domenica 10 settembre 2017

Retrotopie di Bauman

RetrotopiaZygmunt Bauman: Retrotopia, Laterza, traduzione di Marco Cupellaro

Risvolto
Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora screditate. Sono gli anni della retrotopia.
La direzione del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici è cambiata: le speranze di miglioramento, che erano state riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reimpiegate nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Con un simile dietrofront il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, si trasforma in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale a quello di vedersi riprenderele cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere-prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato.
La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, potrebbe trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente.

Avanza l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi
di Wlodek Goldkorn Espresso

VIVIAMO IL TEMPO DELLA RETROTOPIA

L’utopia di Tommaso Moro di instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l’individualismo che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una condizione rassicurante e nell’unica prospettiva accettabile

di ZYGMUNT BAUMAN
Ecco — per chi le avesse dimenticate — le parole con cui all’inizio degli anni Quaranta Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia, commentava l’Angelus Novus — da lui ribattezzato “ angelo della storia” — dipinto nel 1920 da Paul Klee: “L’angelo della storia ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. A quasi un secolo da quella lettura, di imperscrutabile e incomparabile profondità, a guardar bene l’opera di Klee si scorge di nuovo l’angelo della storia ad ali spiegate. Ma ciò che forse colpisce di più l’osservatore è il cambio di rotta, come se quell’angelo fosse colto nel bel mezzo di un’inversione di marcia: il volto dal passato si rivolge al futuro, le ali vengono respinte dalla tempesta che, stavolta, spira dall’inferno del futuro ( immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada) verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina). Ma le ali dell’angelo sono schiacciate, adesso come allora, con una violenza tale “ che egli non può più chiuderle”. La possibile conclusione è che in quel disegno il passato e il futuro sono colti mentre si scambiano i rispettivi vizi e virtù registrati da Klee — come ci spiega Benjamin — un secolo fa. Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze non sono ancora screditate.
La nostalgia — dice Svetlana Boym, docente di Letterature slave e comparate a Harvard — “è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia”. Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia da cui si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio, raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna; ma “ nel ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia futurista, si è chiuso con la nostalgia”. Boym conclude diagnosticando “ un’epidemia globale di nostalgia” e avverte: « Il pericolo della nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria » . […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione si avvia a completare il proprio giro. A partire da Moro, le aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un determinato topos ( un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo): ma una volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, individualizzate, privatizzate e personalizzate (“ subappaltate” ai singoli esseri umani che le portano con sé come le chiocciole la propria casetta), adesso tocca a loro essere negate da ciò che avevano coraggiosamente e quasi vittoriosamente cercato di negare. Dalla doppia negazione dell’utopia in stile Tommaso Moro ( prima negata e poi risorta) affiorano oggi “ retrotopie”: visioni situate nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma non ancora morto, e non — come la loro progenitrice due volte rimossa — legate al futuro non ancora nato, quindi inesistente […] La privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “ progresso” e degli sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione e della disciplina, in cambio della rinuncia ai servizi sociali e alla protezione dello Stato. Per tante persone — sempre di più — quella liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai disagi dei vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella condizione di autonomia imposta per decreto. Se la paura di non dare un contributo ( con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al posto dove oggi vige l’autonomia, a quella paura è subentrato il terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati. Mentre le vecchie paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui che, come pedine su una scacchiera, erano ( o si sentivano) condannati alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Un simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi “ riprendere” la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Gli effetti di un simile cambiamento […] si vedono e si toccano a tutti i livelli della convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie di vita che tale visione insinua e prepara.
Il fenomeno che definisco “ retrotopia” deriva dalla negazione della negazione dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al tempo stesso, la retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di “ perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità ( e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori, che l’originaria idea di utopia delegittimava e precludeva a priori. Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria né dalla sua prima negazione. […] Le più significative tendenze di “ ritorno al futuro” che si riscontrano in questa incipiente fase “ retropica” della storia dell’utopia […] ovviamente, non rappresentano un ritorno diretto e immediato a una modalità di vita praticata in passato: sarebbe semplicemente impossibile, come ha ben dimostrato Ernest Gellner. Essi rappresentano invece — per richiamare la distinzione concettuale proposta da Derrida — tentativi consapevoli di iterazione ( e non reiterazione) dello status quo che esisteva, o si immagina esistesse, prima della seconda negazione, sulla base di un’immagine in ogni caso riciclata e modificata significativamente attraverso un processo di memorizzazione selettiva strettamente intrecciata all’oblio selettivo. Come che sia, nel tracciare la strada che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o irresponsabilmente mandati in rovina. Per collocare nella giusta prospettiva l’innamoramento retrotopico per il passato, è opportuno premettere un altro avvertimento. Boym nota che un’epidemia di nostalgia “ spesso segue le rivoluzioni”, e saggiamente aggiunge che nel caso della Rivoluzione francese del 1789 “ non fu solamente l’ancien régime a produrre la rivoluzione, ma anche la rivoluzione, per certi versi, a produrre l’ancien régime, dandogli una forma, un senso di compiutezza e un alone di rispettabilità”. Fu invece il crollo del comunismo a far nascere l’idea che gli ultimi decenni dell’impero sovietico fossero stati “ un’età dell’oro di stabilità, forza e normalità, che è l’immagine oggi prevalente in Russia”. In altri termini, ciò a cui di solito “ torniamo” nei nostri sogni nostalgici non è il passato “ in quanto tale” — wie es ist eigentlich gewesen, com’è stato davvero — , quel passato che Leopold von Ranke raccomandava di recuperare e rappresentare ( come diversi storici hanno cercato di fare, con scarsi consensi). […] Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei “ Ministeri della Verità”, ma non certo il tramonto della “ politica della memoria storica”, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione, reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze.
In ogni caso, la scomparsa dei “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio incontrastato dell’autorità costituita sulle sentenze in materia di veridicità) non ha certo spianato la strada ai messaggi inviati alla coscienza pubblica da chi per mestiere ricerca e comunica la “verità dei fatti”, ma ha semmai reso quella strada ancora più accidentata, tortuosa, infida e incerta. ?
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INSEGUENDO L’ETÀ DELL’ORO 

