giovedì 5 ottobre 2017

Le mani di Repubblica sull'Ottobre russo: l'undicesima parte del reportage di Ezio Mauro


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Cronache di una rivoluzione /11 2017 1917

Tecnica del colpo di Stato 

Il 24 ottobre in una San Pietroburgo sospesa da giorni sul bordo dell’inevitabile, il destino della Russia si compie. Trotzkij decide che non serve più aspettare
EZIO MAURO Repubblica 4 10 2017
SAN PIETROBURGO Brutto segno quando i ponti sulla Neva si alzano e si abbassano come quel 24 ottobre sulla confusione della città, piena di domande e di paure, divorata dall’attesa nervosa di un’ora fatale ma sconosciuta, da giorni sospesa sul bordo tormentato dell’inevitabile. Sembra che sul fiume tutto debba cominciare e tutto debba finire, come se Pietroburgo dovesse realizzare qualche superstizione slava nel momento supremo, visto che la storia dell’antica Rus’ è sorta dalle acque del Dnepr. Così quel giorno, per isolare dal centro il quartiere operaio di Vyborg, vera caldaia della rivoluzione, il governo solleva i collegamenti. Il Soviet manda i reparti di Guardie Rosse e soprattutto fa muovere nelle acque della Neva l’incrociatore “Aurora”, che da tre giorni è entrato nel fiume dove aspetta gli ordini bolscevichi. I ponti tornano a funzionare e diventano così l’immagine pubblica di un potere che sta passando di mano, davanti agli occhi febbrili di una città ipnotizzata dalla sua stessa sorte, che compiendosi cambierà il destino del Paese. Sono le due di notte quando quattro distaccamenti militari attraversano curvi il buio di quei ponti per attaccare il sistema circolatorio della capitale. Senza consultare Lenin, Trotzkij ha deciso che non serve più aspettare. Scende alla stanza 17 dello Smolnyj e dal Comitato Militare Rivoluzionario parte l’ordine che darà il via alla rivoluzione, mentre Antonov-Ovseenko segna con un cerchio sulla mappa della città il primo obiettivo. È la centrale del telegrafo, il vero mezzo di comunicazione della modernità, attraverso cui sono passati in quei mesi l’ultimatum della Duma, la ribellione dei generali, l’abdicazione dello Zar, l’illusione bonapartista di Kerenskij, il tentativo di golpe di Kornilov, la disperazione solitaria della Zarina, l’intero discorso politico russo del 1917.
È il primo assalto perché è il più difficile, le forze governative presidiano il portone. Ma attorno, in un semicerchio visibile, c’è già da due ore il reggimento Keksholmskij, in mano ai bolscevichi. Hanno individuato un ingresso laterale, nel buio il commissario rivoluzionario Stark forza il cancello, 35 uomini guidati dal marinaio Savin penetrano all’interno, mostrano le mitragliatrici alle finestre mentre un’altra squadra sale sulla casa di fronte per tenere di mira l’ingresso e i soldati. Ma non c’è bisogno di sparare e il telegrafista del reparto alle 2,30 del mattino può dare il via libera allo Smolnyi: «Siamo entrati, è nostra ». Lo stesso messaggio arriva pochi minuti prima dalla centrale dei telefoni, che il governo aveva provato a occupare, e che ora è sgombra. Poi tocca alla centrale elettrica, a quella dell’acqua, ai gasometri, agli arsenali, ai silos della frutta e della verdura, ai magazzini della carne, al primo ufficio postale della città, alla banca di Stato.
Le squadre dei guastatori bolscevichi, del genio, dei ferrovieri, stanno attaccando le stazioni, prima fra tutte la Nikolaevskij, conquistata in quindici minuti, mentre una compagnia del reggimento della guardia Semenovskij prende il controllo della tipografia dove si stampa il giornale della destra Russkaja Volja, e dove da domattina si dovrà pubblicare il quotidiano dei bolscevichi in formato gigante. Il battaglione chimico conquista le chiavi dei depositi di armi, il reggimento Pavlovskij tiene d’occhio con i suoi esploratori lo stato maggiore di Pietrogrado, un reparto della riserva segue da vicino gli junker, allievi ufficiali, e li disarma, mentre le Guardie Rosse piazzano le autoblinde nelle piazze e le mitragliatrici agli incroci sui balconi.
