L’attuale percezione che la critica letteraria – in quanto pratica intellettuale e campo disciplinare legittimati da un fruizione diffusa – si trovi a rischio di estinzione è certamente forte e giustificata. È un rischio sottolineato da numerosi allarmi risuonati per la prima volta tra le due guerre mondiali, dopo il prolungato silenzio dei decenni che hanno visto il tentativo – e l’illusione – di costruire una scienza «dura» della letteratura. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono tornati a farsi sentire, fino a diventare oggi assai frequenti e insistenti. «Si è fatto a meno per molto tempo della critica. Se ne può fare a meno ancora. Una parte d’Europa cerca di farne a meno con violenza e superbia», scriveva Albert Thibaudet nella sua Fisiologia della critica del 1929. Il pericolo che paventava è divenuto negli ultimi anni estremamente concreto, e ha finito col riguardare non più una parte, ma la totalità del continente (la stessa che a partire dal 1999 si è riconosciuta nel cosiddetto «processo di Bologna», istitutivo della European Higher Education Area).
Davanti al rischio della fine o della marginalizzazione della critica, Thibaudet provò il bisogno di interrogarne la gloriosa origine settecentesca e le funzioni basilari, individuando tre orientamenti fondamentali, che chiamò «critica dei maestri», «critica professionale» e «critica «spontanea». Se la prima, notava, è la critica praticata dagli stessi scrittori quando, ragionando sulla propria arte, formulano idee che espongono, chiariscono, giustificano le loro opzioni, proponendo in tal modo una prospettiva estetico-letteraria di ampio respiro, la «critica professionale» è invece quella di coloro il cui mestiere è leggere le opere traendone un sapere, sulla cui base poterle ordinare.
È dunque la critica degli specialisti universitari, realizzata da professori che si rivolgono alla totalità della storia della letteratura per inventariare e spiegare, interessandosi anzitutto a ciò che è classico e rivolgendosi al nuovo solo nella misura può divenirlo. La «critica spontanea», infine, è quella che si occupa specialmente del presente, delle opere attuali, e che compie tra esse una scelta in base all’emozione immediata, esprimendo così il gusto del giorno e proponendo – anzitutto nell’articolo giornalistico o nel saggio breve – una indicazione su ciò che vale la pena di essere letto.
Ci si può chiedere cosa ne sia oggi, al crepuscolo dell’epoca della carta, di questi tre orientamenti o modi della critica (che secondo Thibaudet costituiscono altrettante «tendenze viventi», talvolta intrecciate, piuttosto che meri compartimenti). Se sarebbe ancora possibile citare non pochi scrittori contemporanei capaci di elaborare testi critico-teorici che, grazie al loro nome, riescono bene o male a trovare accoglienza da parte dei cartelli editoriali e riscontro presso gli appassionati, le cose stanno diversamente tanto per la critica universitaria, i cui protagonisti faticano ormai a reperire spazi di pubblicazione indipendenti e non prezzolati, quanto per la critica «spontanea», riguardata da una robusta preminenza del web, dove però la necessità strutturale di un aggiornamento continuo fa sì che ogni intervento – commento o espressione di gusto che sia – venga subito reso obsoleto dagli interventi successivi; e poiché assai di rado si produce una reale discussione sulle ragioni dell’apprezzamento delle opere, sovente tutto si riduce a mera reazione, più che a interpretazione.
Le strategie di mercato adottate in Europa dalle nuove concentrazioni editoriali si sono sempre più indirizzate alla promozione di una letteratura di intrattenimento, caratterizzata da tecniche di scrittura relativamente elementari e da un registro medio o neutro, rispetto ai quali la selezione, la mediazione, l’educazione del gusto promosse dall’analisi storico-critica risultano in definitiva fuori luogo, perché non proficuamente attivabili e prive di un vero significato sociale.
