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lunedì 2 aprile 2018

Camus e la ghigliottina

Albert Camus: Ghigliottina, Medusa

Risvolto
È del 1766 il discorso dell'avvocato generale al Parlamento di Grenoble, Servan: «Drizzate le forche, accendete i roghi, portate il colpevole nelle pubbliche piazze, chiamatevi il popolo a gran voce: voi l'intenderete allora applaudire alla proclamazione dei vostri giudizi, come a quella della pace e della libertà: voi lo vedrete accorrere a questi terribili spettacoli come al trionfo della legge». Alla perorazione dell'avvocato, ripresa in seguito nei fatti e nel tono dal Terrore rivoluzionario, Albert Camus contrappone l'appello all'Europa: «Senza la pena di morte Gabriel Péri e Brasillach sarebbero forse ancora tra noi, e noi potremmo emettere senza vergogna un giudizio su di loro, secondo la nostra opinione, mentre invece sono essi che ora ci giudicano, e noi dobbiamo tacere». Sì, per il grande scrittore francese i condannati a morte ci giudicano, loro che già sono stati giudicati da una giustizia che si vuole definitiva e risarcitoria, senza comprendere che la simmetria degli omicidi annulla la possibilità stessa del risarcimento e della necessaria prevenzione dei delitti. La pena di morte non scoraggia gli assassini, si limita a moltiplicarli. A tal punto che «non è più la società umana e spontanea che esercita il suo diritto alla repressione, ma l'ideologia che, regnando, esige i suoi sacrifici umani». Un testo, quello di Camus, la cui attualità è vivissima, oggi che l'erogazione della morte per mano del boia è del tutto scomparsa in Europa ma rimane ancora nella piena disponibilità di Stati e comunità nei quali l'irriducibilità della vita umana sembra perdere il valore che aveva acquistato subito dopo l'immensa carneficina delle guerre mondiali.             

Le ragioni di Albert Camus contro la pena di morte
Torna in libreria il saggio sulla ghigliottina in cui Camus osserva come una società che adotta la condanna capitale per punire un crimine nasconda a sua volta la propria dimensione criminale
Avvenire Riccardo De Benedetti mercoledì 31 gennaio 2018


Camus e il carnefice ghigliottinato che ci giudica: dobbiamo tacere 
Diritto e ideologia. «Ghigliottina» di Albert Camus, edito da Medusa: un pamphlet scritto nel 1957 in cui il potere intimidatorio della pena di morte viene analizzato come inutilità, morale e sociale 
Roberto Andreotti Alias Domenica 1.4.2018, 0:13 
«La malattia dell’Europa si chiama non credere a nulla e pretendere di saper tutto». Così Albert Camus (1913-1960) scriveva profeticamente nel saggio Réflections sur la guillotine che conobbe un’articolata vicenda editoriale. Manès Sperber, amico di Malraux, decise di far tradurre in Francia Reflections on hanging (1955) che raccoglieva gli scritti che Arthur Koestler aveva dedicato al tema della pena di morte sull’«Observer» e chiese a Camus di comporre un testo da accompagnare a tale opera. Approntato all’inizio del 1957, il saggio apparve nei numeri di giugno e luglio della «Nouvelle Revue Française» per essere infine, nello stesso anno, accolto in volume da Calmann-Lévy con il titolo Réflections sur la peine capitale. Oltre allo scritto di Camus e alla traduzione parziale del testo di Koestler figurava un’indagine sulla pena di morte in Francia curata da Jean Bloch-Michel che firmava anche una breve prefazione. Ora le Edizioni Medusa ripropongono meritoriamente con il titolo La ghigliottina Riflessioni sulla pena di morte (pp. 108, € 13,00) il pamphlet di Camus nella valida traduzione di Maria Lilith allestita per Longanesi nel 1958, opportunamente rivista da Alfredo Rovatti e preceduta da una prefazione di Riccardo De Benedetti (una versione integrale del volume collettaneo uscì con il titolo La pena di morte presso Newton Compton nel 1972 e un’ulteriore trasposizione del testo di Camus, Riflessioni sulla pena di morte, vide la luce per SE nel 1993).
La tematica affrontata da Camus è quanto mai attuale e spazia da osservazioni di carattere autobiografico (il padre avrebbe assistito a un’esecuzione capitale, rimanendone fortemente impressionato) a speculazioni di stampo socio-politico che lo videro esporsi in prima persona contro la condanna a morte di Brasillach, subentrato, all’epoca del regime di Vichy, a Jean Paulhan alla guida della «NRF» e accusato di collaborazionismo: «Senza la pena di morte Gabriel Péri e Brasillach sarebbero forse ancora tra noi, e noi potremmo emettere senza vergogna un giudizio su di loro, secondo la nostra opinione, mentre invece sono essi che ora ci giudicano, e noi dobbiamo tacere». L’esecuzione capitale presuppone dunque un rapporto rovesciato tra il carnefice e i suoi giudici, laddove il primo rischia di incarnare i panni della vittima sacrificale, tenendo conto che «si applica una legge senza discuterla e i nostri condannati muoiono, diciamo così, per forza d’inerzia». Camus sostiene l’inutilità del «potere intimidatorio» di tali tecniche efferate, riportando una serie di testimonianze che potrebbero confluire in una moderna galleria degli orrori. Partendo dalla biblica legge del taglione e passando per Cesare Beccaria, Camus si avventura a descrivere come il condannato fosse una sorta di colis, sballottato prima dell’esecuzione da una cella all’altra e infine esposto al pubblico ludibrio. Con uno stile semplice ma efficace, che nulla concede sul versante demagogico, lo scrittore della Peste, insignito nello stesso 1957 del Nobel, paragona la pena di morte «a una rozza operazione chirurgica eseguita in circostanze che la spogliano di qualsiasi carattere edificante».
«Per anni e anni io non ho visto nella pena di morte che un supplizio non tollerabile per l’immaginazione e una delittuosa indolenza che la mia ragione condannava» osserva Camus, soffermandosi ad investigare come «per secoli e secoli sono stati puniti di morte delitti diversi dall’assassinio eppure la pena massima, applicata tanto a lungo, non li ha fatti sparire; da secoli gli stessi delitti non sono più puniti con la morte eppure non sono aumentati di numero e alcuni sono perfino diminuiti». Sulla falsariga di quell’Homme révolté, come si intitola la sua raccolta di saggi del 1951, che costituisce la più coraggiosa maniera di svincolarsi dal dogmatismo ideologico che imperversava in quegli anni («Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta» aveva scritto), il pensiero di Camus non poteva non affrontare un argomento spinoso quale quello della pena capitale. Sempre con un’ammirevole autonomia di giudizio e un sorprendente esprit de finesse svincolati da qualsiasi atteggiamento precostituito: «Non per questo, credo, e devo ripeterlo, che la responsabilità non esista al mondo, e che occorra compiacere la moderna tendenza ad assolvere tutti, vittime e uccisori, accomunandoli in una confusione d’ordine sentimentale fatta più di vigliaccheria che di generosità e che, in fin dei conti, arriva a giustificare anche le cose peggiori. Benedicendo a occhi chiusi si va a rischio di benedire anche un campo di schiavi, la forza vile, i carnefici organizzati e il cinismo dei mostri politici, di vendere i propri fratelli, insomma: non c’è che da guardarsi attorno». Già, non c’è che da guardarsi attorno, anche a distanza di mezzo secolo…
Pubblicato da materialismostorico alle 12:36

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Nietzsche profeta e artista decadente? Oppure filosofo-guerriero del darwinismo pangermanista? O forse teorico di un socialismo "spirituale" che fonde in un solo fronte destra e sinistra e prepara la rivincita della Germania?
Nella lettura di Arthur Moeller van den Bruck la genesi della Rivoluzione conservatrice e uno sguardo sul destino dell'Europa.

È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e i socialisti avanzano dappertutto minacciosi e leggerlo qualche anno dopo, quando la lotta di classe interna cede il passo al conflitto tra la Germania e le grandi potenze continentali? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la Prima guerra mondiale, quando una sconfitta disastrosa e la fine della monarchia hanno mostrato quanto fosse fragile l’unità del popolo tedesco?
Arthur Moeller van den Bruck è il padre della Rivoluzione conservatrice e ha anticipato autori come Spengler, Heidegger e Jünger. Nel suo sguardo, il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce alla svolta del secolo nei panni del filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi, agli esordi della Repubblica di Weimar, diventare l’improbabile teorico di un socialismo spirituale che deve integrare la classe operaia e preparare la rivincita, futuro cavallo di battaglia del nazismo.
Tre diverse letture di Nietzsche emergono da tre diversi momenti della storia europea. E sollecitano un salto evolutivo del liberalismo conservatore: dalla reazione aristocratica tardo-ottocentesca contro la democrazia sino alla Rivoluzione conservatrice, con la sua pretesa di fondere destra e sinistra e di padroneggiare in chiave reazionaria la modernità e le masse, il progresso e la tecnica.

In appendice la prima traduzione italiana dei quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck su Nietzsche.

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Heidegger il cambiavalute dell'essere




Intervento al convegno di Urbino "I poveri, la povertà", 4 dicembre 2014

S.G. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur Editore, pp. 363, euro 16: in libreria e in e-book

S.G. Azzarà, Democrazia cercasi, Imprimatur Editore, pp. 363, euro 16: in libreria e in e-book
www.democraziacercasi.blogspot.it Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno svuotato gli strumenti della partecipazione popolare, favorendo una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e spingendo molti cittadini nel limbo dell’astensionismo o nell’imbuto di una protesta rabbiosa e inefficace. Al tempo stesso, in nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica e confronto sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato. Dietro questi cambiamenti c’è però un più corposo processo materiale che dalla fine degli anni Settanta ha minato le fondamenta stesse della democrazia: il riequilibrio dei rapporti di forza tra le classi sociali, che nel dopoguerra aveva consentito la costruzione del Welfare, ha lasciato il campo ad una riscossa dei ceti proprietari che nel nostro paese come in tutto l’Occidente ha portato ad una redistribuzione verso l’alto della ricchezza nazionale, alla frantumazione e precarizzione del lavoro, allo smantellamento dei diritti economici e sociali dei più deboli. Intanto, nell’alveo del neoliberalismo trionfante, si diffondeva un clima culturale dai tratti marcatamente individualistici e competitivi. Mentre dalle arti figurative alla filosofia, dalla storia alle scienze umane, il postmodernismo dilagava, delegittimando i fondamenti e i valori della modernità – la ragione, l’eguaglianza, la trasformazione del reale… - e rendendo impraticabile ogni progetto di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata. É stata la sinistra, e non Berlusconi, il principale agente responsabile di questa devastazione. Schiantata dalla caduta del Muro di Berlino assieme alle classi popolari, non è riuscita a rinnovarsi salvaguardando i propri ideali e si è fatta sempre più simile alla destra, assorbendone programmi e stile di governo fino a sostituirsi oggi integralmente ad essa. Per ricostruire una sinistra autentica, per riconquistare la democrazia e ripristinare le condizioni di una vasta mediazione sociale, dovremo smettere di limitare il nostro orizzonte concettuale alla mera riduzione del danno e riscoprire il conflitto. Nata per formalizzare la lotta di classe, infatti, senza questa lotta la democrazia muore.

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Une critique anticonformiste de l’histoire du mouvement libéral qui remet en cause ses théoriciens principaux ainsi que les développements et les choix politiques concrets des sociétés et des États qui s’en réclament ; une grande fresque comparative, où la mise en confrontation entre le libéralisme, le courant conservateur et le courant révolutionnaire au cours des siècles, fait sauter les barrières de la tradition historiographique et dévoile le difficile processus de construction de la démocratie moderne ; l’essai d’une théorie générale du conflit qui part de la compréhension philosophique, dialectique, du rapport entre instances universelles et particularisme ; mais aussi, une application radicalement renouvelée de la méthode matérialiste historique à travers la revendication de l’équilibre entre reconnaissance et critique de la modernité. Ce sont là les idées directrices du parcours de recherche de Domenico Losurdo, l’un des principaux auteurs italiens contemporains d’orientation marxiste, déjà connu en France à travers des ouvrages comme Heidegger et l’idéologie de la guerre (PUF 1998), Démocratie ou bonapartisme (Le Temps des Cerises 2003), Antonio Gramsci, du libéralisme au « communisme critique » (Syllepse 2006) et Fuir l’histoire ? (Delga – Le Temps des Cerises 2007).

Seconda edizione 2013

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Stefano G. Azzarà: Un Nietzsche italiano. Gianni Vattimo e le avventure dell'oltreuomo rivoluzionario, manifestolibri, Roma 2011

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Stefano G. Azzarà: L'imperialismo dei diritti universali. Arthur Moeller van den Bruck, la Rivoluzione conservatrice e il destino dell'Europa, con la prima traduzione italiana de "Il diritto dei popoli giovani", di A. Moeller van den Bruck, La Città del Sole, Napoli 2011

Dialettica, storia e conflitto. Il proprio tempo appreso nel pensiero

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Presentazione della Festschrift in onore di Domenico Losurdo - VII Congresso della Internationale Gesellschaft Hegel-Marx, Urbino, 18-20 novembre 2011

Stefano G. Azzarà: Settling Accounts with Liberalism

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