Non siamo più capaci di immaginare il futuro e allora ci rivolgiamo al passato, alimentando nostalgie e rimpianti. Sono gli anni della ”retrotopia”, termine coniato da Bauman nel suo ultimo lavoro. Eppure è ancora possibile e necessario investire nell’utopia di un mondo migliore, come sostiene il giovane studioso Bregman. Ma a una condizione: quella di essere realisti

di MAURIZIO FERRARIS, illustrazioni di MARÍA CORTE
L’utopia, come la memoria, è selettiva. Sceglie gli aspetti più attraenti del futuro proprio come la memoria seleziona il passato e lo addolcisce. Di qui la stretta parentela fra il rimpianto utopico del futuro e la “retrotopia”, il concetto coniato da Zygmunt Bauman e che intitola il suo libro, l’ultimo ( l’edizione inglese è apparsa nel gennaio di quest’anno, pochi giorni dopo la sua morte), che dunque è difficile non leggere come un testamento spirituale. La retrotopia è una utopia rivolta al passato che guida l’umanità in una fuga dal presente, per far ritorno a una età dell’oro dimenticando che non è tutt’oro quello che brilla. Una sorta di “facciamo l’America nuovamente grande”, lo slogan che ha portato Trump alla presidenza, e in cui la parola vincente è nuovamente, che ricorda — mutatis mutandis — gli Scritti corsari di Pasolini, nei quali il passato rimpianto sin nei suoi aspetti più minuti (il taglio dei capelli, le lucciole) viene fatto coincidere con la giovinezza del retrotopista, indipendentemente dal fatto che quella giovinezza coincidesse con gli anni del fascismo.
Ma prima che dal presente il retrotopista dipinto da Bauman è in fuga dal futuro, dagli ideali illuministici della pace perpetua, del cosmopolitismo e della uguaglianza e soprattutto della uscita della umanità dalla infanzia. La guerra torna a essere la via regia per la soluzione dei conflitti; il World Wide Web ospita tribù, parrocchie, clan che si ignorano a vicenda; l’uguaglianza sociale non solo sembra sempre più lontana, ma ha cessato di costituire un obiettivo desiderabile; e il sommo bene di quello che forse erroneamente è stato definito “animale sociale” è sfuggire al mondo, alle sue responsabilità e alle sue alterità, ritornando al grembo materno. Proprio quest’ultimo ritorno sembra il più carico di conseguenze. Le utopie moderne coltivavano ideali che ( per riprendere un titolo gramsciano) miravano all’edificazione di una città futura, e sostituivano alla salvezza dell’anima nell’aldilà come premio individuale la felicità e la giustizia in questo mondo come conquista collettiva. Le retrotopie ritornano al singolo.
Con grande saggezza, dopo aver illustrato i rischi e gli effetti nefasti delle retrotopie, Bauman ci esorta a mantenere vive speranze e utopie, e soprattutto la speranza che queste utopie valgano per tutti e non per pochi eletti, e dunque incorporino la solidarietà. Atteggiamento con cui non si può non concordare, tanto sotto il profilo etico quanto sotto quello filosofico: non è mai vero che — come pretendeva Margaret Thatcher — “ non c’è alternativa”: l’alternativa c’è sempre, e l’utopia aiuta a trovarla.
Che poi l’alternativa sia quella giusta, e che ci renda felici, è un altro paio di maniche. Concludendo il suo discorso Bauman indica come guida spirituale per il nostro tempo il Papa Francesco I. Chi l’avrebbe detto che la triade libertà, fratellanza e uguaglianza avrebbe trovato il suo più illustre difensore nel Papa? Colui che, due secoli fa, era l’emblema della restaurazione, può essere indicato, da uno studioso laico e illuminista, come l’ultimo guardiano dell’utopia. Questa circostanza suggerisce una riflessione. Non è che le utopie non si realizzano: lo fanno, ma in modi che superano l’immaginazione (e spesso i desideri) degli utopisti. E, una volta realizzate, appaiono meno attraenti, rivelando danni collaterali e costi supplementari che non avevamo previsto.
Si pensi al progresso tecnico e scientifico. Da quando, nel 1516, Tommaso Moro ha coniato il termine “utopia” sino a quando, mezzo millennio più tardi, Bauman le ha contrapposto la retrotopia, non si sono realizzati alla lettera gli strampalati obiettivi che Francesco Bacone assegnava alla ricerca, come far vivere un uomo tre o quattro secoli, inventare purghe al gusto di pesca o di ananas, inventare nuovi veleni, trasportare il proprio o l’altrui corpo con la sola forza della immaginazione, mutare in olio l’acqua delle fontane, inventare mezzi fisici per leggere nel futuro così come più grandi piaceri per tutti i sensi. In compenso, però, si sono realizzate cose all’epoca impensabili, e altre che vanno molto vicine ai sogni di Bacone. Siamo contenti? Ovviamente no, ma possiamo essere certi che se non ci fosse stato il progresso a cui un poco hanno contribuito anche le utopie saremmo molto più infelici di quello che siamo.