A fronte di una simile situazione, valida per i testi contemporanei, ma evidentemente densa di conseguenze anche per la ricezione rinnovata di quelli del passato, occorre immaginare nuovi modi, stili, luoghi critici che – come ha suggerito Jean Starobinski, acuto lettore di Thibaudet in La relation critique – si mostrino capaci di una riflessione ampia e libera su ciò che, manifestandosi nei testi e nei modi della loro produzione, rinvia al tutto della vita e della società, e alla peculiarità delle strategie attuali della loro organizzazione.
Non trasformiamo una idiosincrasia in teoria
Quinta puntata di un dibattito: qualche consiglio in forma di elenco per evitare di assuefarsi allo status quo, e reagire allo stereotipo della crisi
Niccolò Scaffai Alias Domenica 20.5.2018, 6:00
«Crisi della critica» è una delle formule più fortunate mai prodotte dalla critica letteraria. Basta sillabarla per rimanerne affascinati: cri-si-del-la-cri-ti-ca. Figura etimologica (crisi e critica, si sa, hanno la stessa origine) e ridondanza sonora contribuiscono a rendere l’espressione memorabile, come una formula appunto. E, in quanto tale, applicabile e ripetibile in diversi contesti. Impossibile non riconoscerne l’efficacia, difficile resistere alla tentazione di trasformare quell’efficacia in credito. Infatti, in Italia, il tema del tramonto accompagna ogni dibattito e bilancio sulla critica letteraria. In alcuni casi, si tratta di riflessioni che contribuiscono a mettere in luce questioni e prospettive essenziali; in altri, nasce il sospetto che il pessimismo o lo scetticismo sulla salute della disciplina risentano anche della condizione personale di chi proclama lo stato di crisi. Terminato il ruolo, cioè, sembra a volte perdere forza anche la funzione.
In più, la postura novecentesca dell’intellettuale produce un riflesso condizionato difficile da controllare: cioè l’estensione su un piano generale di un sentimento particolare, la promozione dell’idiosincrasia a teoria. Sarà anche per questo, forse, che oggi pare più in crisi la teoria letteraria vera e propria che non la critica. Ed è un male, perché la buona teoria, anche quando non viene esibita, dà struttura e consistenza alla riflessione critica. Questo, almeno, mi sembra valere per l’Italia. Non sono sicuro che accada lo stesso in altri paesi culturalmente confrontabili con il nostro. In Francia, ad esempio, escono più di frequente volumi che mostrano – e a volte, appunto, esibiscono – una struttura teorica robusta. Questo dipende in primo luogo dalla forma mentis e dai protocolli della cultura francese; ma, in secondo luogo, si lega al fatto che le case editrici come Seuil, Gallimard, Classiques Garnier, che hanno fatto la storia e la fortuna della materia, continuano a pubblicare saggi critico-teorici.
In Italia non tutti gli editori che hanno alle spalle una tradizione paragonabile dedicano ancora alla teoria (e alla critica) letteraria la stessa attenzione. (Ma il panorama è molto vario e non mancano, anche da noi, case editrici che investono nello studio della letteratura; forse, oggi, le meno disponibili a farlo sono proprio quelle storiche: questa, mi pare, è una differenza significativa rispetto ad altri paesi).
Editoria, distribuzione, pubblico: certo, il regresso della critica in termini di peso e rilievo è fuori di dubbio. Finora ho cercato di dire che la crisi della critica è anche un luogo comune, ma ovviamente non è solo quello.
’altra parte, gli stereotipi non sono necessariamente falsi e le «narrazioni» non sono tutte mistificatorie. La questione esiste e richiede spiegazioni e interpretazioni sociologiche, economiche, politiche, che non potrei né vorrei affrontare qui – anche perché altri, dalle colonne di questo giornale, ne hanno già parlato con competenza e lucidità. Tralascio perciò i commenti sulle cause estrinseche che possono aver contribuito a indebolire prestigio e funzione della critica letteraria; preferisco suggerire alcune prospettive intrinseche, cioè relative al fare critica, al concreto operare del critico. Non saranno vere e proprie soluzioni, ma indicazioni utili se non altro a non assuefarsi alla crisi, a reagire allo stereotipo. Ricorro alla forma un po’ autoritaria dell’elenco, sia per ragioni di spazio, sia per questioni argomentative: la brevità apodittica sollecita spesso integrazioni e repliche, provoca il dialogo.
