mercoledì 10 gennaio 2018
"L'età dell'oro" di Gore Vidal
Vidal, tartassare i presidenti Usa ponendosi tra i personaggi
La saga americana. Nei romanzi storici «di parte» (entrambi Fazi Editore) Emma, 1876 e L’età dell’oro Gore Vidal fondeva con vivido sarcasmo figure storiche e inventate, pettegolezzi di cortile e vere e proprie malignità
Piero Sanavio Alias Domenica 8.7.2018, 0:57
L’editore romano Fazi sta pubblicando, e ri-pubblicando, una serie di romanzi «storici» dello scrittore nordamericano Gore Vidal (1925-2012), che scendono ai giorni nostri dall’epoca post-jeffersoniana e la dinastia degli Adams: mescolando personaggi storici e personaggi inventati, pettegolezzi di cortile e vere e proprie (e divertite) malignità. Uno degli assi portanti di questa controstoria degli Stati Uniti sono i casi di una famiglia con un piede in Europa e l’altro Oltreatlantico – gli Schuyler- De Traxler -Sanford.
La prima di queste narrazioni (Burr; prima versione italiana, 1975) aveva per protagonista il controverso Aaron Burr (1756-1836), che Vidal intendeva riabilitare. Deputato, poi senatore, sostenitore di Jefferson alla presidenza, lui stesso vicepresidente, era caduto in disgrazia per avere ucciso in duello Alexander Hamilton (1755-1804) e, in seguito, per il sospetto di aver tentato di creare un impero personale nei territori continentali ancora sottoposti alla corona di Spagna. Protetto (figlio?) di George Washington, e aveva sposato una Schuyler, Alexander Hamilton era stato uno dei pilastri ideologici del federalismo e — contro le opinioni di Jefferson e gli Adams — promotore della creazione di una Banca Centrale Americana.
Nessuna effettiva parentela storica tra la vedova Hamilton e gli Schuyler di queste narrazioni dove, una signora di quel nome, Emma de Traxler Schuyler, sposerà un principe napoleonico diventando lei stessa principessa — in seconde nozze unendosi a un Sanford: dopo avere svolto un ruolo perlomeno ambiguo nella morte della moglie di costui, Denise. L’enigma, descritto da Vidal in Emma, 1876 (traduzione di Silvia Castoldi, pp . 572), sarà risolto in L’età dell’oro (trad. Luca Scarlini, pp. 350; ambedue per Fazi, ognuno euro 18,00). Un obbiettivo del Narratore, con la saga, complessa, schematica, di questa famiglia, è presentare un’aristocrazia del denaro e il potere che via via perde ogni moralistica mascheratura, rivelandosi ciò che in effetti essa è: non dissimile dai «nuovi arrivati», affamati di soldi e potere, e dai quali sarà consenzientemente fagocitata. Importanti sono i cognomi (olandesi, francesi, inglesi, tedeschi) che si accumulano l’uno sull’altro a indicare le diverse origini, di «sangue» e tradizioni, della dubbiosa aristocrazia nordamericana post-coloniale e post-rivoluzionaria, e i suoi epigoni.
Dal punto di vista letterario, la narrazione della decadenza di una classe già dominante e i tentativi di mantenersi a galla, ha ovvii modelli. Tra questi i principi Salinas (Vidal ha trascorso gran parte della vita adulta a Roma, in piazza Torre Argentina, poi a Ravello, familiare con la nostra letteratura del Novecento), quei tardi avatar, fatta eccezione per le consuetudini erotiche, dei Guermantes dell’inevitabile Recherche, che contava anche l’ultimo Hemingway tra gli abbacinati. Quando sulla sua portatile componeva The Garden of Eden, l’autore di Fiesta teneva sul tavolo di lavoro, a modello, Un amour de Swann.
S’è detto che i casi degli Schuyler-Traxler-Sanford sono un asse di questa controstoria, e si articola in sette volumi: mostrandoci il dessous de cartes di una partita a briscola la cui posta è la creazione di un impero che coincidesse con l’interesse personale. Senza moralismi e piuttosto in disincantata sottolineatura, Vidal evidenzia come la corruzione, la volgarità, l’auri sacra fames dei politici dell’Otto-Novecento non soltanto ricalcassero la corruzione e volgarità (e le ignoranze) della vecchia aristocrazia, soprattutto risultino (siano?) inseparabili dalla gestione di un Paese.
In Emma, i fatti sono narrati da un discendente degli Schuyler, già corrispondente diplomatico da Parigi per importanti testate nordamericane – e di ritorno a New York, poi Washington, dopo lunga assenza. Senza soldi e alla ricerca di uno sponsor politico, e un lavoro, è accompagnato dalla bellissima figlia Emma, quasi un sosia della fascinosa imperatrice Eugenia e astuta manipolatrice. Dell’effettiva portata dei suoi intrecci socio-finanziari soltanto alla fine il padre sembra ottenere totale coscienza — e ne morirà. Ciò che pareva un gioco gli si svela un’operazione di pianificata crudeltà, conducendo – a citare il vecchio Heywood — a un omicidio compiuto «con dolcezza». Il percorso pare uscito dalla penna di quel referente e «maestro» di Proust (cfr. La Prisonnière) che fu il Barbey delle Diaboliques.
