sabato 16 dicembre 2017

Una forma di negazionismo della questione nazionale tranne quella israeliana

Donatella Di Cesare: Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri

Risvolto
Nel paesaggio politico contemporaneo, in cui domina ancora lo Stato-nazione, il migrante è il malvenuto, accusato di essere fuori luogo, di occupare il posto altrui. Eppure non esiste alcun diritto sul territorio che possa giustificare la politica sovranista del respingimento. In un'etica che guarda alla giustizia globale, Donatella Di Cesare con limpidezza concettuale e un passo a tratti narrativo riflette sul significato ultimo del migrare, dando prova anche qui di saper andare subito al cuore della questione. Abitare e migrare non si contrappongono, come vorrebbe il senso comune, ancora preda dei vecchi fantasmi dello jus sanguinis e dello jus soli. In ogni migrante si deve invece riconoscere la figura dello «straniero residente», il vero protagonista del libro. Atene, Roma, Gerusalemme sono i modelli di città esaminati, in un affresco superbo, per interrogarsi sul tema decisivo e attuale della cittadinanza. Nella nuova età dei muri, in un mondo costellato da campi di internamento per stranieri, che l'Europa pretende di tenere alle sue porte, Di Cesare sostiene una politica dell'ospitalità, fondata sulla separazione dal luogo in cui si risiede, e propone un nuovo senso del coabitare.


Serve una nuova politica dell’ospitalità per attuare i diritti umani. La prefazione
del nuovo volume della filosofa «Stranieri residenti», edito da Bollati Boringhieri

Corriere


Donatella Di Cesare, la sovversione di coabitare il mondo 
SCAFFALE. «Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione», per Bollati Boringhieri. Un pensiero politico contro la xenofobia populista e il razzismo. La nostra casa non è lo Stato, né il mercato, ma il mondo intero: l'Internazionale 

