lunedì 27 novembre 2017

La storia presunta di Jakov Blumkin, bolscevico o chissà cosa


CHRISTIAN SALMON: IL PROGETTO BLUMKIN, LATERZA PREZZO: 18 EURO PAGINE: 263 TRADUTTRICE: SILVIA BALESTRA

Risvolto
  «Una storia di lealtà e tradimento. Di delitto e castigo. L’epopea di un terrorista che era anche un poeta. Tutto questo è Jakov Blumkin. L’eroe che, sopravvissuto alle situazioni più estreme, fu tradito dal suo amore per una rivoluzionaria intrepida come lui, in nome degli interessi superiori di una Rivoluzione, essa stessa tradita. Solo adesso ho capito che ero ossessionato da lui perché volevo raccontare un fallimento: quello di una generazione, la mia, che voleva cambiare il mondo. Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole.»
Un passato bolscevico riemerge da un baule in una casa lungo la Marna. Un trasloco, una storia privata e una storia pubblica, due vite che si intrecciano, quella personale di Christian Salmon e quella di un personaggio leggendario della Rivoluzione d’Ottobre, Jakov Blumkin. Inizia così il viaggio di Salmon che insegue in tutta Europa la vita epica di Blumkin e al tempo stesso la sua stessa vita, il tempo in cui era stato anche lui un bolscevico. Un bolscevico per modo di dire, certo, ma pur sempre un bolscevico. Blumkin era un čekista e un poeta, un mistico e un assassino, fu amico dei più grandi poeti e dei boia della Lubjanka. Era l’uomo dai mille volti: ora il viso sfilato, ora appesantito; in alcune foto sembra avere vent’anni, in altre ne dimostra quaranta. Eppure era lo stesso uomo, Jakov Blumkin, alias ‘Il Lama’, alias ‘Sultano Zade’. O ‘Živoj’ che significa ‘il Vivo’, come lo aveva soprannominato Majakovskij una sera che lo aveva incontrato in uno dei caffè letterari alla moda che frequentava. Ma per altri era un personaggio di finzione inventato e lanciato nel mondo dai servizi segreti sovietici come copertura per ogni affare losco. La sua breve apparizione sulla terra resterà segnata da due colpi di pistola: quello che sparò all’ambasciatore tedesco il 6 luglio 1918 e quello che mise fine alla sua vita il 3 novembre 1929, quando non aveva ancora trent’anni. Fra queste due detonazioni, la vita di Blumkin si dispiega in un cielo di congetture, come un fenomeno luminoso che si consuma sotto i nostri occhi.

Il progetto Blumkin
Foglio

Dalla Russia con terrore 
di Wlodek Goldkorn Rep Robinson 26 11 2017
All’epoca del narcisismo come valore politico e modo di narrare il progetto dell’avvenire (votatemi e ci penserò io), fa effetto straniante leggere di un’altra epoca, cent’anni fa, dove i protagonisti della storia cercavano anonimato, cambiavano nomi, cognomi e identità perché si consideravano solo strumenti al servizio della causa. È il caso di Jakov Blumkin ebreo russo (o forse ucraino?), rivoluzionario, terrorista, agente dei servizi di sicurezza, intimo di Trotzkij, agitatore politico, poeta e via elencando.
Personaggio affascinante, misterioso, ambivalente, frequentatore di Osip Mandel’štam e di tanti altri letterati legati nel bene e nel male al mito del bolscevismo, Blumkin è stato riscoperto, o per la verità scoperto, dallo scrittore francese Christian Salmon.
Siamo nell’anno 1918, pochi mesi dopo il putsch del 6 novembre 1917 che portò Lenin, Trotzkij e compagni al potere. La Russia sovietica è assediata; la guerra civile in corso; in alcuni territori dell’ex impero zarista regna il caos; città come Kiev passano di mano una dozzina di volte tra nazionalisti antisemiti, comunisti, anarchici, generali in cerca di fama e denaro; e tutto questo al costo di indicibili crudeltà: neonati buttati fuori dalle finestre, donne stuprate, uccisioni di massa, torture. La Prima guerra mondiale non è finita e i sovietici decidono di firmare un accordo di cessate il fuoco con i tedeschi. Le conseguenze sono disastrose e il nuovo potere viene accusato nelle piazze e nelle assemblee dei soviet di aver tradito la Russia e la Rivoluzione.