Non c’è conflitto, si sente nel buio qualche scoppio di granata lanciata per intimorire i soldati prima dell’assalto agli edifici, come le raffiche sporadiche di mitragliatrice sparate in aria ad aprire la strada. Dovunque, i rivoluzionari entrano negli edifici, salgono le scale, occupano le stanze e gli uffici. La città si apre una porzione alla volta, consegnandosi. Alle 3 sul canale militare del telegrafo il comando regionale lancia il primo allarme: «La capitale è in uno stato terrificante. Le strade sembrano tranquille, senza truppe e disordini, ma i soldati fuggono, mentre vengono occupate le stazioni, i ponti e le centrali. Nessuno può dire che non verrà attaccato il governo ». Mezz’ora dopo, messaggio dal ministero della Guerra: «O arrivano rinforzi dal fronte o non riusciremo a difenderci».
Eppure i ministeri resistevano integri e deserti, Palazzo d’Inverno – col suo generatore autonomo – brillava intatto nel buio, come se fosse una notte tranquilla e non l’inizio della fine. Era la tattica di Trotzkij. Mentre Lenin fin da Zurigo studiava le operazioni di von Clausewitz annotando Della guerra, prendeva appunti dal Combattimento nelle strade del generale Cluseret, ripeteva alla Krupskaja che solo una vera guerra civile «potrà liberare l’umanità dal giogo del capitale», ironizzava sui compagni rivoluzionari «che per mesi parlano di bombe senza averne mai fabbricata una sola», Lev Davidovic giocava a tavolino la sua partita con il governo sulla grande scacchiera della città. Una partita cerebrale, una manovra strategica, un esercizio tattico.

Il Soviet manda i reparti di Guardie Rosse e fa muovere l’incrociatore Aurora Non c’è conflitto
Si sente nel buio qualche granata lanciata per intimorire

Convinto che non è la massa ma l’organizzazione che porta al successo l’insurrezione, aveva cominciato dividendo la città in settori, affidandoli ognuno a uno stato maggiore, con una sua squadra di Guardie Rosse, ciascuna collegata alle compagnie militari di quartiere. Poi aveva individuato gli obiettivi: non i palazzi del potere politico, dov’era asserragliato ciò che restava dello Stato, ma la mappa fisica dei servizi, che danno e tolgono l’ossigeno quotidiano alla capitale, regolando l’intero sistema. In quell’ottobre ’17 Trotzkij ribalta così la logica rivoluzionaria, scartando lo scontro frontale, evitando il conflitto diretto, rimandando la presa dei luoghi simbolici del comando perché in una concezione modernissima vede la città-Stato come un organismo sistemico, un meccanismo tecnico, un congegno operativo complesso, ma smontabile nei suoi pezzi e ricomponibile a piacere. Le sedi della politica e delle istituzioni potevano rimanere sullo sfondo del paesaggio rivoluzionario, con le loro bandiere al vento, il filo spinato davanti, i soldati con le inutili bombe a mano dietro le porte chiuse. Prendiamoci il dispositivo che regola il funzionamento e l’operatività di tutto questo – pensava Trotzkij –, l’acqua, la luce, le fognature, la luce, il telefono e il telegrafo, le stazioni e i porti, le caserme e gli incroci stradali, i ponti, le poste, le banche e gli arsenali: e l’intero sistema ci cadrà in mano, consegnandoci la politica a quel punto inerme, lo Stato reso infine impotente, il guscio vuoto del potere.
Ecco chi erano quegli uomini in giro con le mani in tasca negli ultimi tre giorni, mentre guardavano i treni e i posti di polizia nelle stazioni, si sedevano sulle panche di legno nel gigantesco salone della posta centrale, entravano come dei clienti a chiedere informazioni nelle centrali, esploravano la rete delle fogne sotto Palazzo d’Inverno e le condutture dell’acqua dietro palazzo Mariinskij, controllavano la rete elettrica sui muri di Tauride, sostavano come dei perdigiorno sulle panchine dei viali di fronte alle caserme, riempivano per ore falsi moduli negli uffici del telefono, chiacchierando con le impiegate. Avanguardie silenziose, rivoluzionari dormienti, esploratori fantasma. Ogni sera facevano una relazione tecnica allo Smolnyi, punti deboli, spazi di vigilanza, zone protette, ingressi laterali, sotterranei, solai, vie di fuga. Era come se le Guardie Rosse avessero scoperchiato il sistema nervoso della città per testarlo, poi lo avessero “minato” metaforicamente rivelando le aree più fragili, prima di affondare il bisturi chirurgico su Piter che dormiva.
Così adesso la rivoluzione scriveva un inedito storico. Nessun assalto di massa, nessuna spallata, ma una serie di operazioni all’apparenza minori, piccoli gruppi che prendevano il controllo di singole postazioni strategiche, in un’occupazione dall’apparenza quasi più logistica che militare. Il governo che aspettava l’urto massiccio dei reparti ammutinati scopre la piazza vuota e quel nulla misterioso e ostile lo spaventa. Chiama continuamente al telefono palazzo Tauride, i ministeri, lo stato maggiore, il quadrilatero del comando, e riceve conferma e rassicurazione: qui tutto è normale, nessun attacco in vista, le istituzioni sono tutte insediate, il potere formale dello Stato è intatto, come se ai rivoluzionari non interessasse conquistarlo.
Quando alle quattro saltano i telefoni e Palazzo d’Inverno rimane sordo e muto, Kerenskij capisce che la vecchia talpa rivoluzionaria sta scavando sotto le fondamenta dello Stato, là dove pulsa il cuore tecnico della dinamica di sistema, dove c’è la vera chiave che apre e chiude la città. A quel punto il primo ministro percepisce la difficoltà di misurare col metro di polizia quella forza dispersa ma organizzata che sta dilagando nel buio, a macchie, come un esercito di roditori o un virus. Sente la sproporzione improvvisa tra lo studio dello Zar dove sta seduto e il potere effettivo di controllo e di comando che gli resta concretamente in mano. Il contesto imperiale che ha ereditato non lo protegge, anzi Palazzo d’Inverno è talmente simbolico che lo espone: prima o poi vorranno prenderlo, arriveranno, sono già alla stazione del Baltico, a quella di Varsavia, li hanno visti al ponte Nikolaevskij, hanno sbarrato via Millionnaja, hanno appena liberato i carcerati della prigione Kresty, arruolandoli. L’ultimo rapporto prima dell’alba: i marinai sono entrati nel pre-parlamento a palazzo Mariinskij mentre i soldati si schieravano in due file sulle scalinate, da dove adesso scendono in fretta i deputati passando tra le baionette innestate.
Kerenskij va allo Stato Maggiore, e da qui lancia un ordine ai reggimenti cosacchi che in realtà è un appello: «Per l’onore, la libertà e la gloria della terra materna accorrete e salvate la Russia dallo sfacelo». I reparti del Don rispondono che stanno “sellando i cavalli”. In realtà prendono tempo, organizzano assemblee. Quei cavalli non partiranno mai, i cosacchi dopo quattro ore proclameranno la loro “neutralità”, non ubbidiranno più. Il governo chiede urgentemente truppe al Gran Quartiere Generale di Mogilev, ma il comandante Ceremisov non le farà marciare sulla capitale. Kerenskij passa la notte in piedi, ora dopo ora capisce che la leva militare non risponde al Comandante in Capo: non torna a palazzo, decide di aspettare i rinforzi fino alle luci dell’alba che in quel 25 ottobre storico arriva pigra alle 8,36 del mattino.
Pavidità o velleità spingono il Primo Ministro ad andare incontro alle truppe, per guidarle in città. Lo avvertono che i ponti sono ormai tutti in mano ai ribelli, le strade sono sguarnite di protezione, c’è luce, lo riconosceranno. Lui chiede una copertura diplomatica a Francia e America, dall’ambasciata Usa arriva un’automobile con bandiera a stelle e strisce, ma alla fine seguirà soltanto il Capo del governo che parte a gran velocità sulla sua auto scoperta con l’aiutante di campo. Attraversa la città piena di picchetti, passa accanto a un distaccamento di Guardie Rosse che incredibilmente fanno il saluto, e punta dritto verso Pskov, dove sul treno aveva abdicato lo Zar e dove quell’anno vanno a disfarsi tutti i poteri, in una sorta di “finis terrae” della Russia sterminata.
Il telegrafo che era di Stato fino alla sera prima, e la radio ribelle dell’incrociatore “Aurora” alle 10 del mattino diffondono un imprudente e precipitoso comunicato dello Smolnyi che annuncia la vittoria della rivoluzione: «Il Comitato militare rivoluzionario ha deposto il governo provvisorio e il potere statale è passato nelle mani del Soviet degli operai e dei soldati». Com’è possibile? Il governo è al suo posto, anzi ha appena provato a spedire una compagnia del Genio sulla via Morskaja per liberare la stazione telefonica, ma è inutile, i soldati verranno disarmati, tra le grida delle centraliniste che scappano in strada. Soprattutto Palazzo d’Inverno è in mano ai fedelissimi junkers all’esterno – dove vigilano sei autoblindo – e a una compagnia del battaglione femminile d’assalto che presidia l’interno, dove passano ancora in guanti bianchi i valletti con la livrea candida e il colletto rosso ricamato in oro.
Lenin è inquieto, non vuole aprire il congresso panrusso dei Soviet con un applauso a metà, per una vittoria dimezzata in una città ancora divisa. Podvolskij e Antonov Ovseenko, i diumviri del Comitato Militare Rivoluzionario, giurano che il Palazzo cadrà alle 12, ma quando il cannone della fortezza in mano ai bolscevichi spara il solito colpo a salve di mezzogiorno, tutto è come prima. Adesso dicono che le Guardie Rosse entreranno alle tre, che diventeranno le sei, poi non dicono più nulla. Si aspetta l’arrivo dei marinai da Kronstadt, da ieri è stato spedito il messaggio cifrato (“Inviate lo Statuto”) che chiedeva 1500 uomini, ne sono partiti addirittura 1800, ma sono ancora in viaggio. I due poteri che stanno per darsi il cambio del secolo si fronteggiano sulla piazza, a distanza, con pochi uomini armati dalle due parti, senza voglia di sparare, uccidere e morire.
I delegati del congresso venuti da tutta la Russia riempiono fino all’inverosimile la vecchia sala da ballo dello Smolnyi, attraversata dalle voci più incredibili su Kerenskij che è in fuga, no, è nascosto in città, sta lasciando il Paese, è stato arrestato, vuole marciare sul Soviet, sta arrivando, organizza le truppe. La bandiera è ancora alta sulle sedi del comando, serve chiarezza. Bisogna aprire un congresso gonfio di eccitazione e di inquietudine finché alle 2,35 si fa silenzio e Trotzkij annuncia che «l’insurrezione ha vinto, tutto è avvenuto senza spargimento di sangue, il governo provvisorio non esiste più, Palazzo d’Inverno non è ancora preso ma lo sarà ben presto». Dovrà scendere un’altra notte, mentre il congresso andrà avanti con un bollettino militare dietro l’altro e a un certo punto della sera vedrà salire alla tribuna davanti ai delegati – tutti in piedi – quel Lenin arrivato da anni di esilio, da mesi di latitanza, da ore di travestimento, da una frenesia rivoluzionaria cresciuta nella letteratura, nelle strade, nelle galere. Tutti si spingono per guardarlo, molti lo vedono per la prima volta. È lui il Capo, ha conquistato il suo partito, attraverso il partito ha controllato il Soviet, muovendo il Soviet ha preso il Paese. Adesso che ha vinto, fa una promessa. «Un periodo nuovo comincia nella storia della Russia. Le masse oppresse creeranno un loro governo, l’antico apparato statale sarà sradicato. Questa terza rivoluzione russa dovrà portare all’edificazione dello Stato proletario socialista».
A brandelli, deformata dalla paura, ingigantita dal vuoto politico del Palazzo d’Inverno, l’eco di quelle parole arriva fino alla Sala di Malachite dove siede un governo rassegnato, esaurito, so- prattutto decapitato, con il suo Capo in fuga. Era la sala che chiudeva gli appartamenti della Zarina, quella in cui il giorno delle nozze le principesse imperiali apparivano allo sposo, tra le colonne verdi e i fregi dorati. Privato di ogni forza, in quelle stanze regali il potere legittimo sembra diventato abusivo, esangue. Perso il controllo del sistema, i ministri divengono spettatori di quel che sta accadendo, seguono dalle finestre i movimenti sulla Neva dell’incrociatore che spunta dal Baltico, scortato da due cacciatorpediniere che si aggiungono alle cinque navi da guerra arrivate nella notte. Per la seconda volta in otto mesi la città precipita nello spettacolo della rivoluzione con i caffè chiusi, i negozi che non riaprono il pomeriggio, i tram fermi, primo fra tutti il “9” che collega il centro allo Smolnyi, e non sa più dove andare.
Nella confusione generale, mentre arriva la sera e manca ancora l’ordine di assalto al palazzo, l’inerzia della storia decide da sola. Gli insorti sono padroni del Campo di Marte, sgombrano i viali del lungofiume, si affacciano all’Arco di Trionfo quando suonano le otto. Appena si capisce che anche lo Stato Maggiore si è arreso, i domestici scappano dalla casa del governo, gli ufficiali si disperdono per le scale, i corridoi e le cantine. Impaziente, l’”Aurora” che da ore tiene sotto mira il palazzo esplode un colpo a salve che risuona nella città in attesa come la fine della storia, l’inizio di un’altra epoca. Il fascio delle fotoelettriche dell’incrociatore passa e ritorna, sembra voler frugare le stanze denudandole di ogni potere residuale, per rivelarle spoglie. I ministri sono ombre. Si spostano nella piccola sala da pranzo che dà sul cortile, più sicura, ma si sentono intrappolati, privi di ogni potere, inutili. Salta anche la luce, e l’agonia si compie alla luce delle candele, tremolando. Nel buio quindici, venti Guardie Rosse riescono a entrare nel palazzo, gli junker provano a resistere, ci sono colpi di fucile, gli insorti lanciano due granate dalla galleria. Ormai sono entrati in ottanta, subito arrivano a più di cento. Gli junker e il battaglione femminile escono nel cortile posando le armi, con le mani sollevate. È la resa.
Mancano cinque minuti alle due di notte, quando i marinai salgono lo scalone verso la sala di Malachite, guidati personalmente da Antonov- Ovseenko. In quel momento un allievo ufficiale entra nella sala da pranzo dove si sono rifugiati i ministri. «Noi siamo pronti a difendervi fino all’estremo, ma quali sono i vostri ordini?». «Ormai non servono ordini – è la risposta – tutto il palazzo è occupato, voi siete l’ultima guardia. Niente sangue, ci arrendiamo». L’ultimo governo provvisorio si siede intorno al tavolo, come in una fotografia controluce dell’Ottobre o in una seduta spiritica. Quando la porta si spalanca ed entrano i marinai, cercano Kerenskij e capiscono che le voci di fuga erano vere. Parla Antonov: «Vi dichiaro in arresto, a nome del Comitato Militare Rivoluzionario». «Noi ci arrendiamo per evitare il sangue», risponde il ministro dell’Industria, Konovalov. «Proprio voi? Ne avete versato abbastanza». «Non è vero, non abbiamo fucilato nessuno». «Si faccia il verbale dell’arresto», conclude Antonov. Un timbro russo, come sempre, trasforma la realtà in storia, e compie la rivoluzione. Sulla specchiera a destra, cent’anni dopo, l’orologio segna ancora oggi l’ora in cui il secolo ha curvato il suo percorso, le 2,10 di quella notte.
Manca soltanto lui, sul gran teatro del ’17. Aleksandr Kerenskij. È sul treno per Pietrogrado da Ostrov (dove ha provato a radunare i cosacchi per attaccare le Guardie Rosse nella capitale) quando gli arriva la notizia che Palazzo d’Inverno è caduto e i ministri sono in carcere nella fortezza. Il governo è lui soltanto, è ormai un’illusione, addirittura una finzione. Comandante in Capo dell’esercito, a Pskov si è reso conto che non poteva nemmeno più trasmettere ordini al fronte, perché il comitato rivoluzionario del posto piantonava i telefoni. Sulle colline di Pulkovo tenta l’ultimo sfondamento ma i 700 cosacchi si trovano davanti gli uomini di Kronstadt, non passano, devono ripiegare su Gatcina, dove i generali chiedono di trattare la pace con Lenin. Vinner, l’aiutante di campo, entra nella stanza di Kerenskij al primo piano del castello di Paolo I, e lo avverte che stanno per consegnarlo ai bolscevichi. Lui pensa di spararsi alla testa, per non arrendersi. Poi il 31 ottobre lo camuffano da marinaio, gli calzano un berretto coi nastri, gli infilano gli occhialoni da automobilista e riescono a scappare dalla porta cinese sul cortile.
Corrono in macchina cercando di precedere la sventura, tengono pronte le bombe a mano sul sedile posteriore, prendono un sentiero che li porta a un rifugio nella foresta. In slitta Kerenskij raggiungerà Novgorod stringendo l’immagine sacra che porta al collo, si nasconderà in un manicomio, entrerà in incognito a Piter, arriverà in Finlandia, passerà da Mosca e infine partirà per Londra con un incrociatore francese da Murmansk: appena salito a bordo, come se rientrasse in una dimensione borghese, chiederà un barbiere. Si era lasciato alle spalle una lettera aperta al popolo russo: «Sono io, Kerenskij, che vi parlo: una banda di pazzi, mascalzoni e traditori ha soffocato la libertà, ha tradito la rivoluzione e ha fatto di voi degli assassini. Se siete ancora esseri umani, aprite gli occhi».
Il Capo di quella “banda”, come la chiamava Aleksandr Fedorovic, era ormai il Capo del Paese. Lenin si disinteressò subito di Kerenskij, e anche del Palazzo d’Inverno, non entrò nemmeno nell’appartamento dell’Imperatore dove l’ex Primo Ministro aveva voluto dormire. Il potere adesso stava in quella stanza col tramezzo allo Smolnyi, dove oggi ho trovato il letto da una parte, pronto, la scrivania dall’altra con la famosa lampada verde, il calamaio e la carta assorbente intatta, come se dovesse ancora asciugare la lista dei ministri, anzi dei “Commissari del popolo”, che lui scrisse proprio qui. Quando li vide qui insieme, nelle ore della rivoluzione, la moglie di Trotzkij pensò che Vladimir Ilic e Lev Davidovic si muovevano come due sonnambuli, coi colletti sporchi, la barba lunga, sembravano automi che non si fermavano da giorni, pareva che dessero gli ordini dormendo.
In fondo era vero. «Sapete – confidò Lenin a Trotzkij il primo giorno – dopo le persecuzioni, dopo l’esilio, dopo essere stati fuorilegge, quando arriva il potere…, ebbene, es schwindelt, vengono le vertigini». Fuori da quella stanza, oltre lo Smolnyi, al di là di Pietroburgo, era tutta la Russia che stava entrando nella vertigine dell’Ottobre, lunga quasi come il secolo. ©RIPRODUZIONE 

LE PUNTATE PRECEDENTI
Le puntate precedenti di Cronache di una rivoluzione sono uscite il 9 dicembre 2016, il 13 gennaio, il 3 febbraio, il primo marzo, il 3 aprile, il 13 maggio, il 16 giugno, il 15 luglio, il 4 agosto e il 6 settembre 2017. Cronache di una rivoluzione è anche un docufilm L’undicesima puntata è online su Repubblica.it

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