente ogni volta con caratteri diversi, come a rinviare, tramite diverse grafie, a scritture facenti parte di uno stesso sistema ma distinte, e l’intero libro è «trascritto da un fool», figura pure lui della duplicità, come sottolineava il risvolto della prima edizione. Uno dei tratti che distinguono l’un capitolo dall’altro è nella variazione – retta da un continuum tonale – di ciò che si deve pur definire, nonostante tutto, l’argomentare. E ogni capitolo ricomincia da capo, magari con un pretesto che solo a uno stolto potrà sembrare trascurabile: cap. duodetriginta: «Tuttavia. Quale deliziosa parola! Ecco: dire tuttavia, e non andare oltre»; cap. vicesimonono: «Sarebbe stato più che logico, moralmente sano, finire il precedente capitolo con un ‘infatti’. Infatti, punto. Basta così». Inesorabile analisi logica, a partire dall’incipit preistorico: «Esisteva un tempo in cui non c’era la letteratura. Oh, non fu un tempo lungo. Diciamo tra i diecimila e tremilioni di anni». In questo tempo «c’era da lavorare per campare, ammazzare bestioni, cuocere bestioni, mangiare bestioni, fare i primi passi verso l’Artusi». Ecco, l’Artusi: il corpo, la fisicità, la cucina, procurano anch’essi macchine da parole, dal tempo che (cap. vigesimoprimo), «continuamente lo zero, travestito da sole, uccise e fece rinascere, mescolò furbamente vita e morte, e fu lacuna estrema, fu la cuna, fu il centro, l’inizio, l’iniziazione all’inizio, il forame d’accesso del luogo dell’orrore e del luogo del riso – il riso dell’ombra e il riso dello stemma. Fu, ed è lui, l’inesattezza esatta». Chi parla? Il fool, se il libro si congeda shakespeariano (cap. trentuno), con l’inchino dal palco: «Grazie. Grazie.»

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