Andrea Caterini Giornale Gio, 26/10/2017
sabato 9 settembre 2017
Una panoramica sulla letteratura italiana contemporanea. Problemi della critica letteraria: Bertoni, Mazzoni e altri
Il critico: "Siamo un Paese di poeti e di prosatori più che di narratori. E si vede. Con le dovute eccezioni..."
Andrea Caterini Giornale - Mer, 04/10/2017 -
Il critico e scrittore: "Più che il gusto personale contano le domande rimosse. Oggi tutto è subito mitizzato"
Andrea Caterini Giornale Gio, 26/10/2017
Andrea Caterini Giornale Gio, 26/10/2017
Non arrendiamoci al capitalismo cognitivo
Cassette degli attrezzi. Ha inizio con questa pagina una discussione mirata a indagare la patente caduta in disgrazia della teoria letteraria; ciò che coincide, nella migliore delle ipotesi, con una ratifica politica dell’esistente
Federico Bertoni Alias DOmenica 22.4.2018, 6:00
Chiariamo subito un punto: si parla anche di voi, o meglio di tutti noi. La scomparsa della critica letteraria dalla scena pubblica non è un problema da accademici spocchiosi o letterati ingobbiti sulle sudate carte. Perché l’eclissi di una disciplina di per sé irrilevante per i destini del mondo racconta una storia molto più grande, grida con la forza del sintomo una perdita ben più grave: lo spirito critico della modernità illuminista, l’aspirazione kantiana a camminare eretti e a rivendicare l’uso pubblico della ragione: sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza.
Una parola-chiave della modernità
Perciò non è affatto semplice indicare cause e moventi di questo processo apparentemente irreversibile: significherebbe raccontare la crisi stessa della modernità. La critica letteraria nasce infatti con il pensiero moderno: «si emancipa» in quanto disciplina autonoma quando la ragione occidentale mette in discussione un assetto millenario, articolandosi in una serie di discipline che vanno a costituire l’episteme del moderno: psicologia, antropologia, sociologia, economia politica, estetica e appunto critica letteraria. Anche l’espressione «crisi della critica» che da almeno venticinque anni segna periodicamente il dibattito culturale, peraltro senza scalfirlo, ha qualcosa di tautologico. Crisi, ci ha spiegato un filosofo della storia come Reinhart Koselleck, è una parola-chiave del vocabolario della modernità, è anzi «la chiave interpretativa centrale tanto per la storia politica quanto per la storia sociale» almeno a partire dalla Rivoluzione francese.
E dunque la critica letteraria, come declinazione specifica dello spirito critico moderno, è in crisi per definizione. Lo ha ricordato a suo tempo Mario Lavagetto sulla scorta di Paul de Man: la crisi della critica ha natura «endemica», coincide cioè con l’esistenza stessa di questa disciplina, come rivela peraltro la comune derivazione etimologica dei termini critica e crisi dal verbo greco kríno, che copre un duplice campo semantico: da un lato «separare», dall’altro «scegliere», «decidere», «giudicare». In altri termini, la crisi è una condizione strutturale dell’esercizio critico, la sua ragione d’essere; e non esiste critica autentica che non viva in una situazione di instabilità categoriale, che non rimetta continuamente in discussione i presupposti, i metodi e gli obiettivi del suo operato.
Viene quindi da pensare che la crisi della critica in cui si macerano da anni tanti intellettuali non sia affatto una crisi ma piuttosto una paralisi, una sclerosi progressiva, il lento e inesorabile svuotamento di quel vitale nesso semantico: la critica langue e muore (o si suicida più o meno consenziente, come ha diagnosticato Lavagetto in Eutanasia della critica) proprio perché non è più in grado di essere e di mettere in crisi, o forse perché, più in generale, il concetto di crisi con cui interpretiamo compulsivamente il nostro presente ha perso le sue valenze anche positive, di cesura drastica, momento di fine e di inizio, spinta al cambiamento, impantanato nella visione malinconica di un presunto declino.
Nulla avviene per caso
C’è poi una causa più circoscritta che ci induce periodicamente a chiederci «dove siamo?», come nel titolo di un bel libro collettivo sulle «nuove posizioni della critica» di Giancarlo Alfano e altri studiosi. È una causa iscritta nell’evoluzione (o involuzione) degli studi letterari negli ultimi decenni del Novecento, quando si consuma il fallimento di un programma critico, modellato sulla linguistica, che voleva fondare una scienza «forte» della letteratura, basata su metodi e protocolli affini a quelli delle scienze naturali. Sono i decenni in cui una certa teoria letteraria di matrice soprattutto francese raggiunge al tempo stesso il culmine e il punto di non ritorno, trionfa mentre nutre i germi della sua distruzione, sacrifica tutto al miraggio utopico e inevitabilmente fallimentare di mettere a punto una mathesis universalis del sapere letterario. Lo scacco grandioso e catastrofico di questa aspirazione all’universale, di quest’ultimo progetto illuminista ha prodotto effetti a catena che è impossibile descrivere nel dettaglio. Ma a grandi linee ne è uscita una contrapposizione nefasta tra due tendenze che segnano il panorama attuale degli studi letterari: da un lato la chiusura specialistica, l’arroccamento difensivo nei propri minuscoli appezzamenti disciplinari, dove si continua felicemente (?) a lavorare senza farsi troppe domande, impermeabili al mondo, protetti da un sapere che si autogiustifica con il vecchio e ormai inservibile scudo della tradizione; dall’altro la tuttologia, la letteratura come pretesto per parlare d’altro, il goffo e spesso patetico inseguimento delle mode e dei consumi culturali, in un tentativo di innovare concetti e linguaggi per adeguarsi alle richieste dell’ideologia dominante, cioè l’unica rimasta: il mercato.