Ecco dunque alcuni punti che mi stanno a cuore:
1) Non rimpiangere (troppo) il passato. La critica non ha mai retto le sorti del mondo e il sentimento della crisi non le era estraneo neanche prima. Per certi aspetti, la situazione è anzi migliore di prima. Per esempio, oggi il mondo della critica è più aperto sul piano del genere di quanto non lo fosse anche solo una generazione fa; ed è più democratico nell’accesso agli spazi da cui prendere la parola. La rete ha svolto un ruolo molto importante, generando una critica diffusa; l’altra faccia della medaglia è la crisi delle competenze: se quasi tutti sono critici, quasi nessuno lo è (ma, come primo rimedio, si veda il punto 3).
2) Guardare anche oltre i confini della cultura nazionale (che spesso si frammenta in varie, singole culture locali: l’ambiente letterario romano, quello milanese, e via discorrendo). Potremo scoprire che la crisi, pur avvertita anche in altri Paesi e culture, sollecita altrove reazioni diverse e vitali.
3) Studiare, conoscere, aggiornarsi (vedi punto 2), certo non per approvare incondizionatamente il nuovo ma anche per criticare, selezionare, scartare a ragion veduta. Occorre, cioè, rinnovare i propri riferimenti, anche quelli polemici.
4) Non scrivere o parlare solo per altri critici o per lettori culturalmente (e ideologicamente) omogenei. Non si parla a tutti, come insegnava Fortini (che apparteneva però a un mondo e a una generazione ormai lontani). Ma si parla comunque ad altri. Non si può pensare, cioè, di rivolgersi solo a sé stessi o a una cerchia di persone che condividono identici riferimenti e coordinate (si veda, al riguardo, anche il punto 5).
5) Farsi capire. Sempre. O almeno cercare di farlo (vedi punto 4). È la prima responsabilità e la prima fatica del critico (perché chiarificare non significa banalizzare).
6) Considerare quello del critico letterario un lavoro che richiede competenza ed esercizio, oltre che cultura e curiosità. Ci sono stati e ci sono buoni (e a volte grandi) critici tra i filologi e tra i linguisti, tra gli scrittori e tra i poeti, tra i giornalisti e tra gli editori, tra gli insegnanti e tra i filosofi, tra i giuristi, tra gli scienziati ecc. Ma nessuno di questi mestieri conferisce di per sé a chi lo pratica la patente di critico. La critica letteraria, anche quando si occupa di testi e autori contemporanei, richiede studio, consapevolezza di metodo, scelta di valori, ampiezza di letture. I primi ad averne consapevolezza devono essere i critici, per dare e far dare valore a ciò che studiano, pensano e scrivono.
7) Smettere di separare la critica cosiddetta militante dalla critica cosiddetta accademica e, soprattutto, resistere alla tentazione di usare l’aggettivo «accademico» in accezione negativa, in senso deteriore. (Dove, se non all’università, hanno imparato molto di ciò che sanno alcuni tra i migliori critici italiani, ieri come oggi? Dove lavora, o ha lavorato, a vario titolo una buona parte di loro?).
8) Affrontare il dialogo con altre discipline, per misurare e rivendicare il ruolo della critica letteraria (e della letteratura) nell’ambito dei saperi contemporanei. Capire e mostrare ciò che la critica – con le specifiche risorse e attraverso le forme e i codici della propria privilegiata materia: la letteratura – può dire e insegnare anche a chi pratica altri campi: umanistici, sociali o scientifici.
Insegnare a leggere la letteratura è un atto oppositivo
Critica dove sei. In un sistema culturale incapace di riconoscere la funzione fittizia e insieme concreta della narrativa alta, i docenti devono continuare a proporre clandestinamente i classici
Emanuele Zinato Alias Domenica 3.6.2018, 6:00
La diagnosi riguardante la crisi della critica, da Notizie dalla crisi (1993) di Cesare Segre a Eutanasia della critica (2005) di Mario Lavagetto, va interamente riformulata. Anche l’antitesi fra teoria letteraria (intesa come puro scientismo) e critica (percepita come libertà anarchica della lettura), argomentata in Italia da Alfonso Berardinelli, è del resto del tutto superata.
I veri banchi di prova della tenuta o del collasso del discorso critico oggi sono, alla prova dei fatti, quelli in cui questo argomento può ancora farsi discorso pubblico: nella scuola e nell’università. È soprattutto l’esercizio didattico, insomma, il luogo della sopravvivenza culturale per il critico odierno. L’atto critico-didattico è in sé utopico perché prevede che insegnanti e studenti, nell’assenza di un lessico condiviso e nel quadro di classi costituite da migranti e da nativi digitali, condividano le medesime procedure cognitive e interpretative: che esplorino cioè le omologie e le opposizioni fra le opere e il mondo, rinominando con consapevolezza i concetti-guida (autore, lettore, temi, forme, storia, valore).
La situazione del critico-docente è dunque quella di chi si estrae dalla palude tirandosi per il codino, in dialogo potenziale con la parte espropriata e invisibile dell’umanità: credo si possa ancora scegliere questa strada, e leggere in pubblico i testi con occhi strabici, come faceva Franco Fortini, con uno sguardo alle forme dell’opera, l’altro ai conflitti del mondo e ai rapporti sociali.
Noi, abitati da due logiche
Le risorse della critica, del resto, sono di per sé pedagogiche: la sua funzione è una guida al buon uso dell’immaginario. Come ha insegnato Francesco Orlando, in quanto essere umano ciascuno di noi è abitato da due diverse, inseparabili, logiche: una forte, che sa rispettare il principio di non-contraddizione (quella che usiamo da grandi e da svegli, che domina il mondo dalle rivoluzioni industriali in poi), e l’altra debole, che tende a pensare per immagini, generalizzare le somiglianze, da cui si affranca a fatica il bambino, che persiste nei sogni o nei sintomi o nei motti di spirito. La critica aiuta a dare senso a questo intreccio conflittuale tra le due logiche propriamente umane, verificandolo nella figuralità delle opere.
Non credo che, a scuola, il pericolo per la letteratura e per la critica sia dato ancora oggi dalle griglie strutturaliste applicate alla didattica; semmai dall’erosione degli spazi deputati all’educazione umanistica in favore di discipline considerate dal senso comune più spendibili e dalle iniziative extracurricolari più parcellizzate e servili (da ultimo, l’alternanza scuola-lavoro). E, infine, dal completo disorientamento o ignoranza – a scuola e nelle università – delle operazioni più semplici e necessarie: storicizzare l’opera nel suo tempo, descriverne le forme, interpretarne e attualizzarne il senso. L’insegnamento della letteratura (la critica nel senso etimologico del termine) è un atto di opposizione, se non altro perché allena a mettere in dubbio la pratiche dominanti in un contesto dove – tanto nel campo dell’educazione quanto nelle forme del dissenso – è interamente da riscoprire il significato stesso, individuale-collettivo, della parola libertà. Tradotta nell’habitat didattico, la critica comporta inoltre l’utopia concreta di una possibile «controstoria», vale a dire l’uso da parte degli studenti di uno strumento adatto a verificare il rapporto contraddittorio tra storia sociale e invenzione letteraria.
Disubbidire alla buona scuola
La critica come didattica, finché potrà dovrà dunque disubbidire alla buona scuola e all’università dell’eccellenza, e sotto banco continuare a porsi il compito di rinegoziare la funzione della letteratura come «unità della percezione del reale e dell’immagine del possibile», scriveva René Wellek in Storia della critica moderna. In un sistema culturale ostile, incapace di riconoscere quella che Thomas Pavel ha chiamato la funzione fittizia e insieme concreta dell’invenzione letteraria, il critico-docente deve continuare a proporre clandestinamente (magari per frammenti) Leopardi, Baudelaire, Flaubert, Kafka o Svevo provando e restituire nuovi significati a quelle opere. Con il loro italiano stentato, le studentesse e gli studenti impareranno a estrarne ancora un contenuto di verità.
