mercoledì 14 marzo 2018

Sinistra e identità di classe: i morti continuano ad afferrare i vivi



La sinistra se n'è andata veramente "da sé" oppure è stata smantellata e condotta alla "fine" in maniera consapevole e programmatica in primo luogo da chi si stupisce oggi della sua scomparsa dopo averci costruito una carriera sopra?
Dopo aver teorizzato per 30 anni e più la fine delle identità e delle classi sociali in nome del pluralismo liberale sessantottino dei "nuovi soggetti" nomadi liberati dal post-fordismo, la sinistra alla Manifesto e alla Revelli - a lungo consigliori di Bertinotti assieme a Gianni che ne fu anche indispensabile Ghost Writer alfabetizzato - si stupisce che la classe operaia si sia dissolta nelle sue tradizionali forme di coscienza progressiste e guardi oggi altrove fino a rivolgersi alla Lega e ai Giggini.

In realtà, è abbastanza semplice capire che ad aver bisogno di identità con un minimo di stabilità sono in primo luogo i più deboli e non certo i più forti, perché proprio i più deboli sono costretti a unirsi al fine di sommare le loro debolezze in una forza maggiore (è quello strano meccanismo sociale, ignoto alle terrazze romane, che si chiama lotta di classe).
Se, dopo aver annientato ogni fiducia nell'idea di progresso, ti applichi con costanza certosina a distruggere quotidianamente le identità storiche e culturali costruite in 150 anni di lotte perché ormai sarebbero troppo "rozze", "metafisiche", "deterministiche", "meccanicistiche", "dogmatiche" e "totalitarie", "patriarcali", o - come va di moda oggi - "speciste", questo bisogno non viene compensato dalla gioia del meticciato e del riso-schizo ma assai più semplicemente da altre identità.
Identità che però questa volta non sono più orientate in senso umanistico (ce n'era voluta per riuscirci...) ma sono prevalentemente naturalistiche e reattive, oppure feticistico-nostalgiche e consolatorie, ma in ogni caso tendenzialmente particolaristiche.
Bisognerebbe smetterla di prestare ascolto a questi cattivi maestri che piangono lacrime di coccodrillo e continuano a farci la lezione dopo averle sbagliate tutte. E che - con la stessa arroganza gianna o revella o rossanda di sempre - pretendono di aver comunque ragione anche quando dicono l'opposto di ciò che dicevano fino a ieri.
Lo stesso vale per chi ha improvvisamente scoperto il "sovranismo", transitando dall'eccesso di cosmopolitismo e universalismo astratto all'eccesso opposto di particolarismo senza mai passare per la dialettica e la questione nazionale vera e propria [SGA].


Ma come fanno gli operaiLoris Campetti: Ma come fanno gli operai, Manni

Risvolto

Colpiti dalla crisi e dalle politiche liberiste, privi di rappresentanza partitica e con un sindacato inadeguato, gli operai sono soli. Ai loro occhi la sinistra è responsabile dell’attacco ai diritti: cancellazione dell’articolo 18, assalto alle pensioni, jobs act e precarietà. 
Nelle urne, sempre più deserte, arriva il loro voto di vendetta: gli operai tradiscono la sinistra. O è piuttosto vero il contrario? 
A questo quadro si aggiunge la crisi della solidarietà tra lavoratori, perché la perdita della speranza in un cambiamento apre la strada all’individualismo, che rischia di alimentare una guerra tra poveri: l’avversario non è più chi comanda, bensì chi sta più in basso ed è più debole. Ne sanno qualcosa gli immigrati. 
Questo libro è un reportage sul cambiamento culturale dei lavoratori, un viaggio nelle grandi fabbriche, quelle in crisi e quelle con il vento in poppa, dalla Luxottica alla Fincantieri, dalla Brembo alla Beretta, dall’Agusta all’Aermacchi, dalla Maserati all’ex Pininfarina, a cui si affiancano puntate nella logistica e nei servizi. Parlano i ragazzi di Foodora che ci portano la cena a casa, arruolati con un sms e pagati a cottimo, e i dipendenti delle Coop reggiane giunte al capolinea e finite in tribunale. 
Campetti traccia una lucida analisi politica e conduce un'indagine nella classe tradizionalmente spina dorsale della sinistra e che ora – forse – non esiste più.