A venir meno è appunto lo spazio intermedio, il luogo deputato della critica, cioè di un discorso tecnico e specializzato sulla letteratura che ambisca a un senso più ampio, collettivo, nei termini sempre più inattuali del bene comune e dell’uso pubblico della propria ragione. Ne è sintomo perfetto, con il lucido cinismo che solo il mercato può avere, la scomparsa pressoché totale della saggistica letteraria dall’orizzonte editoriale, e anche fisicamente dagli scaffali delle librerie. Agli studi letterari di tipo accademico non resta così che alimentare in modo compulsivo il canale parallelo, ormai del tutto drogato, delle edizioni a pagamento, da dare in pasto alle commissioni di concorso e a quella macchina impazzita che si chiama «valutazione della ricerca scientifica» (potrei citare decine di messaggi promozionali di editori più o meno improbabili che offrono di pubblicare qualunque libro, a prezzi modici, in tempo utile per le scadenze dell’Abilitazione Scientifica Nazionale).
ulla, ovviamente, avviene per caso. E in fondo non è tutta colpa dei critici e degli studiosi di letteratura, pure molto inclini al suicidio assistito. Parte di un problema ben più ampio, l’agonia attuale della critica letteraria può essere letta come un sintomo di enormi trasformazioni politiche, sociali, economiche, culturali e tecnologiche che i nostri strumenti interpretativi non sono in grado di capire e tantomeno di governare. Calvino, Fortini e Pasolini sono morti, d’accordo (e anch’io non mi sento tanto bene, direbbe Woody Allen), ma non è questo il punto. A mancare non sono i cervelli ma una sorta di tessuto neuronale diffuso, senza il quale anche le grandi figure che hanno segnato la storia intellettuale del Novecento, se rivivessero oggi, sconterebbero una condizione di malinconica irrilevanza.
La critica non sa più parlare perché è scomparsa una certa società letteraria, una comunità di lettori che condivideva gli stessi valori, saperi e orizzonti culturali, un pubblico (sicuramente ristretto, ma vivo e riconoscibile) con cui istituire un’intesa comunicativa immediata. (Quel che sta succedendo sul web è un fenomeno diverso, che nessuno è ancora riuscito a mettere a fuoco).
Dobbiamo seppellire l’umanesimo
La società che ha costituito la «letteratura» in quanto oggetto di un sapere, concetto identitario e pedagogico, luogo del valore e fulcro del sistema educativo, non esiste più, e non è detto che sia per forza un male. Ma è un lutto che bisogna elaborare al più presto. Dobbiamo seppellire una volta per tutte l’umanesimo, rinunciare ai diritti di primogenitura culturale per combattere una battaglia di resistenza, e non solo di retroguardia, nell’economia di quello che ormai si chiama «capitalismo cognitivo», dove la produzione e la gestione delle conoscenze – scienza, ricerca, cultura, arte, letteratura, insegnamento – entrano in una logica di scambio, profitto, competizione e accumulazione del capitale cognitivo globale. È quel che ci è toccato in sorte: micro-pratiche, tattiche congiunturali, piccoli gesti resistenti che spezzano gli automatismi, inceppano gli algoritmi, costringono un paio di studenti a farsi domande nuove, contrappongono a un mondo che non ha alcuna voglia di essere interpretato quell’atto congiunto di lacerazione e giudizio che è iscritto nel concetto e nella storia della critica letteraria. Non posso dire di essere ottimista, ma credo che ne valga ancora la pena.
Metonimia di uno choc sociale e politico
Seconda puntata del dibattito sulla crisi che investe il nostro rapporto con la letteratura. Oggi, chi non aderisce agli opposti estremismi dell’oggettività tardopositivistica o del soggettivismo che Internet e i social network incoraggiano a esplodere, ha l’impressione di navigare contro due correnti speculari dello stesso Zeitgeist
Guido Mazzoni Alias Domenica 29.4.2018, 6:00
Si potrebbe dire che la critica moderna è in crisi fin dal suo etimo; si potrebbe dire che la critica incarna lo spirito della modernità, l’epoca che si conquista il diritto di rifiutare l’autorità e di giudicare i valori tramandati – ma sarebbe un modo per non cogliere il punto. Per due secoli il nesso tra critica e crisi è rimasto una discussione da circolo colto e non ha in alcun modo scalfito il ruolo di chi scriveva di letteratura o la insegnava; da qualche decennio la crisi è così profonda che il dibattito critico più importante dell’ultimo quarto di secolo ha avuto, come tema, la crisi della critica.
La discussione ha coinvolto quattro o cinque generazioni di intellettuali, da Harold Bloom a persone che oggi hanno fra i trenta e i quarant’anni, e si è diffusa in tutti i paesi occidentali in forme sempre più scettiche, stanche e disilluse. Se il compito della filosofia, diceva Wittgenstein, è indicare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia, in questo caso la mosca ha già fatto il giro della bottiglia e ha capito che non c’è una via d’uscita. Nel frattempo la crisi si è aggravata. Eviterò di sbattere un’altra volta contro il vetro e mi concentrerò su ciò che sta al di fuori. Il destino della critica non è interessante in sé; è interessante come metonimia di ciò che accade alla cultura in una società che per la prima volta è veramente diventata di massa.
C’è da dire che questo dibattito non circola da solo. Fa parte di un insieme di riflessioni che hanno come tema un gruppo di crisi correlate: la crisi della scuola, dell’università, dell’editoria di qualità, della letteratura di ricerca e, nella letteratura di ricerca, della poesia. Sono sintomi; dicono che la cultura umanistica tradizionale si trova spiazzata dai cambiamenti che la società ha subito, con cronologie diverse a seconda delle storie nazionali, negli ultimi quattro o cinque decenni. In Italia lo stato delle cose cambia fra la seconda metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, fra la fine del lungo Sessantotto, la ristrutturazione capitalistica dell’editoria e la nascita della televisione privata, quando si chiude il Novecento e comincia un’altra epoca. Internet, i social network e le riforme scolastiche endemiche degli ultimi anni aggiungono altri pezzi a un processo che stava già avendo luogo.
Dopo la fine del notabilato
Il primo elemento della metamorfosi è la scolarizzazione di massa. Nel 1961 circa il 15% delle donne e il 25% degli uomini accedeva all’istruzione superiore dopo le scuole medie; oggi la percentuale per entrambi i sessi è sopra il 90%. Il volume dei libri posseduti e letti è andato aumentando parallelamente alla crescita della scolarità. È la più grande conquista delle socialdemocrazie e delle cristiano-democrazie postbelliche insieme col sistema sanitario nazionale. Benché incompiuta (il tasso di abbandono alla scuola secondaria resta alto, il numero di laureati rimane basso, meno della metà degli italiani legge un libro all’anno), è comunque una trasformazione democratica profondissima, l’equivalente, nell’ambito della cultura, della nascita del ceto medio. Ma questo risultato prodigioso, grazie al quale quelli come me hanno avuto accesso all’università, cambia i presupposti del sistema e mostra retrospettivamente quello che tutti sanno e che molti dimenticano: che a lungo la cultura è stata l’espressione di un notabilato, che le sue opere e le sue istituzioni erano figlie di un sistema chiuso, nato su un privilegio oggettivo e popolato da persone che, se viste da lontano, condividevano quasi tutto.
uando il sistema si allarga, quando il pubblico della letteratura diventa più ampio, disgregato e diseguale, è inevitabile che le autorità di un tempo vacillino.