Il nostro declino ha precedenti illustri
Critica dove sei. Osservate da vicino, anche le glorie del passato mostrano le loro screpolature, e questo ci aiuta a consegnare prospettiva all’attualità: settima puntata di un dibattito
Clotilde Bertoni Alias Domenica 3.6.2018, 6:00
La critica militante non esiste più: non si fa che ripeterlo. Meno spesso si ricorda che in effetti non ha mai avuto vita semplice, che di stagioni di crisi ne ha attraversate tante. Nel secondo Novecento la terza pagina tradizionale, già regno dei «principi dei critici» stile Emilio Cecchi, risulta ormai esaurita: è definita da Arbasino «compiaciuta esibizione di riboboli e princisbecchi», da Andrea Barbato sede di «testi senza tempo, divagazioni e moralità»; tuttavia, ce ne vuole per liquidarla completamente. E i supplementi culturali che la soppiantano – primi fra tutti quelli del «Giorno» e di «Paese Sera» – sono certo innovativi, anticonformisti, indimenticabili, ma sempre alle prese con gli imperativi del mercato, i riguardi contingenti, il degrado delle sperimentazioni in mode: negli anni sessanta, mitici ai nostri occhi, Calvino vede l’industria culturale come una «macchina» a cui «ribellarsi è inutile»; Manganelli giudica la pratica della recensione scaduta a «rito sociale, ricco per questo di riserve mentali, di malafede, di buone intenzioni»; Pasolini osserva che gli adepti del Gruppo 63 disquisiscono di antiromanzo «come se parlassero di prosciutto di Parma».
Naturalmente adesso si va ben peggio, per i motivi già noti: la critica militante, come la critica in generale, ha risentito della crisi delle ideologie e dei metodi, ha perso ogni mandato simbolico; i problemi che la accerchiavano si sono esacerbati, lo strapotere del mercato si è fatto sempre più invasivo.
La funzione pubblicitaria riconosciuta alle recensioni (con fastidio) già dai tempi di Balzac, adesso appare vicina a divorarle, le appiattisce facilmente in trafiletti promozionali; molti scrittori attirano l’interesse grazie ad attrattive che con il loro spessore non hanno nulla a che vedere, dalla fresca giovinezza alla venerabile vecchiaia, dal passato cupo al presente intrigante; e le loro opere, sovente oscillanti tra autobiografia e autofiction, sono reclamizzate attraverso interviste, effusioni e confessioni che trasformano il giornalismo culturale in una sorta di cronaca sentimental-mondana.
Gli ottimisti pervicaci (come chi scrive) potrebbero ribattere che alcuni supplementi e siti di qualità resistono, che tra la rete e la carta stampata circolano energie vive, che il dissolvimento di indirizzi ormai asfittici può essere spinta di ripartenza, che la critica ha ancora futuro. Proprio perciò, d’altronde, preoccupano i rischi che più vistosamente la minacciano.
Ad esempio, la tentazione proliferante di abdicare alla propria indipendenza, collaborando con le testate peggiori. E il conformismo di gruppo che Arbasino definiva l’«hula-hoop intellettuale», sempre più rigido e inerte: in nome del quale, da un pezzo, si esalta ogni rigo di Camus e si liquida in blocco Sartre, si tira in ballo ossessivamente Pasolini (a volte senza rileggerlo) e si ritiene Moravia emblema di ogni male (senza rileggerlo mai), si attacca a spada tratta o si difende a piè fermo il romanzo di intreccio evitando di analizzare la difformità delle sue articolazioni, e così via.
E ancora, la refrattarietà ai confronti: la rete ha avuto il merito di rilanciare le polemiche non di rado però togliendo loro ogni mordente; il problema non sta tanto nelle derive di aggressività (in effetti tipiche dei diverbi di ogni tempo), quanto nella tendenza a mostrare i pugni senza scendere sul ring, a distruggere gli avversari non nell’interazione diretta ma nella nicchia protettiva di un proprio blog o di una propria bacheca Facebook, circondati da consensi confortanti; l’oceano aperto del web è sempre più intasato da cittadelle autistiche, in cui ognuno promuove il suo lavoro, votando alle proprie sorti incessante fiducia, e riservando viceversa a quelle complessive della critica un disperato pessimismo, condito beninteso di struggente nostalgia per le perdute età dell’oro.
E questo è il rischio peggiore. Siamo partiti da lì: riguardato da vicino l’oro di quelle età ne mostra di screpolature, le lacerazioni e le incertezze del passato tornano a galla. Il che può aiutare non a rivalutare l’attualità, ma a situarla in prospettiva meno catastrofica: a vederla, anziché come fase di declino irreversibile, come un lungo momento di transizione, di sicuro impervio, forse ancora fertile.
Storicizziamo i nostri orizzonti ideologici
Critica dove sei. Ultima puntata di un dibattito, che assume come non casuale la coincidenza tra rinuncia alla pratica della teoria letteraria e ratifica politica dell’esistente
Mimmo Cangiano Manifesto 10.6.2018, 6:00
Un giorno mi imbattei nella pagina web del docente di una famosa università, fino a pochi anni prima attivo come francesista, esperto di Balzac: appariva sulla home page guardando in camera, e nelle mani protese verso l’obiettivo reggeva un cervello umano (spero in polivinile). Fu il mio primo incontro con le Neurohumanities, quella disciplina che, qualche mese dopo, Fredric Jameson avrebbe definito, con la sua consueta ironia, «nuovo materialismo pre-dialettico». Intorno si attardavano le sirene di un decostruzionismo malamente mischiato ai Cultural Studies.
Nessuna speranza di oggettività era lasciata sopravvivere: tutto si risolveva nel sintagma «costrutto sociale», tribunale supremo che, per un malcelato equivoco, deponeva le armi solo davanti alla sacrosanta libertà individuale (l’io, io!) di riconoscersi parte di uno di quei gruppi che formano le identity politics. Se un amico alla guida correva un po’ troppo, «vai tranquillo – gli si diceva – che tanto la morte è un costrutto sociale!».
Fra il preteso oggettivismo con il quale si elargiscono i fondi di ricerca a intellettuali neo-positivisti che fantasticano di non essere subalterni a nessuno (e intanto si accodano allo spirito del tempo) e la deregulation epistemologica incapace di riconoscersi a sua volta come dipendente dalle spinte oggettive della prassi storica, la critica letteraria vivacchia in forma di residuo formale di ideologie e formazioni sociali storicamente perdenti. Il suo destino sembra, oggi, quello di decadere a prodotto culturale meritevole di un po’ di compassione, qualche disprezzo e molta nostalgia.
Non c’è una sola ragione storiografica a determinare il campo della crisi, in primo luogo perché questa si origina da una serie di fattori che si dispiegano su coordinate storiche assai differenti e lontane. Quello che resta il fulcro del nostro ingresso nella modernità, il decadimento del concetto retorico-imitativo di modello, non spiega le condizioni attuali. Il passaggio da ciò che Jacques Rancière chiama «regime mimetico», fondato su una affinità fra contenuti e loro rappresentazione, a quello che chiama «regime estetico» (avvenuto grosso modo nel primo Novecento) ha intaccato solo in parte la capacità del critico letterario di farsi interprete e guida del gusto (e ovviamente dei valori retrostanti).
Le ragioni di un declino
L’indebolimento stesso del mandato sociale conferito all’intellettuale tradizionale, avvenuto negli stessi anni, è stato bypassato attraverso una serie di accorgimenti culturali che hanno rilanciato il ruolo del critico all’interno di una società allargatasi e dunque bisognosa di rimodulare le proprie operazioni riguardo allo sviluppo ideologico e al consenso.