In queste circostanze entra nella Storia un ragazzo di diciassette anni. Si chiama Jakov Blumkin, è nato a Odessa. Da bambino era imbevuto dei libri di Mendele Moicher Sforim, padre fondatore della letteratura yiddish, e delle leggende su Mike il Jap, il re ebreo della malavita cittadina, narrato peraltro da Isaak Babel’ nei Racconti di Odessa (e di cui in questi giorni esce con Skira Cronache dell’anno 1918, testi sull’anno cruciale della Rivoluzione). In realtà, secondo Salmon, né l’età né il luogo di nascita di Blumkin sono certi; sicuramente però il ragazzo è militante del Partito social-rivoluzionario di sinistra, coalizzato coi bolscevichi. Gli esserre (così vengono chiamati) hanno una lunga tradizione terrorista. Ed ecco che Blumkin uccide l’ambasciatore del Kaiser, il conte von Mirbach.
Lenin assicura i tedeschi che l’attentatore è stato catturato e giustiziato. E invece il giovanissimo fugge. Erra nei territori dell’Ucraina. Combatte. Viene fatto prigioniero dai nazionalisti, torturato in quanto ebreo, abbandonato più morto che vivo in mezzo a un campo, si consegna alla ?eka, i servizi segreti del nuovo potere sovietico. E qui avviene la svolta. Sempre stando alla ricostruzione di Salmon, ma l’autore dice che le versioni dei fatti sono numerose e mai certe, il ragazzo innamorato della poesia, dell’esercizio della violenza, affascinato sia dalla prospettiva dell’avvenire radioso che dal cupo messaggio del nichilismo, viene arruolato nei ranghi appunto della ?eka. Diventa uno di quei personaggi che popolano la Russia — siamo sempre nel 1918, dove nessuno scommetterebbe un soldo bucato sul futuro del bolscevismo (lo stesso Lenin rischia di morire in un attentato) — vestiti di cappotti di pelle, pistola in tasca, libri nella borsa e disponibilità a uccidere e morire. Si racconta che Blumkin fosse stato convocato da Trotzkij. Non si sa dove avvenne il colloquio: se nel treno blindato (con una parete piena di libri) del capo dell’Armata Rossa e critico letterario; o al Cremlino. Pare che parlassero un’intera notte di poesia. In ogni caso, il ragazzo terrorista d’ora in poi cambia più volte nome e gira il mondo. Sarà in Persia a fianco di un guerrigliero anti-colonialista, parteciperà a un raduno in cui i bolscevichi chiameranno i musulmani a una jihad in nome del progresso, lo troveremo in Turchia a fianco di un Trotzkij di fresco esilio. L’uomo dalle sette vite (tutte elencate) finirà fucilato in Urss nel 1929. E poi, c’è la storia dei rapporti (veri e inventati) di Blumkin con i poeti e scrittori, da Mandel’štam appunto a Esenin e alla sua compagna la danzatrice Isadora Duncan, a Majakovskij, tra delazioni, risse, minacce di morte. E infine, storia nella storia: la vicenda narrata dall’autore di come Blumkin sia finito per essere oggetto delle sue ricerche. Una vita, che sembra inventata, ma che è l’esempio di come le verità e le identità sono al plurale, inventate e celate nel mistero; contrariamente alla narrazione oggi dominante che tutto vorrebbe svelare e mettere in piazza. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Jakov Blumkin, la parabola oscura PASSATO PRESENTE. Intervista con l’autore della biografia del bolscevico, poeta e assassino. «Con questo mio libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero la narrazione di una vita». «Sembrava lui stesso considerarsi un personaggio letterario: un po’ eroe, avventuriero e bandito» Guido Caldiron Manifesto 16.2.2018, 0:03
«Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole». Fin dalla frase con cui Christian Salmon ha spiegato il senso dell’affascinante inchiesta che ha condotto su di una personaggio leggendario, ma altrettanto misterioso, della Rivoluzione d’Ottobre come Jakov Blumkin (Il progetto Blumkin, Laterza, pp. 264, euro 18) si intravede il senso della sfida che accompagna da sempre il lavoro di questo scrittore e intellettuale francese, quello di interrogare le vicende storiche e politiche per coglierne, attraverso le forme narrative che vi hanno preso forma, il significato più profondo e, se possibile, universale.