Roberto Ciccarelli Manifesto 14.12.2017, 0:02 
Chi è alla ricerca di un’istanza politica contraria al «nazionalismo» in epoca «post-nazionale» e al sovranismo razzista che lega la destra e la sinistra nell’abbraccio mortale con il populismo, la può trovare in Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri, pp. 275, euro 19). È un libro importante quello scritto da Donatella Di Cesare, potente nella decostruzione della sovranità, incalzante nello svolgimento tra riflessione genealogica, racconto e saggio. Una prova dello stile della filosofia contemporanea: il «pensiero dell’attualità». Questo libro, scrive l’autrice, è un contributo alla definizione di uno jus migrandi in un momento politico in cui i diritti fondamentali delle persone sono soggetti a una torsione securitaria tale che appare lecito chiedersi se non sia finita l’idea stessa di ospitalità. 
LA FILOSOFIA della migrazione non è una teoria dell’erranza o del ritorno alla «terra madre» o all’autorevole «padre». Non è una teoria economica, biologica o un’etica dell’«Altro». È una filosofia politica anti-sovranista, una politica della «coabitazione» nella terra spaesata, per di più in tempi di «globalizzazione» dove facciamo ritorno a una casa che è sempre altrove. Questa filosofia è l’espressione di un «diritto di fuga» del migrante, mentre la libertà soggettiva di chi emigra è punita, tradotta in mobilità, resa adattabile a «quote» e fabbisogni di manodopera. Il migrare eccede ogni misura e indica un destino più ampio, il soggiorno umano sulla terra riguarda tutti, nessuno escluso. 
SIN DA PLATONE e Aristotele la figura dello straniero ha destabilizzato il nomos stanziale della filosofia e oggi scuote le radici dello Stato in quanto átopos – il senza luogo, il fuori-luogo ovunque del nomadismo. Lo Straniero è una figura presente in tutte le culture e le religioni. Nella Torah, ad esempio, gli abitanti della terra sono gherim vetoshavim, stranieri e residenti temporanei allo stesso tempo. Questa è anche la condizione del lavoratore a giornata, il lavoratore che vende la forza lavoro, in cambio ottiene un salario spesso non sufficiente per sopravvivere, in più è sfruttato. Senza contare che, in questo caso, l’estraneità è l’esperienza di tutti i lavoratori rispetto al loro lavoro mercificato. Quando si incarna nel migrante, lo straniero diventa un’anomalia intollerabile. Non è solo un intruso illegale. La sua esistenza segregata in spazi di eccezione è percepita come una sfida all’esistenza dello Stato. Alla «nuda vita» è attribuita una carica sovversiva perché scredita la purezza mitica del potere e rivela i paradossi della cittadinanza: l’inclusione degli «autoctoni» è basata sull’esclusione degli «stranieri». La «democrazia» è tale quando si difende dall’esterno ed esercita un potere coercitivo contro gli inermi anche all’interno. 
IL MIGRANTE, in quanto straniero, è una figura abissale perché rivela che l’estraneo non è solo l’altro da me, ma è quello che abita in me. Questa esperienza è stata definita da Freud «perturbante»: è ciò che turba l’ordine dell’Io, mostrando l’inquietudine più grande. L’Io non ha proprietà, una terra a cui appartenere, una coscienza a cui rimettere i suoi peccati, ma è un altro ed è straniero a se stesso. È Unheimlich, un essere-senza-casa. Il migrante mette a nudo il mito dell’identità autoctona, la finzione su cui è fondata la sovranità, il valore che lo Stato difende in nome della «sicurezza». Se l’Io è un altro, scriveva Rimbaud, allora il Sé immobile crolla. Un esito inaccettabile che lo Stato evita ricorrendo alla polizia e agli eserciti. Così la sovranità esibisce il suo ultimo potere: il monopolio della violenza. 
QUESTA È LA TRAGEDIA dell’attuale governo italiano: dopo avere respinto i migranti in Libia, li ha guardati sulla Cnn venduti come schiavi. Un delitto atroce che non troverà, probabilmente, un giudice, ma forse molte testimonianze. Stranieri residenti è una di queste. Ed è bruciante.
IN TEDESCO esiste una parola che spiega questa esperienza perturbante: Wanderung. Significa migrare e errare. L’equivalenza tra un movimento fisico e l’esperienza dell’errare (vagare, sbagliare) è il fondamento della filosofia della migrazione. Il suo obiettivo è dimostrare che l’abitare non è mai puro. Chi abita in un territorio viene da un movimento e si dirige altrove. Così fa il migrante: il punto dove arriva coincide con una nuova partenza. L’abitante è anche lui un migrante che ha deciso di fermarsi, e poi ripartire di nuovo. Prima di un territorio statale, abitiamo una vita che non appartiene a nessuno ed è comune a tutti. Condividiamo un movimento ancora prima di un’appartenenza. Siamo tutti stranieri e residenti. Su questa «e» si gioca il conflitto. 
LA CASA degli stranieri residenti non è lo Stato, né il mercato. È l’Internazionale. La riproposizione di questa categoria è una delle idee originali del libro. Di Cesare la intende come sinonimo di una «coabitazione oltre le appartenenze e la proprietà». In questa prospettiva l’Altro non è una metafisica, non è l’ospite, né può essere rinchiuso nelle contraddizioni del diritto di asilo. Se lo straniero siamo noi, allora il sé e l’altro non sono opposti, ma si implicano a vicenda. Lo straniero non è dunque l’ opposto del cittadino, entrambi sono stranieri residenti in un’Internazionale slegata dal territorio e dalla cittadinanza, capace di trasformare la prima e di superare le aporie della seconda. La coabitazione indica un essere-in-comune, pratica una convergenza politica e mostra un altro modo di stare al mondo. Per gli anarchici e i comunisti la casa è il mondo intero. Per tutti gli altri l’Internazionale è la coabitazione della futura umanità con i prossimi e gli stranieri.

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