La formazione dei gruppi intellettuali (i Manifesti), le azioni collettive a difesa di un nucleo poetico o interpretativo, l’idea di «impegno» nel dopoguerra, vivono tutti – con obiettivi e letture differenti del reale – della stessa necessità di riformulare il ruolo dell’intellettuale e di mantenere vivo il contatto (sia anche il caso contro-egemonico del nazional-popolare di Gramsci) fra valori ideologici ed estetici, vale a dire fra i valori estetici e la percezione culturale del reale.
La cosiddetta «fine delle grandi narrazioni» ha certo minato seriamente i procedimenti ideologico-culturali che avevano permesso alla figura dell’intellettuale di sopravvivere, sebbene con un mandato sociale ridotto, erodendo la forza del campo umanistico e creando la definitiva e gerarchica separazione fra i nuovi veicoli di trasmissione ideologica (televisione, giornalismo, internet, letteratura di consumo) e gli spazi tradizionali (l’accademia, le riviste specialistiche, e così via). Mentre il campo sociale e quello scientifico sono riusciti a instaurare un rapporto stabile con le aree culturali destinate alla produzione del consenso, il campo umanistico «alto» ha smarrito il contatto con i nuovi veicoli preposti alla sua diffusione.
Persa definitivamente la sua ragione sociale, l’intellettuale si ritrova così bloccato in uno spazio di produzione ideologica (la torre d’avorio dell’università) che, separato da quello che Gramsci avrebbe chiamato il suo inveramento sul piano del consenso, finisce per dubitare di sé, riconoscendosi come falsa coscienza. Con queste premesse, a quello stesso intellettuale restano più o meno due scelte: o si auto-estrania, come Harold Bloom che continua a difendere, contro tutto e contro tutti, il valore del canone, oppure muove (lo si vede negli Stati Uniti) verso le scienze dure, è appunto il caso delle Neurohumanities, o verso le scienze sociali, ed è il caso dei Cultural Studies.
Se la critica letteraria è entrata in crisi, lo si deve a due ragioni in stretto rapporto tra loro: da un lato, a venire compromesso è stato il ruolo del sapere umanistico «alto» nella costruzione ideologica del consenso, quando sono decadute le grandi costruzioni ideologiche a quello collegate; dall’altro è crollata la necessità di appoggiarsi ai valori estetici nella costruzione delle direttive ideologiche e in quella del consenso. In questo senso, la crisi della critica è davvero, come voleva Guido Guglielmi, crisi della letteratura: non perché una discenda dall’altra, ma perché le coordinate storiche del loro declino sono le stesse. E trincerarsi nella difesa di una qualche superiorità del sapere umanistico tradizionale fa sentire chiusi nelle fattezze un po’ ridicole di un «cavaliere dalla triste figura».
A proposito di idee dominanti
Diversamente da altri saperi, la critica letteraria ha ancora la possibilità di dare un contributo, che in parte si origina dalla necessità stessa di riconoscersi in crisi, e che non può non tenere conto del fatto che le forme dell’interpretazione sono soggette alla storia, dunque alla dialettica che intrattengono con le trasformazioni sociali. Di fronte a un oggettivismo che si pretende naturale e a un anti-oggettivismo che, esasperando il proprio limite, inevitabilmente lo colloca fuori dalle possibilità di trasformazione del reale, forse la critica letteraria potrebbe tornare a un esercizio che, soprattutto in Italia, le è riuscito molto bene: storicizzare i precedenti orizzonti ideologici.
Storicizzare i precedenti orizzonti ideologici non è mero culto dell’antiquariato né semplice conservazione, ma serve a rivelare la natura storica e fenomenica degli orizzonti ideologici e delle conformazioni sociali, passate come presenti. E a ricordare che «le idee dominanti sono in ogni epoca le idee delle classe dominante».
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