domenica 10 settembre 2017
La geopolitica di Tim Marshall: le 10 mappe che spiegano il mondo
Risvolto
Per comprendere quel che accade nel mondo abbiamo sempre studiato la politica, l’economia, i trattati internazionali. Ma senza geografia, suggerisce Tim Marshall, non avremo mai il quadro complessivo degli eventi: ogni volta che i leader del mondo prendono decisioni operative, infatti, devono fare i conti con la presenza di mari e fiumi, di catene montuose e deserti. Perché il potere della Cina continua ad aumentare? Perché l’Europa non sarà mai veramente unita? Perché Putin sembra ossessionato dalla Crimea? Perché gli Stati Uniti erano destinati a diventare una superpotenza mondiale? Le risposte a queste domande, e a molte altre, risiedono nelle dieci fondamentali mappe scelte per questo libro, che descrivono il mondo dalla Russia all’America Latina, dal Medio Oriente all’Africa, dall’Europa alla Corea. Con uno stile chiaro e una prosa appassionante, Marshall racconta in che modo le caratteristiche geografiche di un paese hanno condizionato la sua forza e la sua debolezza nel corso della storia e, così facendo, prova a immaginare il futuro delle zone più calde del pianeta.
L’invalicabile vincolo della natura nei rapporti di potere mondiali
Simone Pieranni Manifesto 21.7.2017, 17:31
Perché secondo Tim Marshall, autore de Le 10 mappe che spiegano il mondo (Garzanti, pp.313, 19 euro) ogni sera, prima di addormentarsi, il leader russo Vladimir Putin chiederebbe a Dio: «Perché non hai messo un po’ di montagne in Ucraina?». Perché, se queste montagne ci fossero, Putin dormirebbe sogni più tranquilli dato che «quella sterminata prateria che è la pianura nord occidentale non sarebbe un punto di accesso così agevole per chi vuole attaccare la Russia».
LA GEOPOLITICA, intesa come strategia di valutazione dei limiti e delle possibilità imposte dal territorio per ottenere sicurezza o espansione di uno stato, non può fare a meno della geografia. I fiumi, i mari, i monti, i deserti, le giungle, secondo Marshall, storico corrispondente estero della Bbc, incidono molto più di quanto si pensi sui destini del mondo.
Conflitti, o guerre evitate, secondo Marshall, non sempre dipendono da valutazioni di natura politica o economica, ma spesso costituiscono delle scelte obbligate per chi deve garantire la sicurezza di un determinato territorio.
India e Cina, ad esempio, pur avendo uno dei confini più lunghi al mondo, a parte un breve scontro nel 1962 e periodiche scaramucce in qualche punto di questa lunga linea, non sono mai arrivati a una guerra pur non essendo allineati né politicamente né culturalmente. Questo accade «perché li separa la catena montuosa più alta del pianeta ed è praticamente impossibile far passare grosse colonne motorizzate attraverso l’Himalaia».
Con questo esempio Marshall risponde anche a una possibile obiezione: le caratteristiche naturali che attraversano i confini potevano essere determinanti un tempo, ma oggi con l’avvento di tecnologie sempre più sofisticati anche ostacoli naturali possono essere superati con miglior agilità.
MARSHALL ritiene che, pur essendo vera questa obiezione, «la barriera fisica rimane sempre un deterrente». Inoltre, i fattori naturali sono anche gli imprevisti cambiamenti climatici, che diventano un impedimento a spostamenti e tentativi di invasioni o conflitti.
Nel corso del volume Marshall fornisce molti esempi di come la geografia sancisca molte delle scelte di natura strategica degli stati, o obblighi a determinati comportamenti. Dall’Ucraina agli Stati Uniti, dal Tibet all’Artico, dall’Europa al Medio oriente.
DUE ESEMPI evidenziano l’approccio di Marshall al tema. In primo luogo il capitolo sullo scontro tra Ucraina e Russia per quel che riguarda l’annessione di Mosca della Crimea. Marshall scrive: «Per la Russia era una questione di vita o di morte: con buona pace dell’Occidente non poteva rischiare di perdere la Crimea», ovvero il suo storico e unico porto affacciato su acque tiepide.
Il secondo esempio ha a che vedere con il complicato rapporto tra Cina e Tibet. Secondo Marshall sono proprio «geografia e demografia che si oppongono all’indipendenza del Tibet»: se la Cina non controllasse il Tibet, lo farebbe l’India. Così avrebbe le cime più importanti dell’altipiano del Tibet e una base da cui far partire l’invasione della pianura centrale cinese, «oltre al controllo di tre sorgenti di tre grandi fiumi cinesi: il Fiume Giallo, lo Yangtze e il Mekong: ecco perché il Tibet è chiamato il serbatoio della Cina». E la Cina ha gli stessi consumi idrici degli Usa e cinque volte la sua popolazione.
Per questo – secondo l’autore – i cinesi si irritano quando gli occidentali parlano di indipendenza tibetana. Perché secondo i cinesi l’Occidente non capisce che quello della Cina è un comportamento in linea con la necessità di difendere la sicurezza e la sopravvivenza della sua popolazione.
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