Così, le utopie si realizzano più spesso di quanto non si creda, ma in maniere che a volte appaiono irridenti o perverse. Si consideri, ad esempio, che la varietà dei compiti e la mancanza di orari fa della condizione del lavoratore ( di colui che continuiamo a chiamare così, con un vecchio nome che si adotta in mancanza di meglio) la piena — sebbene ironica — la realizzazione dell’umanità finalmente liberata proposta da Marx e Engels nella Ideologia tedesca: quella in cui è possibile “ la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare”, cioè la mattina si viaggia low cost, il pomeriggio si scrive un lungo post indignato contro il crollo delle utopie, e la sera si pubblicano le foto dell’hamburger che stiamo mangiando. Siamo contenti? Anche qui, ovviamente, no; ma anche qui, e non meno ovviamente, chi vorrebbe tornare ai Tempi moderni di Chaplin?
Se le cose stanno così, l’atteggiamento realistico nei confronti dell’utopia non consiste nel negarla ( magari innescando la retrotopia), ma, proprio al contrario, nel riconoscere che le utopie si realizzano più spesso di quanto non si creda, purché ci si impegni in una azione concreta e si mettano in conto i danni collaterali. È il tema su cui si diffonde il ventinovenne storico olandese Rutger Bregman nel suo bestseller Utopia per realisti che merita di essere letto non solo perché è molto presente nelle parti più propositive della analisi di Bauman, ma perché dimostra che molto spesso si considerano utopie ipotesi ragionevolissime, come l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale o il matrimonio tra persone dello stesso sesso che, con il tempo, si realizzano senza rivelare i devastanti effetti indesiderati che gli esseri umani ( questa volta per mancanza di fantasia) vi annettevano.
In base alle esperienze storiche presentate e discusse da Bregman nel suo libro, il reddito di cittadinanza ( proposta su cui converge anche Bauman, e che, insieme alla settimana lavorativa di quindici ore e l’abolizione delle frontiere è il nocciolo della proposta bregmaniana) è tutt’altro che irrealistico, e la sicurezza economica, riducendo l’irrazionalità dei comportamenti dettati dall’incertezza del futuro e dall’impellenza del bisogno, si tradurrebbe in un guadagno economico per l’intera comunità. In altri termini, non è affatto vero che il reale è il contrario dell’ideale: ama sorprenderci, e non è detto che si tratti di brutte sorprese.
Queste utopie per realisti ricordano una circostanza richiamata da Kant nella Critica della ragion pratica. Si direbbe che senz’aria la colomba, simbolo dell’azione morale, volerebbe meglio, ma in effetti non è così: non volerebbe affatto perché proprio l’attrito del reale permette alla colomba di volare e all’utopista di sperare, facendo emergere cose che noi umani non avremmo potuto immaginare. Perché se il vago fa sognare, anche il determinato ha i suoi vantaggi.
Cosa resta, dunque, dell’utopia? Anzitutto la consapevolezza che, come l’orrore, l’utopia è tanto un genere letterario quanto un elemento imprescindibile dell’esistenza di ognuno di noi così come della gestione delle speranze collettive. Oltre che dotati di linguaggio e tendenti alla socievolezza, gli umani sono animali speranzosi sebbene ( lo abbiamo visto) un po’ limitati e prevedibili nelle loro aspirazioni. Una versione propositiva del “fermate il mondo, voglio scendere”, che ci fa pensare fuori del qui e dell’ora, e più esattamente ci fa dire “ non qui, non ora”. Ossia l’immaginazione, il pensare a dei mondi futuri invece che il rimpiangere dei mondi passati.
Dunque, come ci insegnano le retrotopie descritte da Bauman, è molto meglio che l’utopia si rivolga al futuro, per il banale motivo che niente ritorna mai come prima, e c’è il rischio concreto che non solo le tragedie ritornino come farse, secondo il collaudato copione studiato da Marx ma, ancor peggio, che le farse ritornino come tragedie, per esempio nel sequel di Stranamore a cui stiamo assistendo in questi giorni con le vicende dell’atomica coreana.
Adorno ricordava come il giusto atteggiamento nei confronti della felicità sia la gratitudine: quando eravamo felici, non lo sapevamo; lo sappiamo ora che non lo siamo più, ma dobbiamo essere riconoscenti verso quei momenti. Qualcosa del genere, a mio parere, vale per l’utopia: dobbiamo considerarla come ciò che, nel presente, ci chiama verso un non qui e un non ora, verso una possibilità che non c’è ancora, e che forse non ci sarà mai, ma di cui, con uno strano anacronismo, abbiamo già nostalgia. Quella nostalgia che spinge ad azioni concrete, e non a sparate da napoleoni della tastiera. ? © RIPRODUZIONE RISERVATA

MA CI SERVE ANCORA UN MONDO IDEALE 

Reddito garantito, frontiere aperte alle migrazioni e riduzione dell’orario di lavoro: l’autore di “Utopia per realisti” Rutger Bregman spiega le ragioni per cui è necessario tornare a immaginare una società diversa (e possibile). “La narrazione della sinistra è sempre contro qualcosa.

Ma Luther King diceva di aver fatto un sogno, non un incubo”
di SIMONETTA FIORI
Era impensabile fino a qualche anno fa che l’utopia potesse diventare bestseller. E fa riflettere che a firmare questo piccolo miracolo editoriale sia uno studioso non ancora trentenne. Il nuovo Mister Utopia si chiama Rutger Bregman, è nato nel 1988 in una piccola città turistica della Zelanda (Paesi Bassi) e vanta una formazione storica tra l’Accademia di Utrecht e l’Università di Los Angeles. Fisico asciutto e barbetta bionda, tiene lezioni- spettacolo in giro per l’Europa. Se gli domandi perché abbia pensato di cimentarsi con un modello ideale un tantino desueto, consegnato dal Novecento nel retropalco degli orrori, la sua risposta rivela un cambiamento nello zeitgeist contemporaneo. «Sono nato un anno prima della caduta del Muro. E sono cresciuto in un’epoca in cui la gente cominciava a pensare che la storia fosse finita, la stagione delle grandi narrazioni tramontata. E che essere di sinistra significasse occuparsi soltanto della crescita economica e del prossimo iPhone. Ho sempre avuto la fastidiosa sensazione che ci fossimo perduti qualcosa». Dalla ricerca di questo qualcosa è nata la sua nuova filosofia.
Qual è l’appello lanciato da Utopia for realists, uscito inizialmente sul giornale olandese De Correspondent e tradotto ora in Italia da Feltrinelli? Il male di oggi, la passione triste che ci accompagna nell’Occidente dell’abbondanza, è la totale assenza di nuovi orizzonti. Oggi siamo più ricchi, più longevi, più colti, più sani rispetto a cinquant’anni fa ma non siamo più capaci di sognare. «Nel Paese della Cuccagna non c’è spazio per le utopie», sostiene Bregman. «Ci accontentiamo del benessere raggiunto senza aspirare a nuovi traguardi. Ma le utopie sono necessarie perché spalancano le finestre della mente. E alla stregua dell’umorismo e della satira accendono l’immaginazione». Naturalmente Bregman sa bene che — a differenza dell’umorismo e della satira — le utopie sono terreno fertile anche per litigi, violenze, genocidi. « La storia è piena di varianti orribili di utopismo — il fascismo, il nazismo, il comunismo — proprio come ogni religione ha generato le sue sette fanatiche. Ma se un fanatico religioso invita alla violenza, dobbiamo automaticamente scartare l’intero credo? Dovremmo smettere definitivamente di sognare un mondo migliore? » . Senza l’utopia, in sostanza, siamo perduti. E se non fosse stato per i sognatori del passato, oggi saremmo tutti più poveri, affamati, sporchi, stupidi, malati, brutti e spaventati. «Ci pensi un momento: le pietre miliari del progresso civile una volta erano soltanto fantasie. La fine della schiavitù. La democrazia. La nascita del welfare state. Cos’erano un tempo se non un’accensione utopica? L’aveva già detto Oscar Wilde: il progresso altro non è che il farsi storia delle utopie».
Non sappiamo se Utopia for realists diventerà la bibbia di un nuovo credo. Sappiamo però che in Olanda ha dato vita a un movimento politico. E in Gran Bretagna è stato accolto con curiosità, ricevendo gli elogi di Zygmunt Bauman, che l’ha letto proprio mentre lavorava al suo ultimo saggio. «Quando ho finito di scrivere il libro, mi sono procurato la sua mail per farglielo leggere » , racconta Bregman. « Il giorno dopo nella mia posta elettronica c’era già il suo messaggio: “Grazie! Ora alla mia diagnosi della malattia potrò affiancare la tua prescrizione per la terapia…”. Il saggio a cui si stava dedicando era proprio Retrotopia. Il problema del pensiero utopico contemporaneo è quello di guardare al passato, non al futuro. Retrotopia, appunto. Ed è esattamente l’impostazione che ho cercato di cambiare con il mio libro».
La nuova utopia celebrata da Bregman aspira a sradicare la povertà con il reddito universale di base. E a ridurre la settimana lavorativa a quindici ore per permettere a uomini e donne di occuparsi della famiglia e della collettività. E vagheggia soprattutto l’abbattimento di confini e barriere per accogliere i popoli migranti. Tutte proposte che alla fine del libro lo stesso autore non esita a definire «folli», benché supportate da una nutrita galleria di esempi storici anche inediti. Non sarà, mister Bregman, che valgono più come provocazioni che come indicazioni concrete? «So bene che politicamente parlando, e a breve termine, le mie idee potrebbero risultare non molto realistiche. Ma penso che il compito dell’intellettuale sia proprio rendere realistico l’irrealistico, e inevitabile l’impossibile. Gandhi ammoniva: prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci». Ma non crede che nei paesi colpiti da crisi economica e disoccupazione il sogno più grande sia ottenere un lavoro più che la settimana corta? « No » , replica Bregman. « Il sogno più grande sono i soldi e la dignità che un lavoro ti garantisce. Ma purtroppo il nostro sistema economico ti costringe a lavori mal pagati che non ti danno sicurezza né dignità».
Al di là della realizzabilità o meno delle proposte, l’interesse di Utopia for realists è soprattutto nel ritorno alla politica da parte d’una generazione che lo stereotipo vorrebbe apolitica. Perché l’utopia configurata nello spigliato pamphlet olandese altro non è che l’invocazione d’una politica intesa come passione ideale e non amministrazione dell’ordinario. «La politica è stata annacquata fino a diventare gestione dei problemi » , dice Bregman. « E gli elettori oscillano non perché i partiti siano diversi tra loro ma perché si stenta a distinguerli l’uno dall’altro». Il vero bersaglio di questa nuova bibbia utopica è la sinistra che «sembra essersi dimenticata l’arte della politica», ossia la capacità di immaginazione. «Siate realisti, chiedete l’impossibile » era il grido di battaglia del Sessantotto. «Oggi la sinistra mette a tacere le idee più radicali per la paura di perdere voti. È quello che io definisco il fenomeno del socialismo perdente». L’idea portante del socialista perdente, aggiunge lo studioso, è ritenere i neoliberisti imbattibili sul piano della ragione e delle statistiche, così alla sinistra rimangono solo le emozioni. «Il suo cuore è sempre nel posto giusto, ma quando il gioco si fa duro il socialista perdente si piega sistematicamente alle tesi del suo oppositore, accetta sempre le sue premesse».
Il guaio più grande del socialista perdente è che risulta « terribilmente noioso » . Non ha una storia da raccontare, né un linguaggio per narrarla. « Ma attenzione, con questo non intendo una narrazione che stuzzichi qualche fighetto. Intendo dire che oggi la sinistra europea sa dire solo cosa non è. E contro chi è. Contro l’austerity. Contro l’establishment. Contro l’omofobia. Contro il razzismo. Contro ogni cosa! Noi invece abbiamo bisogno di essere a favore di qualcosa. Abbiamo bisogno di immaginare una società diversa e di dare alla gente una speranza. Martin Luther King non diceva: “ Ho avuto un incubo”. Diceva: “ Io ho fatto un sogno” » .
Se è vero che ogni utopia nella storia ha sempre rivelato qualcosa sull’epoca in cui è stata pensata, cosa rivela di noi l’utopia di Rutger Bregman? «Un mondo con una profonda crisi di senso. Pensi al numero crescente di persone che percepiscono il proprio lavoro come superfluo, sostanzialmente inutile. Un antropologo della London School of Economics li ha definiti “ lavori burla”. Addetto al telemarketing, social media manager, consulente di pubbliche relazioni… E questi mestieri inutili sono generalmente i più pagati » . Il suo malumore deve essere condiviso da molti se i diritti del libro sono stati comprati da ventuno paesi, tra cui il Brasile, gli Usa, la Cina, il Giappone e la Corea.
Lei come spiega il successo internazionale di Utopia for realists?
«Fino a pochi anni fa mi sentivo intellettualmente isolato, ma oggi sono milioni di persone nel mondo a pensare a un’alternativa radicale. Specialmente dopo l’ascesa di Trump e la rottura di Brexit è evidente che non possiamo restare attaccati allo status quo. Ogni crisi è un’opportunità. Ed è nei momenti di crisi che attecchiscono nuove idee». ? © RIPRODUZIONE RISERVATA

Quando il nodo dell’ambivalenza si scioglie

Zygmunt Bauman. «Retrotopia» (Laterza), il volume del sociologo polacco che suona come un denso testamento intellettuale. Il mondo ricorda le società medievali europee e non gli albori della modernità capitalistica. Le tribù digitali si compongono di identità posticce che al «noi» preferiscono conflitti e singolarità Benedetto Vecchi Manifesto 7.10.2017, 0:04
Non è dato sapere se Zygmunt Bauman volesse correggere, modificare il manoscritto pubblicato con il titolo Retrotopia dall’inglese Polity Press, in Italia, da Laterza, la casa editrice che ha curato e tradotto gran parte della sua prolifica produzione teorica (pp. 181, euro 15).
È però un testo che può essere letto come un «testamento» del sociologo polacco e in cui è evidente un cambiamento radicale nel disegno del mosaico sulla società contemporanea, costruito in oltre trentanni. Alla fine degli anni Ottanta del Novecento, lo studioso ha voluto chiamare tale occorrenza «modernità liquida».
Per Bauman, è noto, sono evaporate come neve al sole le solide istituzioni del vivere in società emerse in secoli di conflitti sociali, guerre tra stati, ambiziosi progetti di plasmare l’«uomo nuovo» facendo leva sullo stato nazionale.
DISSOLTE certo, tuttavia per essere sostituite da un flusso più o meno tumultuoso di soggettivià, stili di vita, consuetudini. Un fiume che può essere certo incanalato – questo compito Bauman lo assegna al consumo – senza mai dare vita a istituzioni stabili nel tempo e nello spazio. Tutto è cioè transitorio e, come dettagliava, ambivalente. Il sociale della modernità liquida è cioè aperto a un esito di liberazione e di libertà, ma anche di oppressione e di conferma a una condizione di subalternità.
La potenza performativa di questo incessante flusso di stili di vita, modi d’essere si manifesta proprio grazie a questo carattere di equivocità. Al tema dell’ambivalenza Bauman ha dedicato proprio uno dei suoi libri teoricamente più impegnativi e rilevanti (Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri) nel quale partiva dalla convinzione che da sempre i fenomeni sociali possiedono questa cifra di duplicità, doppiezza e che storicamente era stato compito della Politica, e della sua forma più cogente di sodalizio con il potere, lo Stato nazione, sciogliere il nodo, dare forma a un progetto per costruire la «buona società».
Piuttosto conosciuta è l’immagine del giardiniere usata da Bauman per esemplificare il ruolo svolto dallo Stato nella modernità «solida». Ma tale possibilità di immaginare e operare per il buon vivere è venuta meno con la globalizzazione economica, che ha esautorato la politica e lo stato-nazione dal loro storico ruolo di protagonisti della trasformazione. Rimane dunque solo il flusso di desideri, sentimenti nella loro ambivalenza, che tale deve rimanere altrimenti viene meno quella spinta al consumo compulsivo che rende possibile la riproduzione dell’economia di mercato, la costante imprescindibile affinché la globalizzazione continui la sua corsa verso la fine della storia.
IN RETROTOPIA, tuttavia, Bauman avverte che qualcuno ha sciolto il nodo dell’ambivalenza e ciò che era liquido comincia a manifestare inequivocabili segni di solidificazione in nuove istituzioni, in nuove forme di vita elette a dispositivi normativi, dunque giuridici e politici. Di fronte al caos programmatico della globalizzazione, assistiamo cioè all’invocazione di un ritorno al passato. Parafrasando Walter Benjamin, L’Angelus Novus della Storia non guarda al passato mentre è spinto verso il futuro, bensì guarda al passato come una condizione verso la quale tendere, muoversi, perché garantisce la possibilità di reinventarlo, modificarlo, renderlo appetibile: in altre parole, il ritorno al passato coincide con la possibilità di un buon vivere negato da una globalizzazione che non ammette alternative.
Retrotopia è quindi una utopia rovesciata dove è il passato che scandisce il mondo perfetto. Nella realtà contemporanea non può esserci spazio per l’utopia; sorte migliore non capita neppure al suo fratello minore, il progresso, che è segregato dalla globalizzazione nel regno dell’impossibile.
IL PASSATO INVOCATO con nostalgia nella contemporaneità è tuttavia un tempo immaginato, che non è cioè mai esistito e coincide, per Bauman, con un ritorno a Thomas Hobbes. Ma all’orizzonte non c’è un Leviatano che imporrà un ordine e una sicurezza agli appartenenti di una nazione. Quello che accade è infatti la proliferazione di microentità statali incardinate su un tribalismo dove le appartenenze sono cangianti, mutevoli, effimere. L’individualismo imperante impedisce infatti la crescita di identità collettive per lasciare spazio a identità personali costruite come un patchwork disordinato e contraddittorio. È un tribalismo che non si fonda però sul binomio «suolo e sangue». Ne parla spesso il linguaggio, ma si manifesta con forza laddove fornisce a un «pubblico» accomunato solo da precarietà esistenziale e lavorativa, frammenti di quel passato immaginato e verso il quale folle di uomini e donne insoddisfatte, risentite, rancorose e infelici vogliono tendere.
Dunque, più che un ritorno a Hobbes, il mondo disegnato da Bauman ricorda le società medievali europee che non gli albori della modernità capitalistica. Quello presentato in questo libro è però un medioevo digitale – frequenti sono i riferimenti alla critica di Umberto Eco alla comunicazione on line. La Retrotopia costituisce allora la soluzione all’ambivalenza della «modernità liquida» e del suo imprescindibile individualismo radicale.
Il punto di sutura tra tribalismo e individualismo è dato da quella filosofia manageriale che postula l’imperativo a una privatizzazione radicale del welfare state e dell’attivazione del singolo a «produrre innovazione». Le tribù si costituiscono dunque nella contingente distinzione tra un noi e un loro definiti a partire da identità posticce e destinate ad essere sostituite in un processo vorticoso da altrettante identità farlocche.
UN LIBRO AMARO, disincantato, ma che ha l’indubbio merito di sgomberare il campo da un equivoco che ha tuttavia rappresentato la fortuna editoriale di Bauman – spesso usato come un pensatore da citare nei salotti à la page quando la conversazione langue o come carburante per alimentare i flame e le turbolente conversazioni da social network. Un testo, c’è da sperare, che possa aiutare a ricostruire un percorso teorico mai lineare, sempre contraddittorio, mai messianico, da sottoporre costantemente a critica.
Il merito della sua opera è di aver messo a tema la crisi della scienze sociali e l’intera costellazione politica del capitalismo emersa dalle ceneri della seconda guerra mondiale, prospettando tuttavia la necessità di una politica democratica e riformista che facesse tesoro, questa la convinzione di Bauman, della più grande invenzione politica del Novecento, il welfare state. Già, perché Bauman ha scritto molto ed affermato tante cose ma una cosa non può certo essergli rimproverata: essere stato un opinion maker buono per tutte le stagioni.

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