Il 1876 del sottotitolo di Emma, fu cruciale nella storia del Nordamerica. Non soltanto segnò la fine del periodo della Ricostruzione (gli anni posteriori alla guerra del 1861-’65); per la seconda volta nella storia del Paese e quasi in anticipazione delle competizioni Gore-Bush e Clinton-Trump, alle elezioni presidenziali il candidato che aveva ottenuto il maggior numero di voti popolari (50,9 per cento), il democratico Samuel Tilden, perse di fronte al repubblicano Rutherford Hayes che, pur con il 47,9 percento del voto popolare s’era aggiudicato il 50,1 percento dei Grandi elettori (185) — un voto in più del candidato democratico (184). Dopo molte contestazioni, tra cui la rimozione di un Grande elettore, si era giunti a un compromesso — presidenza a Hayes in cambio del ritiro dal Sud delle truppe federali, lì installate a garantire (formalmente, almeno) la messa in opera della fine della segregazione. Presidente del Paese, e per due legislature, era stato l’ex generale Ulysses S. Grant (1822-’85) sul quale tuttora contrastanti sono i giudizi. Soggetto a grandi depressioni; alcoolizzato per lunghi periodi («Chiedetegli la marca di whisky» avrebbe detto Lincoln, impressionato dalle sue vittorie militari, «e lo daremo gratis agli altri generali») ma astemio per altri periodi, pur se non altrettanto lunghi; più volte, per proprie ingenuità, ridotto al lastrico da imbroglioni, Grant era stato il grande vincitore nella Guerra tra gli stati. Pare fosse personalmente onesto, la sua presidenza, però, funestata dalla corruzione del suo entourage; da parte sua, aveva appoggiato il suffragio per gli uomini di colore, non esitando a mantenere il Sud sotto occupazione militare; nel 1866 aveva passato il Civil Rights Act. Ridotto quasi in miseria, accettò (su consiglio di Mark Twain) di scrivere la sua autobiografia — un modello, nel suo genere, con un linguaggio che Edmund Wilson non esitava a definire, con qualche esagerazione, «cesariano». Il successo editoriale dell’opera, uscita a stampa dopo la morte dell’autore, affetto di un cancro alla gola, riassestò le fortune della famiglia.
Degli scontri, i brogli, i compromessi politici di quel 1876, Vidal dà un racconto vivido, sinistro, di parte — i democratici del Sud erano per la segregazione, i repubblicani del Nord abolizionisti, ed è tra i repubblicani-democratici che egli sembra situare le sue simpatie. Né fa sconti a Grant, del quale dà un ritratto caricaturale — altrettanto che per Mark Twain. Ma Vidal raramente è tenero con gli altri scrittori. Un’eccezione (in L’età dell’oro) è il Paul Bowles di Tè nel deserto, ma anche Hemingway cade sotto la scure di Vidal – sia come scrittore che come presunto cripto omosessuale, quell’annoso canard che, dalla pubblicazione di Death in the Afternoon, lo perseguitava. Mary Welsh, sua ultima moglie, che non spiccava per particolare simpatia, è indicata a più riprese come «moglie-ragazzo». L’omosessualità di Vidal era nota, sbandierata già nel suo primo romanzo, The City and the Pillar (1948 – La statua di sale), e possiamo mettere in conto questi pettegolezzi a «scontri di personalità».
L’età dell’oro, il titolo un possibile ironico riferimento a The Gilded Age (L’età placcata d’oro, ma la traduzione potrebbe anche essere: L’età color porporina) di Mark Twain sui cosiddetti baroni-ladri (finanzieri e profittatori della Ricostruzione), si svolge a cavallo del proditorio attacco giapponese a Pearl Harbor e diede inizio all’ingresso del Nordamerica nel Secondo conflitto mondiale. Non c’è chi esca indenne da queste pagine, dove Vidal pone anche se stesso tra i personaggi, ma i più tartassati sono i presidenti: Franklin D. Roosevelt, presentato come un narcisistico enfant gaté; Harry Truman visto come un rozzo, alcolizzato provinciale; «Ike» Eisenhower, innamorato della sua autista inglese (durante la guerra) che avrebbe voluto sposarla ignorando che fosse (Vidal dixit) una spia, incollatagli addosso dai servizi segreti britannici.
Sull’operato di Roosevelt, più volte è presentata come certezza l’ipotesi che il presidente fosse al corrente dell’attacco giapponese del 7 dicembre 1941, che gli avrebbe distrutto la flotta — avrebbe lasciato, cioè, che avesse luogo per avere un argomento per entrare in guerra. Tolte frange del partito democratico, e gli esuli europei rifugiati in USA, l’opinione pubblica era contraria al conflitto, come lo era stata nel 1917. Ora, ad accettare come credibile che Roosevelt si aspettasse un attacco, intendendo servirsene come casus belli, appare improbabile che sapesse che sarebbe avvenuto a Pearl Harbor, dove aveva la flotta alla fonda, e indifesa – semmai doveva (poteva) aspettarselo alle Filippine. Ma: perché nel 1941, quando il Paese non era ancora militarmente pronto al conflitto?
Neppure Eleanor Roosevelt sfugge alle ironie dello scrittore — che ce la presenta come una vecchia zia che, pur con le proprie amicizie omoerotiche, è gelosa delle infedeltà del marito e se ne vendica con ciò che gli fa servire a tavola. (Che in casa Roosevelt si mangiasse malissimo era un fatto notorio).
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