Quel dolente reportage da una classe fantasma 
SCAFFALE. «Ma come fanno gli operai», di Loris Campetti per Manni editore 
Massimo Franchi Manifesto 13.3.2018, 0:01 
«Racconta un metalmeccanico lombardo, cresciuto in quegli anni di cambiamento: “Il guaio è che gli operai sono sempre stati utilizzati a fini politici, ieri mitizzati dalla sinistra fino a pensare che fossero diversi dagli altri cittadini (…) Una volta abbandonati dalla sinistra, che è andata a pescare consensi in diversi aggregati sociali introiettandone i valori, colpiti e impoveriti dalla crisi e dalle ricette liberiste dei governi falsi amici, mi spieghi perché dovrebbero votare per la sinistra, oppure pensare che gli immigrati che lavorano da schiavi negli appalti siano un’opportunità invece che un pericolo? Il fatto è che, una volta finita l’appartenenza ad una classe (…) viene meno l’idea che quella classe possa essere il motore del cambiamento del lavoro, della società, della politica”». 
ALZI LA MANO chi ha letto un’analisi sociologica più puntuale dell’esito delle elezioni. La si trova all’inizio di Ma come fanno gli operai, l’ultimo libro di Loris Campetti (Manni, pp. 160, euro 14) che completa in modo coerente il lavoro cominciato tre anni fa con Non ho l’età. Perdere il lavoro a 50 anni.
Anche qui siamo dinanzi a un viaggio in un’Italia del nord (ancora) in crisi incontrando lavoratori e lavoratrici che pagano sulla loro pelle e in prima persona la lontananza della politica. Accanto agli operai più propriamente detti – quelli della ex Fiat, quelli pacifisti della Beretta, della Augusta o della Aermacchi – ci sono i ragazzi di Foodora e dei lavoretti, quelli delle ex cooperative rosse dell’Emilia. I primi sono il risultato del precariato spinto all’ennesima potenza e di un’economia che è condivisa solo quando serve a far crollare il costo del lavoro; i secondi sono il prodotto della mutazione genetica della sinistra, dell’idea alta di mutualismo svenduta alla finanza. 
CAMPETTI tratteggia con abilità un quadro tanto drammatico quanto illuminante di come l’intero modello produttivo nel giro di pochissimi anni abbia messo ai margini il lavoro e i lavoratori. Un atto di accusa non solo verso la politica – sono tutti dei ladri- perché indirizzato contro buona parte del sindacato altrettanto incapace di rappresentare chi lavora ai margini. La rivoluzione tecnologica già entrata dalle porte di tante aziende – Luxottica, Brembo – ha come prima conseguenza la solitudine del lavoratore diviso fra turni di notte e festivi e troppa stanchezza per parlare di politica alla macchinetta del caffè. 
IL CAMBIAMENTO epocale della fabbrica per Campetti è l’unica possibilità di rinascita per «la classe fantasma» in un’ottica comunque negativa: «può venirci in aiuto un’analisi delle stagioni passate, segnate dall’incapacità delle élite e della politica di prevedere il futuro» avendo come obiettivo la «parola d’ordine ormai ineludibile: lavorare meno, lavorare tutti». La conclusione è, nonostante tutto, ottimista: «Chissà che la realtà non ci sorprenda ancora», corroborata però dalla certezza che la spinta al cambiamento arriverà dalla società e non dalla politica.

La sinistra se n’è andata da sé «L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina Marco Revelli Manifesto 9.3.2018, 23:59
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza.
In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.
NON È UNA «SCONFITTA storica», come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un «esodo». Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.

Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).

D’ALTRA PARTE un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità. Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici… Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
INVECE NIENTE: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
SI DISCUTERÀ A LUNGO degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissioni di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
PER QUESTO NON BASTA fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecentoventicinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Nessun commento: