domenica 10 settembre 2017

Manguel, la Biblioteca nazionale di Buenos Aires e l'universo mondo

Alberto Manguel, leggendo Borges riaffiora Dante
Nel racconto del direttore della Biblioteca Nacional a Buenos Aires al segretario generale della Società Dante Alighieri l’intreccio delle due grandi della letteratura
Avvenire Alessandro Masi domenica 13 agosto 2017

Io, bibliotecario erede di Borges nella sua Babele 
Alberto Manguel ha preso il posto del suo maestro alla Nazionale di Buenos Aires. Ecco in esclusiva il suo racconto per “Repubblica”

ALBERTO MANGUEL Rep 22 7 2017
Sono alcuni decenni, ormai, che scrivo di lettura, biblioteche e libri, e vivo fra i libri fin da quando ero bambino. All’interno dell’ambasciata argentina (mio padre era nel corpo diplomatico) succedeva molto poco, almeno rispetto alle favolose avventure dei miei personaggi letterari preferiti. Da quando ho imparato a leggere, la complicata esperienza del mondo si presenta a me innanzitutto attraverso le parole, così, quando successivamente mi imbatto nella realtà, ho delle storie con cui definirla. Tutto quello che mi è successo è successo prima in un libro. In ogni luogo in cui ho vissuto (e ho vissuto in tanti luoghi) ho allestito una biblioteca, ma, nonostante questa successione di biblioteche
non sono mai stato un bibliotecario. Le mie biblioteche erano prive di cataloghi, le sezioni erano stravaganti, l’ordine casuale, in parte alfabetico e in parte dovuto a ragioni oscure che spesso dimenticavo. Eppure sapevo sempre come trovare un libro, perché ero l’unico utente.
Poi, nel novembre del 2015, tutto è cambiato. Ho ricevuto un messaggio dal nuovo ministro della cultura argentino, che mi ha offerto il ruolo di direttore della Biblioteca nazionale. Avevo lasciato l’Argentina nel 1979; all’epoca avevo ventidue anni ed ero ansioso di viaggiare. Ero tornato qualche volta, senza mai viverci, però. Di recente, io e il mio compagno ci eravamo stabiliti a New York, dove insegnavo; e adesso mi chiedevano di lasciare tutto e tornare a Buenos Aires, dopo quasi quarant’anni di assenza.
La città ormai era un’altra, e trovavo difficile guardare le strade e le case di oggi senza ricordare i fantasmi di quello che c’era stato prima, o di quello che immaginavo ci fosse stato prima. Buenos Aires sembrava ora uno di quei luoghi visti nei sogni, di cui credi di conoscere la geografia, ma che continua a cambiare o allontanarsi man mano che cerchi di attraversarlo. La Biblioteca nazionale che avevo conosciuto durante la mia adolescenza era diversa. Si trovava nel quartiere coloniale di Boedo, in calle México, un elegante palazzo ottocentesco costruito per ospitare la lotteria di Stato, ma quasi immediatamente convertito in biblioteca. Borges aveva lì il suo ufficio quando era stato nominato direttore della biblioteca, nel 1955, quando, diceva, «l’ironia di Dio» gli aveva dato in un colpo solo «i libri e la notte». Borges è stato il quarto direttore cieco della Biblioteca, una maledizione a cui intendo sfuggire. Era in questo edificio che mi recavo negli anni ‘60 per incontrare Borges dopo la scuola, e per riaccompagnarlo a casa, dove gli leggevo storie di Kipling, di Henry James e di Stevenson. Dopo essere diventato cieco, Borges aveva deciso di non scrivere più nient’altro che versi, che poteva comporre nella sua testa e poi dettare. Ma una decina di anni dopo tornò sulla sua decisione e decise di cimentarsi di nuovo con qualche racconto nuovo. Prima di iniziare, voleva studiare come i suoi grandi maestri avevano scritto i loro. E così ha finito per scrivere due delle sue migliori raccolte: Il manoscritto di Brodie e il Libro di sabbia.
La biblioteca che ho scoperto mezzo secolo dopo ora è ospitata in una torre gigantesca progettata nello stile brutalista degli anni ‘60. Borges, passando le sue mani sul modellino dell’architetto, lo liquidò come «un’orrenda macchina da cucire». L’edificio dovrebbe rappresentare un libro posato su un enorme tavolo di cemento, ma la gente lo chiama l’Ufo, un corpo alieno atterrato fra graziosi giardini.