Il secondo elemento è ciò che Michel de Certeau, parlando delle assemblee del Sessantotto, ha chiamato la presa di parola. Tre o quattro decenni più tardi, in un contesto diverso da quello cui pensava De Certeau, internet e i social network hanno portato alle masse un diritto che la cultura precedente riservava a un’élite di persone addestrate a questo scopo: il diritto di esprimersi in forma pubblica, di far circolare le proprie idee, di essere autore.
La fase eroica dei siti culturali a metà degli anni zero ha rappresentato un passaggio decisivo e uno choc; qualche anno dopo i social network hanno amplificato questo processo. La presa di parola generalizzata distrugge le mediazioni, sgretola l’autorità di ogni discorso specialistico, la diluisce nell’opinione. La letteratura e la critica ne escono stravolte; prima ancora ne è uscita stravolta la politica.
L’ethos del qui e ora
Il terzo elemento è la nascita di una nuova cultura umanistica, diversa da quella che si impara a scuola, ma che per molti aspetti esercita la stessa funzione della prima. Le generazioni diventate adulte dagli anni Sessanta in poi sono nate in una sorta di bilinguismo: prima di incontrare la cultura tradizionale sono cresciute incontrando la cultura dei media, quel sistema di autori, opere, generi nato dalla comunicazione di massa fatto di cinema commerciale, televisione, fumetti, musica, giornali, moda, pubblicità, e poi videogiochi, internet, social network, che si è progressivamente sovrapposto alla cultura ufficiale, e ha trovato una forma di consacrazione.
Oltre che mescolanze, il rapporto fra queste due culture produce conflitti. Uno riguarda la gerarchia fra i linguaggi (nel sistema dei media la letteratura è un’arte secondaria); un altro è legato al rapporto con le opere. La cultura pop si fonda sul consumo come forma di esperienza, sull’intrattenimento, sulla convinzione implicita che un’opera valga per il proprio effetto immediato, che non occorrano canoni, studio, scuole, e che non sia necessario discutere pubblicamente di gusti o di valori. Ognuno ha i suoi e li asseconda in nicchie separate; la somma complessiva la crea il mercato.
Oggi la cultura dei media è l’unica che interessi davvero all’opinione pubblica e che abbia un peso politico reale. La morte dei cantanti è un evento collettivo, la denuncia di un’attrice di Hollywood può scatenare un movimento, un discorso di Oprah Winfrey ai Golden Globe può trasformare un personaggio televisivo in una potenziale candidata alla presidenza degli Stati Uniti, mentre la vita e le opinioni degli intellettuali tradizionali contano solo nelle nicchie scolastiche, nelle presentazioni davanti a venticinque lettori, negli inserti culturali.
Il quarto elemento è l’ethos culturale del nostro tempo, quell’individualismo e quel particolarismo radicali che assumono come alfa e omega dei propri discorsi la prima persona singolare o un noi neotribale. Se i loro presupposti sono più che sensati (decostruire la falsa universalità dei canoni dominanti, mostrare che le differenze esistono, che vogliono esprimersi, e che nulla le tiene insieme se non i rapporti di forza), il loro effetto è il delirio della particolarità, la balcanizzazione.
Chi ha passato qualche mese negli Stati Uniti si è trovato davanti alla galassia esplosa dei cultural studies e della theory. Dall’altra parte del campo critico troviamo una struttura di senso opposta che si richiama al mito moderno della scienza come unica forma di sapere oggettivo. Per la critica letteraria la scienza coincide di solito con la storia erudita e con la filologia – i beni-rifugio cui si ricorre in mezzo alla crisi, facendo appello a un senso comune positivistico che nasce dall’equiparazione delle scienze dello spirito alle scienze della natura; un senso comune refrattario alla riflessione e convinto di basti studiare oggettivamente qualcosa, magari qualcosa di marginale o irrilevante, per fare un gesto sensato, come se quello che è stato detto negli ultimi centocinquant’anni sulla natura circolare dell’interpretazione e sull’utilità e il danno della storia per la vita non fosse mai esistito. Questo paradigma rimane egemone nell’università italiana. Oggi, chi non aderisce agli opposti estremismi dell’oggettività tardopositivistica o del soggettivismo esploso ha l’impressione di navigare contro due correnti speculari dello stesso Zeitgeist.
Uno conta uno?
Vista da fuori, la bottiglia dentro la quale si agita la mosca può essere letta come un’allegoria di quella crisi dei corpi intermedi che è un tratto fondamentale del nostro tempo e di quella tendenziale parità fra tutti i modi di sentire (la formula è di Martin Amis) che si afferma quando non c’è dibattito, e l’unico principio preso per buono è che uno conta uno. Oggi, in Europa, sono soprattutto le istituzioni dello Stato a stabilire che gli intellettuali tradizionali debbano ancora avere un ruolo nella formazione dei cittadini e della memoria condivisa, e che il loro giudizio non sia un’opinione come tante. Se un giorno queste istituzioni cambiassero politica, tutto sarebbe molto diverso. A quel punto ognuno rimarrebbe nella propria bolla e i conflitti fra le bolle sarebbero risolti dalla legge del numero, che è il nomos del mercato, ma anche della democrazia liberale o di YouTube.
La rivendicazione dell’estetica, un gesto politico
Critica dove sei. Sarebbe un errore leggere le trasformazioni dell’editoria in termini morali o volontaristici. A essere cambiata è tutta l’industria culturale, non più parte di quella negoziazione di valori che è intrinseca alla democrazia liberale: quarta puntata di una discussione
Donata Meneghelli Alias Domenica 13.5.2018, 6:00
Quando si discute di crisi della critica letteraria, si oscilla generalmente tra due prospettive: una endogena, che tende a leggere quella crisi in termini prevalentemente «interni» (crisi di una disciplina, dei suoi protocolli epistemologici, dei suoi metodi), e una esogena, che sposta invece l’accento sulla funzione, oggi, della critica letteraria, sulle condizioni materiali, politiche, culturali in cui si dà la possibilità di praticarla, sul ruolo sempre più residuale degli studi letterari all’interno dei curricola scolastici e universitari e, più in generale, delle scienze umane, esse stesse brutalmente ridimensionate nei nuovi assetti del sapere nell’epoca del tardo capitalismo. Infine, sul crinale tra queste due direttrici, c’è una riflessione sulla prassi critica: da dove si parla, come si parla, a chi. I piani – non ci sarebbe quasi bisogno di sottolinearlo – sono strettamente legati l’uno all’altro, e separarli è un gesto non solo problematico ma in parte arbitrario. Nel contesto attuale, tuttavia, credo non si possa prescindere dalla prospettiva esogena.
Per cominciare, proviamo a rovesciare la domanda e chiederci non tanto perché oggi la critica letteraria sia in crisi, ma perché, almeno fino alla fine degli anni Settanta, sia stata una disciplina pilota nell’ambito delle scienze umane. Da dove le veniva quella sua centralità? Dal fatto che la letteratura era ancora, all’epoca, un tassello fondamentale nella formazione delle classi dirigenti? O perché era stata, per buona parte del Novecento, qualcosa di cui appropriarsi, da fare proprio, da strappare alle classi dirigenti, in una rivendicazione (di classe) dell’estetico, dell’immaginario, del sogno, di ciò che non è immediatamente «utile»?
Considerazioni di questo tipo guidavano, fino a una ventina di anni fa, editori che hanno svolto un ruolo importante in Italia: avevano un progetto e sulla base di quel progetto costruivano i loro cataloghi, operavano scelte. Oggi di questa editoria rimane ben poco, e le mutate condizioni hanno molto a che fare con la crisi di cui stiamo parlando, perché generano qualcosa come un double bind: i grandi editori (utilizziamo questa scorciatoia) non pubblicano più saggistica letteraria perché la critica è in crisi, la critica è in crisi perché i grandi editori non pubblicano più saggistica letteraria…
In ogni caso, le trasformazioni del mercato editoriale – grandi concentrazioni finanziario-produttive il cui progetto si riassume in una parola, profitto, difficoltà della piccola e media editoria, strozzate dai meccanismi spietati della distribuzione – non possono essere sottovalutate, soprattutto in Italia, dove l’editoria universitaria stenta a trovare un’identità e un profilo culturale «forte», a differenza di quanto accade in altri paesi, dove invece è spesso un’esperienza radicata, con una gloriosa tradizione alle spalle.
Sarebbe tuttavia un grosso errore leggere le trasformazioni dell’editoria in termini morali o volontaristici: non ci sono più editori «bravi», o coraggiosi… Il processo è strutturale e come tale va analizzato, imparando da Fredric Jameson. Ad essere cambiata è l’industria culturale nel suo complesso, fino a un po’ di tempo fa parte di una negoziazione di valori intrinseca alla democrazia liberale. Oggi ci troviamo – per dirla con Colin Crouch – in una fase di postdemocrazia, in cui quella negoziazione non si dà più (è uno dei problemi che proprio Jameson ha posto in tanti suoi scritti): ad essa si è sostituito un altro modello, la governance neoliberale e il dominio dei mass media.
In questo quadro, sono cambiati anche gli «agenti di legittimazione», o si sono assottigliate, talora fino a scomparire, le mediazioni (tutte funzioni decisive svolte dalla critica), come dimostrano molteplici fenomeni emersi nella rete, dai book-blogger alla rilevanza dell’intervista come forma in cui l’autore parla per sé, senza bisogno che qualcuno parli per lui o su di lui; fenomeni che sono al tempo stesso sintomi e risposte. Quali che siano le strategie di aggiramento o di resistenza, dunque, la crisi della critica letteraria è anche una questione squisitamente politica.
Educare al gusto? Un lusso che il web rende fuori moda
Critica dove sei. Davanti
al rischio della fine o della marginalizzazione della critica,
Thibaudet provò a interrogarne la gloriosa origine settecentesca e le
sue funzioni, individuando tre orientamenti: la critica dei
«maestri», quella degli specialisti e quella militante: una
discussione
Carmelo Colangelo Alias Domenica 13.5.2018, 6:00
L’attuale percezione che la critica letteraria – in quanto pratica intellettuale e campo disciplinare legittimati da un fruizione diffusa – si trovi a rischio di estinzione è certamente forte e giustificata. È un rischio sottolineato da numerosi allarmi risuonati per la prima volta tra le due guerre mondiali, dopo il prolungato silenzio dei decenni che hanno visto il tentativo – e l’illusione – di costruire una scienza «dura» della letteratura. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono tornati a farsi sentire, fino a diventare oggi assai frequenti e insistenti. «Si è fatto a meno per molto tempo della critica. Se ne può fare a meno ancora. Una parte d’Europa cerca di farne a meno con violenza e superbia», scriveva Albert Thibaudet nella sua Fisiologia della critica del 1929. Il pericolo che paventava è divenuto negli ultimi anni estremamente concreto, e ha finito col riguardare non più una parte, ma la totalità del continente (la stessa che a partire dal 1999 si è riconosciuta nel cosiddetto «processo di Bologna», istitutivo della European Higher Education Area).
Davanti al rischio della fine o della marginalizzazione della critica, Thibaudet provò il bisogno di interrogarne la gloriosa origine settecentesca e le funzioni basilari, individuando tre orientamenti fondamentali, che chiamò «critica dei maestri», «critica professionale» e «critica «spontanea». Se la prima, notava, è la critica praticata dagli stessi scrittori quando, ragionando sulla propria arte, formulano idee che espongono, chiariscono, giustificano le loro opzioni, proponendo in tal modo una prospettiva estetico-letteraria di ampio respiro, la «critica professionale» è invece quella di coloro il cui mestiere è leggere le opere traendone un sapere, sulla cui base poterle ordinare.
È dunque la critica degli specialisti universitari, realizzata da professori che si rivolgono alla totalità della storia della letteratura per inventariare e spiegare, interessandosi anzitutto a ciò che è classico e rivolgendosi al nuovo solo nella misura può divenirlo. La «critica spontanea», infine, è quella che si occupa specialmente del presente, delle opere attuali, e che compie tra esse una scelta in base all’emozione immediata, esprimendo così il gusto del giorno e proponendo – anzitutto nell’articolo giornalistico o nel saggio breve – una indicazione su ciò che vale la pena di essere letto.
Ci si può chiedere cosa ne sia oggi, al crepuscolo dell’epoca della carta, di questi tre orientamenti o modi della critica (che secondo Thibaudet costituiscono altrettante «tendenze viventi», talvolta intrecciate, piuttosto che meri compartimenti). Se sarebbe ancora possibile citare non pochi scrittori contemporanei capaci di elaborare testi critico-teorici che, grazie al loro nome, riescono bene o male a trovare accoglienza da parte dei cartelli editoriali e riscontro presso gli appassionati, le cose stanno diversamente tanto per la critica universitaria, i cui protagonisti faticano ormai a reperire spazi di pubblicazione indipendenti e non prezzolati, quanto per la critica «spontanea», riguardata da una robusta preminenza del web, dove però la necessità strutturale di un aggiornamento continuo fa sì che ogni intervento – commento o espressione di gusto che sia – venga subito reso obsoleto dagli interventi successivi; e poiché assai di rado si produce una reale discussione sulle ragioni dell’apprezzamento delle opere, sovente tutto si riduce a mera reazione, più che a interpretazione.
Le strategie di mercato adottate in Europa dalle nuove concentrazioni editoriali si sono sempre più indirizzate alla promozione di una letteratura di intrattenimento, caratterizzata da tecniche di scrittura relativamente elementari e da un registro medio o neutro, rispetto ai quali la selezione, la mediazione, l’educazione del gusto promosse dall’analisi storico-critica risultano in definitiva fuori luogo, perché non proficuamente attivabili e prive di un vero significato sociale.
A fronte di una simile situazione, valida per i testi contemporanei, ma evidentemente densa di conseguenze anche per la ricezione rinnovata di quelli del passato, occorre immaginare nuovi modi, stili, luoghi critici che – come ha suggerito Jean Starobinski, acuto lettore di Thibaudet in La relation critique – si mostrino capaci di una riflessione ampia e libera su ciò che, manifestandosi nei testi e nei modi della loro produzione, rinvia al tutto della vita e della società, e alla peculiarità delle strategie attuali della loro organizzazione.
Non trasformiamo una idiosincrasia in teoria
Quinta puntata di un dibattito: qualche consiglio in forma di elenco per evitare di assuefarsi allo status quo, e reagire allo stereotipo della crisi
Niccolò Scaffai Alias Domenica 20.5.2018, 6:00
«Crisi della critica» è una delle formule più fortunate mai prodotte dalla critica letteraria. Basta sillabarla per rimanerne affascinati: cri-si-del-la-cri-ti-ca. Figura etimologica (crisi e critica, si sa, hanno la stessa origine) e ridondanza sonora contribuiscono a rendere l’espressione memorabile, come una formula appunto. E, in quanto tale, applicabile e ripetibile in diversi contesti. Impossibile non riconoscerne l’efficacia, difficile resistere alla tentazione di trasformare quell’efficacia in credito. Infatti, in Italia, il tema del tramonto accompagna ogni dibattito e bilancio sulla critica letteraria. In alcuni casi, si tratta di riflessioni che contribuiscono a mettere in luce questioni e prospettive essenziali; in altri, nasce il sospetto che il pessimismo o lo scetticismo sulla salute della disciplina risentano anche della condizione personale di chi proclama lo stato di crisi. Terminato il ruolo, cioè, sembra a volte perdere forza anche la funzione.
In più, la postura novecentesca dell’intellettuale produce un riflesso condizionato difficile da controllare: cioè l’estensione su un piano generale di un sentimento particolare, la promozione dell’idiosincrasia a teoria. Sarà anche per questo, forse, che oggi pare più in crisi la teoria letteraria vera e propria che non la critica. Ed è un male, perché la buona teoria, anche quando non viene esibita, dà struttura e consistenza alla riflessione critica. Questo, almeno, mi sembra valere per l’Italia. Non sono sicuro che accada lo stesso in altri paesi culturalmente confrontabili con il nostro. In Francia, ad esempio, escono più di frequente volumi che mostrano – e a volte, appunto, esibiscono – una struttura teorica robusta. Questo dipende in primo luogo dalla forma mentis e dai protocolli della cultura francese; ma, in secondo luogo, si lega al fatto che le case editrici come Seuil, Gallimard, Classiques Garnier, che hanno fatto la storia e la fortuna della materia, continuano a pubblicare saggi critico-teorici.
In Italia non tutti gli editori che hanno alle spalle una tradizione paragonabile dedicano ancora alla teoria (e alla critica) letteraria la stessa attenzione. (Ma il panorama è molto vario e non mancano, anche da noi, case editrici che investono nello studio della letteratura; forse, oggi, le meno disponibili a farlo sono proprio quelle storiche: questa, mi pare, è una differenza significativa rispetto ad altri paesi).
Editoria, distribuzione, pubblico: certo, il regresso della critica in termini di peso e rilievo è fuori di dubbio. Finora ho cercato di dire che la crisi della critica è anche un luogo comune, ma ovviamente non è solo quello.
’altra parte, gli stereotipi non sono necessariamente falsi e le «narrazioni» non sono tutte mistificatorie. La questione esiste e richiede spiegazioni e interpretazioni sociologiche, economiche, politiche, che non potrei né vorrei affrontare qui – anche perché altri, dalle colonne di questo giornale, ne hanno già parlato con competenza e lucidità. Tralascio perciò i commenti sulle cause estrinseche che possono aver contribuito a indebolire prestigio e funzione della critica letteraria; preferisco suggerire alcune prospettive intrinseche, cioè relative al fare critica, al concreto operare del critico. Non saranno vere e proprie soluzioni, ma indicazioni utili se non altro a non assuefarsi alla crisi, a reagire allo stereotipo. Ricorro alla forma un po’ autoritaria dell’elenco, sia per ragioni di spazio, sia per questioni argomentative: la brevità apodittica sollecita spesso integrazioni e repliche, provoca il dialogo.
Ecco dunque alcuni punti che mi stanno a cuore:
1) Non rimpiangere (troppo) il passato. La critica non ha mai retto le sorti del mondo e il sentimento della crisi non le era estraneo neanche prima. Per certi aspetti, la situazione è anzi migliore di prima. Per esempio, oggi il mondo della critica è più aperto sul piano del genere di quanto non lo fosse anche solo una generazione fa; ed è più democratico nell’accesso agli spazi da cui prendere la parola. La rete ha svolto un ruolo molto importante, generando una critica diffusa; l’altra faccia della medaglia è la crisi delle competenze: se quasi tutti sono critici, quasi nessuno lo è (ma, come primo rimedio, si veda il punto 3).