Per il fondatore, accanto a centinaia di altri autori di ogni parte del mondo, del Parlamento internazionale degli scrittori, membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage di Parigi, e tra i primi a occuparsi da un decennio a questa parte dello sviluppo anche nel mondo politico delle tecniche dello storytelling – l’adozione di precisi canoni narrativi nella costruzione delle figure pubbliche, o di «brand» personali, fenomeno evidente lungo un arco temporale che va da Sarkozy a Trump passando per Renzi -, la figura di Jakov Blumkin non incarna solo una sorta di alter ego per un viaggio a ritroso nella propria biografia di giovane militante trotskista, ma serve per interrogarsi sulle molteplici rappresentazioni ed eredità della Storia a partire da un evento cardine come l’Ottobre bolscevico. Non a caso, Salmon ricostruisce con il rigore dello storico e un timbro deliberatamente letterario, la confusa vicenda biografica di Blumkin che sembra svolgersi nello spazio tra due date, il 6 luglio del 1918 quando uccide l’ambasciatore tedesco a Mosca e la sua morte, avvenuta nel novembre del 1929, tradito da quella stessa rivoluzione trasfigurata nelle mani di Stalin.
La scelta di svolgere questa sorta di inchiesta storico/letteraria sulla figura di Jakov Blumkin sembra in continuità con il suo lavoro sullo storytelling e su quello che si potrebbe definire come il «romanzo della politica». È così?
Con questo libro mi sono interrogato su cosa significhi davvero il racconto di una vita, la sua narrazione a partire da fonti diverse, talvolta contraddittorie. In questo, credo di aver proseguito la mia indagine iniziata analizzando le forme dello storytelling, il modo in cui i politici, sulla scorta di quanto fanno i grandi marchi commerciali, si «raccontano» oggi. Tutta una serie di leggende circondano la figura di Blumkin, un personaggio dalla vita oscura. E ciò che più mi ha attratto in lui è che è in qualche modo rimasto impigliato nel riflesso della sua leggenda. Non abbiamo a che fare con un individuo la cui biografia ci è nota e chiara fino in fondo, quanto piuttosto, per dirla con Jean Baudrillard, con un esempio di «iperrealtà», vale a dire con «una proliferazione di miti sull’origine e sui segni della realtà» che in questo caso si traducono nel fatto che su Blumkin hanno scritto gli altri e nella sua vicenda hanno preso corpo le proiezioni di quanti volevano piegarne le vicende ai propri interessi. Insomma, quasi un «oggetto cubista» dalle molte e spesso contradditorie sfaccettature.
Ma queste apparenti contraddizioni e i tanti punti oscuri nella vita di Blumkin non hanno a che fare anche con l’epoca tumultuosa in cui visse?
Senza dubbio. Come spiegava Osip Mandel’štam, la cui figura ritorna più volte ne Il progetto Blumkin, in un testo del 1922 intitolato «La fine del romanzo», quella generazione non ha potuto avere una vera biografia. O almeno non una sola. Il debutto del Novecento coincide con un’epoca burrascosa, trasferimenti continui – diciassette cambi di casa, ambiente e scuole nella sola giovinezza del celebre poeta -; la più totale incertezza anche solo su ciò che sarebbe potuto accadere il giorno dopo. In Russia nello spazio di pochi anni accade di tutto: la rivoluzione fallita del 1915, la repressione zarista, la nuova rivoluzione del 1917, la guerra civile… come costruire una propria biografia in mezzo a tali sconvolgimenti? Proprio Mandel’štam ricorreva ad una bella immagine per descrivere questa situazione e scriveva: «le nostre vite sono come le palle del biliardo che schizzano in tutte le direzioni» e aggiungeva come i suoi contemporanei, esattamente come Blumkin e lui stesso, fossero «catapultati fuori dalle loro biografie». Per questo, alla luce di tali difficili itinerari personali parlava di «fine del romanzo». A partire da queste vite si possono comporre collage, costruire sequenze di film, come quelli di Eisenstein o Vertov, ma è difficile costruire una forma narrativa completa.
Forse, proprio perché consapevole di tutto ciò, Blumkin stesso immaginò degli elementi narrativi intorno alle proprie vicende. Fin dall’adolescenza sembrava considerarsi come un personaggio letterario, un po’ eroe, un po’ avventuriero, un po’ bandito. Voleva essere un poeta lirico, imbracciò senza esitazione la violenza politica, diventando uno di quei «terroristi» che caratterizzeranno l’epoca zarista affascinando come eroi romantici molti loro giovani contemporanei, si pensava al fianco di Trotsky, come uno stratega pronto a ridisegnare la carta politica del Medio come dell’Estremo Oriente. Una visione aperta del romanzo della sua vita, ma dove la storia, pur se in modo confuso, sembrava avere ancora la meglio sulla rappresentazione.
Una condizione che, per venire al suo lavoro sullo storytelling, sembra contrapporre la vicenda di Blumkin che ha cercato di ricostruire, con le forme attuali di racconto della politica…
Lo storytelling vuole convincerci che non esiste che un «romanzo», una sola storia. Si presenta come una sorta di religione della narrazione. Come le grandi religioni monoteiste ci dice che non esiste che un unico e solo «libro», non se ne potrebbe perciò scrivere nessun altro, a rischio di subire una fatwa come è accaduto a Salman Rushdie. Al contrario, nella realtà in cui viviamo e in ciascuno di noi, proprio come indica la figura di Blumkin, ci sono diverse storie che si osservano, dialogano, si incontrano o si combattono. Una considerazione che non va però confusa con il contesto con cui ci dobbiamo misurare attualmente.
Ciò a cui stiamo assistendo oggi rispetto a quando ho iniziato ad occuparmi di questo tema, è che siamo passati da una dimensione verticale in cui l’ufficio comunicazione dell’Eliseo o della Casa Bianca proponevano la «storia del giorno» ad uso e consumo dei cittadini, ad una dimensione orizzontale, ad una sorta di multi-storytelling in cui ciascuno di noi, attraverso la rete e soprattutto i social, diventa un protagonista di questo meccanismo. Lo spazio della comunicazione si è così trasformato in un autentico campo di battaglia dove ha luogo una «guerra delle narrazioni». Basta pensare all’elezione di Trump per essere consapevoli del peso che tutto ciò ha assunto nelle nostre vite.
In questo scenario si è così cominciato a parlare delle cosiddette fake news. In proposito lei ha citato le parole di Hannah Arendt che sosteneva come «il suddito ideale del regno totalitario» non dovesse essere convinto ideologicamente, bensì persuaso che «la distinzione tra fatti e finzione, e la distinzione tra vero e falso, non esistono più».
Il primo effetto della guerra dei racconti cui facevo riferimento è il prendere corpo di quello che chiamo «il pianeta del discredito». La continua contrapposizione di «storie», talvolta niente altro che delle autentiche bugie, ha condotto molti cittadini a divenire sempre più agnostici, a non credere più alla parola pubblica, non solo ai politici, ma anche ai media, ai ricercatori, ai medici o agli scienziati, come indicano ad esempio le follie che vengono affermate sul clima. Una situazione che interroga il futuro stesso della democrazia che si basa, o si dovrebbe basare, sul confronto delle idee. Lo spazio mediatico dove hanno luogo queste «guerre narrative» sembra sul punto di rimpiazzare quella «democrazia deliberativa» di cui parla Jürgen Habermas, fondata su un processo discorsivo razionale.

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