Fino al 2000, la biblioteca ospitava trecento dipendenti; la precedente amministrazione ne aveva aggiunti altri settecento, di cui circa duecento nominati nelle ultime settimane del mandato. Solo una piccola percentuale erano bibliotecari: il resto del personale era impiegato in compiti non meglio definiti. Il governo appena eletto aveva dichiarato l’intenzione di «razionalizzare» le istituzioni statali (la Biblioteca nazionale è una di queste) e uno dei primi atti era stato tagliare il numero di dipendenti, tra cui molti bibliotecari professionisti senza i quali la biblioteca non sarebbe stata in grado di funzionare, e che io ho immediatamente reintegrato. Attualmente ci sono circa novecento persone che lavorano nella biblioteca.
La precedente amministrazione aveva concentrato i suoi sforzi su eventi culturali politici e popolari, trascurando gli aspetti tecnici della biblioteca come la catalogazione e la digitalizzazione, tanto che quando sono entrato in carica non ero in grado di dire con accuratezza quanti fossero i libri conservati negli scaffali. «Fra i tre e cinque milioni di documenti », era la stima più attendibile che si poteva fare. La mia priorità è stata riorganizzare le varie sezioni per rendere più efficiente e coerente il lavoro, ad esempio mettendo a capo del reparto stampa e comunicazione una persona anziché due, raggruppando le diverse aree delle acquisizioni, ristrutturando il programma culturale e il dipartimento di ricerca, dando a un settore come gli archivi lo spazio necessario. Soprattutto, sto insistendo per introdurre un programma di lavoro che garantisca l’aggiornamento del catalogo, e un elenco di priorità per il reparto digitalizzazione che ci consenta di accettare commissioni dalle biblioteche provinciali, visto che dovremmo fornire servizi bibliotecnici a tutto il Paese.
La Biblioteca nazionale dovrebbe essere, naturalmente, la biblioteca di tutti gli argentini, ma finora ha servito principalmente gli abitanti di Buenos Aires. Poco dopo il mio arrivo ho iniziato a viaggiare in tutto il Paese per conoscere i bibliotecari provinciali e scoprire quali sono le loro necessità, e stringere accordi per facilitare progetti comuni in un futuro prossimo.
Borges immaginava ogni biblioteca sub specie aeternitatis come universale. In quest’ottica, sto cercando di firmare accordi con varie biblioteche nazionali e universitarie di tutto il mondo, tra cui la British Library e le biblioteche universitarie di Cambridge. Confido che ci riusciremo e che questi accordi ci porteranno a organizzare mostre e seminari congiunti, scambiarci bibliotecari e ricercatori e condividere le collezioni digitali.
Durante l’adolescenza ho cercato di scrivere, senza dubbio sotto l’influenza di Borges, alcune storie fantastiche, ora fortunatamente andate perdute. Mi ricordo che una di queste parlava di un insopportabile saputello a cui il diavolo, in cambio di non ricordo più cosa, affidava la supervisione del mondo. Improvvisamente, questo idiota si rende conto che si deve occupare di tutto contemporaneamente: dal sorgere del sole a ogni pagina di ogni li- bro che viene voltata, ogni foglia che cade, ogni goccia di sangue che scorre in ogni vena, e si sente schiacciato dalla inconcepibile immensità del compito.
Sin dai miei primi libri ho provato il desiderio di mettere in pratica le mie idee sulla lettura e sulle biblioteche. Ora il mio desiderio è stato esaudito fin troppo. Nella vita non ho mai fatto nulla di così impegnativo e travolgente come dirigere la Biblioteca nazionale. Sono diventato, da un giorno all’altro, ragioniere, tecnico, avvocato, architetto, elettricista, psicologo, diplomatico, sociologo, esperto di politica sindacale, programmatore culturale e, naturalmente, bibliotecario. Eppure sono fiducioso, tempo e politica argentina permettendo, di mettere in moto una serie di cose che ci permetteranno di avere, in un futuro non troppo lontano, una Biblioteca nazionale di cui andare orgogliosi.

La democrazia dei nostri sogni tra Platone e lo Stregatto ALBERTO MANGUEL Rep 3 11 2017
Qualunque classico (qualunque dei libri che abbiamo deciso di chiamare classici) getta luce in un modo o nell’altro sulla domanda fondamentale di qualunque cittadino di qualunque società: come costruire una società ragionevolmente giusta e adeguatamente felice? Indicazioni in tal senso le troviamo in Omero, in Virgilio, nel “Don Chisciotte”, in “Cent’anni di solitudine”. Ma forse la guida più chiara, più generosa
per me è La Repubblica di Platone. Come tutti i dialoghi di Platone, è un insieme di idee, sprazzi, suggerimenti, invenzioni su una gran varietà di temi. È soprattutto, come il suo genere letterario indica, una conversazione. Quando lo lessi per la prima volta, da adolescente, rimasi deluso dalla sua mancanza di alterigia e prepotenza: mi aspettavo di trovarmi di fronte a un testo arido, declamatorio, perentorio. Si rivelò l’esatto contrario: un libro ameno, a tratti umoristico, amabile, appassionato, un andirivieni di osservazioni, idee lasciate a metà, giochi verbali degni più di una chiacchierata tra amici che dell’arte oratoria. E in effetti a questo assomigliava La Repubblica, a una di quelle interminabili nottate insonni in cui io e i miei amici, con l’energia intellettuale e fisica che si possiedono solo a sedici diciassette anni, discutevamo del significato del mondo, confessavamo le nostre paure e speranze e cercavamo di trovare soluzione ai grandi problemi politici e metafisici dell’universo, fino a quando il sonno aveva la meglio e ci addormentavamo sul tappeto.
Questo dialogo non ha nulla del rigore accademico che i nostri pregiudizi attribuiscono ai filosofi classici: invece di trovare nella Repubblica un precedente simile alle matematiche strutture retoriche di uno Spinoza o di un Kant, il lettore sorpreso (e riconoscente) trova un lontano antenato degli esilaranti dialoghi logici di Alice nel paese delle meraviglie. Il Socrate di Platone ha qualcosa del Bruco (che pretende che Alice risponda con precisione alla domanda «chi sei tu?») o allo Stregatto (che dice ad Alice, quando lei gli chiede di indicarle la strada, che dipende da dove vuole arrivare), mentre il lettore concorda con le parole di Alice di fronte al Cappellaio Matto: «Mi pare che potreste impiegar meglio il vostro tempo piuttosto che sprecarlo a fare indovinelli senza risposta». È noto che Platone appartiene alla storia della filosofia; tuttavia, per il lettore privo di pregiudizi, il suo vero posto è tra i grandi creatori di personaggi letterari, Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij, Flaubert.
Il punto di partenza della conversazione centrale della Repubblica è questo: «Se assistessimo teoricamente», dice Socrate, «alla nascita di una città, vedremmo anche nascere la giustizia e l’ingiustizia?». Dalla primordiale volontà di condividere e aiutarsi gli uni con gli altri nasce la necessità di un governo composto dai cittadini più intelligenti e capaci: questa aristocrazia si converte nel governo di coloro che riscuotono rendite, a cui succede l’oligarchia, che a sua volta degenera in democrazia – sistema che Platone aborriva – e infine in tirannia, il peggiore di tutti i regimi. La conclusione, che non è veramente una conclusione, è infinitamente triste. «Ma quale delle costituzioni vigenti, secondo te, è appropriata alla filosofia? », domanda uno degli interlocutori. «Neanche una», risponde Socrate. Forse una delle ragioni per cui La Repubblica è uno dei testi che godono di immortalità intellettuale sta nel fatto che non offre risposte e non propone soluzioni, ma mette a nudo i nostri dubbi e le nostre angosce di fondo. Ogni lettore della Repubblica finisce per essere uno dei suoi interlocutori. Anch’io. Nell’arco di oltre cinquant’anni, ho vissuto in mezza dozzina di società. Prima in un’Atlantide inventata partendo da terre confiscate (Israele), poi in una sequela di dittature militari (l’Argentina), più tardi in un’aristocrazia che promuove la separazione delle classi (l’Inghilterra), dopo di che in una colonia mascherata da territorio di oltremare (Tahiti), più tardi ancora, negli anni ‘80, in una fugace democrazia (il Canada), e oggi di nuovo in Argentina, un Paese che ancora sta cercando se stesso. A queste potrei aggiungere numerose microsocietà di cui ho fatto parte, microcosmi in cui si stabiliscono regole di convivenza: club, cenacoli, campeggi, collettività etniche e filosofiche, circoli intellettuali e cenacoli artistici. Molte altre non le conosco: le tribù indigene della foresta, le società tribali del deserto, i popoli nomadi, le famiglie poligame (poliginiche, come i mormoni, o poliandriche, come i tibetani), i comunismi, gli ordini religiosi. Sospetto che, come le società che ho conosciuto, nessuna di queste ultime sia perfetta.
Di fronte alle domande aperte che La Repubblica lascia ai suoi lettori, quali abbozzi di risposte possiamo offrire? Se qualsiasi forma di governo è in qualche modo nefasta, se nessuna società può vantarsi di essere eticamente e moralmente sana, se la politica si rivela implacabilmente un’attività infame, se qualsiasi impresa collettiva si sbriciola in meschinità e viltà individuali, che speranza abbiamo di vivere più o meno pacificamente, vantaggiosamente, rispettandoci e prendendoci cura gli uni degli altri?
La cosa certa è che quasi tutti noi (compreso chi ha commesso le più atroci ingiustizie) sappiamo, come Socrate e i suoi interlocutori, cosa è giusto e cosa no. Quello che ovviamente non sappiamo è come agire con giustizia in ogni momento, collettivamente, come società, e ciascuno per parte sua, come cittadino. Qualcosa ci spinge verso il beneficio materiale e personale, senza tenere conto degli altri; qualcosa di opposto ci attrae verso i benefici più sottili del dono, della condivisione, di ciò che può essere utile non a noi bensì al prossimo. Qualcosa ci conduce a sapere che per quanto possa essere potente la spinta data dall’ambizione di ricchezze, potere e fama, l’esperienza, la nostra e quella del mondo, finirà per mostrarci che di per sé quell’ambizione non vale nulla.
Racconta Socrate che quando l’anima di Ulisse si trovò a scegliere una nuova vita, dopo la morte, «essendo ormai guarita dall’ambizione grazie al ricordo dei travagli passati», cercò la vita di «uno sfaccendato qualsiasi » e «tutta contenta se la prese ». Non è da escludere che questo sia stato il suo primo atto realmente giusto.

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