2) Guardare anche oltre i confini della cultura nazionale (che spesso si frammenta in varie, singole culture locali: l’ambiente letterario romano, quello milanese, e via discorrendo). Potremo scoprire che la crisi, pur avvertita anche in altri Paesi e culture, sollecita altrove reazioni diverse e vitali.
3) Studiare, conoscere, aggiornarsi (vedi punto 2), certo non per approvare incondizionatamente il nuovo ma anche per criticare, selezionare, scartare a ragion veduta. Occorre, cioè, rinnovare i propri riferimenti, anche quelli polemici.
4) Non scrivere o parlare solo per altri critici o per lettori culturalmente (e ideologicamente) omogenei. Non si parla a tutti, come insegnava Fortini (che apparteneva però a un mondo e a una generazione ormai lontani). Ma si parla comunque ad altri. Non si può pensare, cioè, di rivolgersi solo a sé stessi o a una cerchia di persone che condividono identici riferimenti e coordinate (si veda, al riguardo, anche il punto 5).
5) Farsi capire. Sempre. O almeno cercare di farlo (vedi punto 4). È la prima responsabilità e la prima fatica del critico (perché chiarificare non significa banalizzare).
6) Considerare quello del critico letterario un lavoro che richiede competenza ed esercizio, oltre che cultura e curiosità. Ci sono stati e ci sono buoni (e a volte grandi) critici tra i filologi e tra i linguisti, tra gli scrittori e tra i poeti, tra i giornalisti e tra gli editori, tra gli insegnanti e tra i filosofi, tra i giuristi, tra gli scienziati ecc. Ma nessuno di questi mestieri conferisce di per sé a chi lo pratica la patente di critico. La critica letteraria, anche quando si occupa di testi e autori contemporanei, richiede studio, consapevolezza di metodo, scelta di valori, ampiezza di letture. I primi ad averne consapevolezza devono essere i critici, per dare e far dare valore a ciò che studiano, pensano e scrivono.
7) Smettere di separare la critica cosiddetta militante dalla critica cosiddetta accademica e, soprattutto, resistere alla tentazione di usare l’aggettivo «accademico» in accezione negativa, in senso deteriore. (Dove, se non all’università, hanno imparato molto di ciò che sanno alcuni tra i migliori critici italiani, ieri come oggi? Dove lavora, o ha lavorato, a vario titolo una buona parte di loro?).
8) Affrontare il dialogo con altre discipline, per misurare e rivendicare il ruolo della critica letteraria (e della letteratura) nell’ambito dei saperi contemporanei. Capire e mostrare ciò che la critica – con le specifiche risorse e attraverso le forme e i codici della propria privilegiata materia: la letteratura – può dire e insegnare anche a chi pratica altri campi: umanistici, sociali o scientifici.
Insegnare a leggere la letteratura è un atto oppositivo
Critica dove sei. In un sistema culturale incapace di riconoscere la funzione fittizia e insieme concreta della narrativa alta, i docenti devono continuare a proporre clandestinamente i classici
Emanuele Zinato Alias Domenica 3.6.2018, 6:00
La diagnosi riguardante la crisi della critica, da Notizie dalla crisi (1993) di Cesare Segre a Eutanasia della critica (2005) di Mario Lavagetto, va interamente riformulata. Anche l’antitesi fra teoria letteraria (intesa come puro scientismo) e critica (percepita come libertà anarchica della lettura), argomentata in Italia da Alfonso Berardinelli, è del resto del tutto superata.
I veri banchi di prova della tenuta o del collasso del discorso critico oggi sono, alla prova dei fatti, quelli in cui questo argomento può ancora farsi discorso pubblico: nella scuola e nell’università. È soprattutto l’esercizio didattico, insomma, il luogo della sopravvivenza culturale per il critico odierno. L’atto critico-didattico è in sé utopico perché prevede che insegnanti e studenti, nell’assenza di un lessico condiviso e nel quadro di classi costituite da migranti e da nativi digitali, condividano le medesime procedure cognitive e interpretative: che esplorino cioè le omologie e le opposizioni fra le opere e il mondo, rinominando con consapevolezza i concetti-guida (autore, lettore, temi, forme, storia, valore).
La situazione del critico-docente è dunque quella di chi si estrae dalla palude tirandosi per il codino, in dialogo potenziale con la parte espropriata e invisibile dell’umanità: credo si possa ancora scegliere questa strada, e leggere in pubblico i testi con occhi strabici, come faceva Franco Fortini, con uno sguardo alle forme dell’opera, l’altro ai conflitti del mondo e ai rapporti sociali.
Noi, abitati da due logiche
Le risorse della critica, del resto, sono di per sé pedagogiche: la sua funzione è una guida al buon uso dell’immaginario. Come ha insegnato Francesco Orlando, in quanto essere umano ciascuno di noi è abitato da due diverse, inseparabili, logiche: una forte, che sa rispettare il principio di non-contraddizione (quella che usiamo da grandi e da svegli, che domina il mondo dalle rivoluzioni industriali in poi), e l’altra debole, che tende a pensare per immagini, generalizzare le somiglianze, da cui si affranca a fatica il bambino, che persiste nei sogni o nei sintomi o nei motti di spirito. La critica aiuta a dare senso a questo intreccio conflittuale tra le due logiche propriamente umane, verificandolo nella figuralità delle opere.
Non credo che, a scuola, il pericolo per la letteratura e per la critica sia dato ancora oggi dalle griglie strutturaliste applicate alla didattica; semmai dall’erosione degli spazi deputati all’educazione umanistica in favore di discipline considerate dal senso comune più spendibili e dalle iniziative extracurricolari più parcellizzate e servili (da ultimo, l’alternanza scuola-lavoro). E, infine, dal completo disorientamento o ignoranza – a scuola e nelle università – delle operazioni più semplici e necessarie: storicizzare l’opera nel suo tempo, descriverne le forme, interpretarne e attualizzarne il senso. L’insegnamento della letteratura (la critica nel senso etimologico del termine) è un atto di opposizione, se non altro perché allena a mettere in dubbio la pratiche dominanti in un contesto dove – tanto nel campo dell’educazione quanto nelle forme del dissenso – è interamente da riscoprire il significato stesso, individuale-collettivo, della parola libertà. Tradotta nell’habitat didattico, la critica comporta inoltre l’utopia concreta di una possibile «controstoria», vale a dire l’uso da parte degli studenti di uno strumento adatto a verificare il rapporto contraddittorio tra storia sociale e invenzione letteraria.
Disubbidire alla buona scuola
La critica come didattica, finché potrà dovrà dunque disubbidire alla buona scuola e all’università dell’eccellenza, e sotto banco continuare a porsi il compito di rinegoziare la funzione della letteratura come «unità della percezione del reale e dell’immagine del possibile», scriveva René Wellek in Storia della critica moderna. In un sistema culturale ostile, incapace di riconoscere quella che Thomas Pavel ha chiamato la funzione fittizia e insieme concreta dell’invenzione letteraria, il critico-docente deve continuare a proporre clandestinamente (magari per frammenti) Leopardi, Baudelaire, Flaubert, Kafka o Svevo provando e restituire nuovi significati a quelle opere. Con il loro italiano stentato, le studentesse e gli studenti impareranno a estrarne ancora un contenuto di verità.
Il nostro declino ha precedenti illustri
Critica dove sei. Osservate da vicino, anche le glorie del passato mostrano le loro screpolature, e questo ci aiuta a consegnare prospettiva all’attualità: settima puntata di un dibattito
Clotilde Bertoni Alias Domenica 3.6.2018, 6:00
La critica militante non esiste più: non si fa che ripeterlo. Meno spesso si ricorda che in effetti non ha mai avuto vita semplice, che di stagioni di crisi ne ha attraversate tante. Nel secondo Novecento la terza pagina tradizionale, già regno dei «principi dei critici» stile Emilio Cecchi, risulta ormai esaurita: è definita da Arbasino «compiaciuta esibizione di riboboli e princisbecchi», da Andrea Barbato sede di «testi senza tempo, divagazioni e moralità»; tuttavia, ce ne vuole per liquidarla completamente. E i supplementi culturali che la soppiantano – primi fra tutti quelli del «Giorno» e di «Paese Sera» – sono certo innovativi, anticonformisti, indimenticabili, ma sempre alle prese con gli imperativi del mercato, i riguardi contingenti, il degrado delle sperimentazioni in mode: negli anni sessanta, mitici ai nostri occhi, Calvino vede l’industria culturale come una «macchina» a cui «ribellarsi è inutile»; Manganelli giudica la pratica della recensione scaduta a «rito sociale, ricco per questo di riserve mentali, di malafede, di buone intenzioni»; Pasolini osserva che gli adepti del Gruppo 63 disquisiscono di antiromanzo «come se parlassero di prosciutto di Parma».
Naturalmente adesso si va ben peggio, per i motivi già noti: la critica militante, come la critica in generale, ha risentito della crisi delle ideologie e dei metodi, ha perso ogni mandato simbolico; i problemi che la accerchiavano si sono esacerbati, lo strapotere del mercato si è fatto sempre più invasivo.
La funzione pubblicitaria riconosciuta alle recensioni (con fastidio) già dai tempi di Balzac, adesso appare vicina a divorarle, le appiattisce facilmente in trafiletti promozionali; molti scrittori attirano l’interesse grazie ad attrattive che con il loro spessore non hanno nulla a che vedere, dalla fresca giovinezza alla venerabile vecchiaia, dal passato cupo al presente intrigante; e le loro opere, sovente oscillanti tra autobiografia e autofiction, sono reclamizzate attraverso interviste, effusioni e confessioni che trasformano il giornalismo culturale in una sorta di cronaca sentimental-mondana.
Gli ottimisti pervicaci (come chi scrive) potrebbero ribattere che alcuni supplementi e siti di qualità resistono, che tra la rete e la carta stampata circolano energie vive, che il dissolvimento di indirizzi ormai asfittici può essere spinta di ripartenza, che la critica ha ancora futuro. Proprio perciò, d’altronde, preoccupano i rischi che più vistosamente la minacciano.
Ad esempio, la tentazione proliferante di abdicare alla propria indipendenza, collaborando con le testate peggiori. E il conformismo di gruppo che Arbasino definiva l’«hula-hoop intellettuale», sempre più rigido e inerte: in nome del quale, da un pezzo, si esalta ogni rigo di Camus e si liquida in blocco Sartre, si tira in ballo ossessivamente Pasolini (a volte senza rileggerlo) e si ritiene Moravia emblema di ogni male (senza rileggerlo mai), si attacca a spada tratta o si difende a piè fermo il romanzo di intreccio evitando di analizzare la difformità delle sue articolazioni, e così via.
E ancora, la refrattarietà ai confronti: la rete ha avuto il merito di rilanciare le polemiche non di rado però togliendo loro ogni mordente; il problema non sta tanto nelle derive di aggressività (in effetti tipiche dei diverbi di ogni tempo), quanto nella tendenza a mostrare i pugni senza scendere sul ring, a distruggere gli avversari non nell’interazione diretta ma nella nicchia protettiva di un proprio blog o di una propria bacheca Facebook, circondati da consensi confortanti; l’oceano aperto del web è sempre più intasato da cittadelle autistiche, in cui ognuno promuove il suo lavoro, votando alle proprie sorti incessante fiducia, e riservando viceversa a quelle complessive della critica un disperato pessimismo, condito beninteso di struggente nostalgia per le perdute età dell’oro.
E questo è il rischio peggiore. Siamo partiti da lì: riguardato da vicino l’oro di quelle età ne mostra di screpolature, le lacerazioni e le incertezze del passato tornano a galla. Il che può aiutare non a rivalutare l’attualità, ma a situarla in prospettiva meno catastrofica: a vederla, anziché come fase di declino irreversibile, come un lungo momento di transizione, di sicuro impervio, forse ancora fertile.
Storicizziamo i nostri orizzonti ideologici
Critica dove sei. Ultima puntata di un dibattito, che assume come non casuale la coincidenza tra rinuncia alla pratica della teoria letteraria e ratifica politica dell’esistente
Mimmo Cangiano Manifesto 10.6.2018, 6:00
Un giorno mi imbattei nella pagina web del docente di una famosa università, fino a pochi anni prima attivo come francesista, esperto di Balzac: appariva sulla home page guardando in camera, e nelle mani protese verso l’obiettivo reggeva un cervello umano (spero in polivinile). Fu il mio primo incontro con le Neurohumanities, quella disciplina che, qualche mese dopo, Fredric Jameson avrebbe definito, con la sua consueta ironia, «nuovo materialismo pre-dialettico». Intorno si attardavano le sirene di un decostruzionismo malamente mischiato ai Cultural Studies.
Nessuna speranza di oggettività era lasciata sopravvivere: tutto si risolveva nel sintagma «costrutto sociale», tribunale supremo che, per un malcelato equivoco, deponeva le armi solo davanti alla sacrosanta libertà individuale (l’io, io!) di riconoscersi parte di uno di quei gruppi che formano le identity politics. Se un amico alla guida correva un po’ troppo, «vai tranquillo – gli si diceva – che tanto la morte è un costrutto sociale!».
Fra il preteso oggettivismo con il quale si elargiscono i fondi di ricerca a intellettuali neo-positivisti che fantasticano di non essere subalterni a nessuno (e intanto si accodano allo spirito del tempo) e la deregulation epistemologica incapace di riconoscersi a sua volta come dipendente dalle spinte oggettive della prassi storica, la critica letteraria vivacchia in forma di residuo formale di ideologie e formazioni sociali storicamente perdenti. Il suo destino sembra, oggi, quello di decadere a prodotto culturale meritevole di un po’ di compassione, qualche disprezzo e molta nostalgia.
Non c’è una sola ragione storiografica a determinare il campo della crisi, in primo luogo perché questa si origina da una serie di fattori che si dispiegano su coordinate storiche assai differenti e lontane. Quello che resta il fulcro del nostro ingresso nella modernità, il decadimento del concetto retorico-imitativo di modello, non spiega le condizioni attuali. Il passaggio da ciò che Jacques Rancière chiama «regime mimetico», fondato su una affinità fra contenuti e loro rappresentazione, a quello che chiama «regime estetico» (avvenuto grosso modo nel primo Novecento) ha intaccato solo in parte la capacità del critico letterario di farsi interprete e guida del gusto (e ovviamente dei valori retrostanti).
Le ragioni di un declino
L’indebolimento stesso del mandato sociale conferito all’intellettuale tradizionale, avvenuto negli stessi anni, è stato bypassato attraverso una serie di accorgimenti culturali che hanno rilanciato il ruolo del critico all’interno di una società allargatasi e dunque bisognosa di rimodulare le proprie operazioni riguardo allo sviluppo ideologico e al consenso.
La formazione dei gruppi intellettuali (i Manifesti), le azioni collettive a difesa di un nucleo poetico o interpretativo, l’idea di «impegno» nel dopoguerra, vivono tutti – con obiettivi e letture differenti del reale – della stessa necessità di riformulare il ruolo dell’intellettuale e di mantenere vivo il contatto (sia anche il caso contro-egemonico del nazional-popolare di Gramsci) fra valori ideologici ed estetici, vale a dire fra i valori estetici e la percezione culturale del reale.
La cosiddetta «fine delle grandi narrazioni» ha certo minato seriamente i procedimenti ideologico-culturali che avevano permesso alla figura dell’intellettuale di sopravvivere, sebbene con un mandato sociale ridotto, erodendo la forza del campo umanistico e creando la definitiva e gerarchica separazione fra i nuovi veicoli di trasmissione ideologica (televisione, giornalismo, internet, letteratura di consumo) e gli spazi tradizionali (l’accademia, le riviste specialistiche, e così via). Mentre il campo sociale e quello scientifico sono riusciti a instaurare un rapporto stabile con le aree culturali destinate alla produzione del consenso, il campo umanistico «alto» ha smarrito il contatto con i nuovi veicoli preposti alla sua diffusione.
Persa definitivamente la sua ragione sociale, l’intellettuale si ritrova così bloccato in uno spazio di produzione ideologica (la torre d’avorio dell’università) che, separato da quello che Gramsci avrebbe chiamato il suo inveramento sul piano del consenso, finisce per dubitare di sé, riconoscendosi come falsa coscienza. Con queste premesse, a quello stesso intellettuale restano più o meno due scelte: o si auto-estrania, come Harold Bloom che continua a difendere, contro tutto e contro tutti, il valore del canone, oppure muove (lo si vede negli Stati Uniti) verso le scienze dure, è appunto il caso delle Neurohumanities, o verso le scienze sociali, ed è il caso dei Cultural Studies.
Se la critica letteraria è entrata in crisi, lo si deve a due ragioni in stretto rapporto tra loro: da un lato, a venire compromesso è stato il ruolo del sapere umanistico «alto» nella costruzione ideologica del consenso, quando sono decadute le grandi costruzioni ideologiche a quello collegate; dall’altro è crollata la necessità di appoggiarsi ai valori estetici nella costruzione delle direttive ideologiche e in quella del consenso. In questo senso, la crisi della critica è davvero, come voleva Guido Guglielmi, crisi della letteratura: non perché una discenda dall’altra, ma perché le coordinate storiche del loro declino sono le stesse. E trincerarsi nella difesa di una qualche superiorità del sapere umanistico tradizionale fa sentire chiusi nelle fattezze un po’ ridicole di un «cavaliere dalla triste figura».
A proposito di idee dominanti
Diversamente da altri saperi, la critica letteraria ha ancora la possibilità di dare un contributo, che in parte si origina dalla necessità stessa di riconoscersi in crisi, e che non può non tenere conto del fatto che le forme dell’interpretazione sono soggette alla storia, dunque alla dialettica che intrattengono con le trasformazioni sociali. Di fronte a un oggettivismo che si pretende naturale e a un anti-oggettivismo che, esasperando il proprio limite, inevitabilmente lo colloca fuori dalle possibilità di trasformazione del reale, forse la critica letteraria potrebbe tornare a un esercizio che, soprattutto in Italia, le è riuscito molto bene: storicizzare i precedenti orizzonti ideologici.
Storicizzare i precedenti orizzonti ideologici non è mero culto dell’antiquariato né semplice conservazione, ma serve a rivelare la natura storica e fenomenica degli orizzonti ideologici e delle conformazioni sociali, passate come presenti. E a ricordare che «le idee dominanti sono in ogni epoca le idee delle classe dominante».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento